VIDEOINSTALLAZIONE.
– Definizione e limiti spaziotemporali. Le origini e l’evoluzione tecnologica. Bibliografia
Definizione e limiti spaziotemporali. – Il termine video installazione abbraccia tutte le installazioni – opere ambientali che prevedono un’imprescindibile articolazione nello spazio, destinata per sua natura a mutare in ogni diversa occasione espositiva – nell’ambito delle quali sia compreso l’utilizzo del video, monocanale o a più canali. La
v. può di volta in volta declinare tale uso di immagini in movimento – associate nella maggior parte dei casi all’audio – in ‘grado assoluto’, quando cioè il video sia l’unico mezzo espressivo dell’opera, oppure in ‘grado relativo’, cioè in relazione con altri oggetti artistici (dipinti, disegni, sculture, oggetti vari, anche di uso quotidiano). Sin dai suoi esordi è apparso evidente come in questa tipologia di opere, per le quali vengono impiegate discipline non strettamente connesse al campo artistico (mass media, ingegneria e, più recentemente, informatica), si attivi una sorta di sconfinamento e di dialogo con altri linguaggi artistici: cinema in primis, ma anche teatro, musica, danza, scultura. L’uso di immagini in movimento, declinate in un’ambientazione spaziale sempre inedita ed estremamente connotata, crea pertanto un’esperienza immersiva e totale, sovente interattiva, quale che sia l’equipaggiamento utilizzato. Per equipaggiamento si intendono i differenti dispositivi tecnologici attraverso i quali il video viene riprodotto e l’audio diffuso (TV, schermo, hardware, amplificatori), le apparecchiature usate per la riproduzione del segnale audiovisivo (proiettore, videoproiettore, videoregistratore, lettore DVD o di Flash card), nonché il supporto su cui il video è trascritto (nastri a bobina aperta, U-matic, Betamax, VHS, Betacam, Digital Betacam, DVD, Flash card). Volendo considerare tutte le possibili accezioni di v., appare corretto prendere in considerazione anche le opere nelle quali la proiezione viene effettuata utilizzando schermi non comuni e per questo particolarmente significativi: persone, come nel caso della performance di Fabio Mauri Intellettuale del 1975 (proiezione del film Il Vangelo secondo Matteo sulla camicia bianca indossata da Pier Paolo Pasolini), sebbene in questi casi sull’aspetto installativo prevalga una connotazione performativa; oppure oggetti o sculture, come in molte opere di Tony Oursler.
Chiamata in causa nelle opere videoinstallative, oltre alla dimensione spaziale, è quella temporale: sull’elemento tempo è d’altra parte posto l’accento nell’espressione timebased media, definizione alternativa a quella di videoinstallazione. In queste opere il tempo può essere manipolato abilmente dall’artista: nel caso di The greeting (1995) di Bill Viola, l’originario filmato della durata di 45 secondi è stato elaborato dall’artista per realizzare un video di 12 minuti, enfatizzando e perfezionando le qualità pittoriche di immagini in movimento che apertamente si ispirano alla Visitazione del Pontormo. Ancora un consapevole e puntuale uso del tempo dell’installazione viene abilmente manipolato nell’opera di Christian Marclay The clock (2010): il film, della durata di 24 ore, proiettato in sincrono con l’orario del la giornata reale, collaziona inquadrature di film in cui l’attore guarda l’ora oppure viene mostrato un determinato orario sull’orologio, evidenziando al contempo l’impossibilità di cogliere la totalità dell’opera. Anche in questo caso l’opera videoinstallativa costituisce una metariflessione sulla percezione, le sue ambiguità e i suoi limiti.
Le origini e l’evoluzione tecnologica. – L’origine dell’interesse dell’arte per il linguaggio della v. si può fare risalire all’epoca della nascita della televisione, diffusa a partire dagli anni Quaranta: proprio in relazione alle potenzialità comunicative ed espressive individuate in questa tecnologia e alla sua crescente diffusione, già nel 1952 un gruppo di artisti, tra cui Lucio Fontana, Alberto Burri, Gianni Dova e Tancredi Parmeggiani, firmarono il Manifesto del movimento spaziale per la televisione.
L’altro momento fondamentale per la diffusione delle immagini in movimento in ambito artistico viene comunemente individuato intorno al 1965, nel momento in cui la tecnologia delle videocamere portatili rese più immediato e semplice per gli artisti girare filmati, impiegati nell’ambito di opere videoinstallative. Quando il video, sperimentando la presa diretta in installazioni a circuito chiuso o la riproduzione di immagini precedentemente registrate, viene declinato attraverso un uso scultoreo e oggettuale dei dispositivi tecnologici, è più appropriato definire queste opere videosculture. Questo avveniva molto frequentemente nei lavori degli artisti definiti i pionieri della v. – Nam June Paik, Bruce Nauman, Dan Graham, Wolf Vostell – che negli anni Sessanta e Settanta sperimentarono le potenzialità scultoree dei monitor, valorizzando al contempo anche gli effetti luministici prodotti dallo schermo acceso. Questi artisti erano attratti dalla valenza oggettuale della TV e da tutti i suoi possibili valori estetici, sociologici o semantici, sebbene in alcuni casi il ricorso alle nuove tecnologie non sia stato scevro da implicazioni ironiche o polemiche. Nonostante nel corso degli anni Novanta la tecnologia digitale abbia pressoché soppiantato quella analogica, a partire da quegli anni e fino ai nostri giorni si è registrato il frequente ricorso nei linguaggi artistici a dispositivi tecnologici ormai obsoleti, come la pellicola o il televisore a tubo catodico: la scelta di una tecnologia in disuso, consapevolmente operata dall’artista, tradisce riferimenti legati al significato dell’opera, al suo messaggio, a un’idea di nostalgia carica di echi lontani. Da parte di Rosa Barba, per es., il costante ricorso alla pellicola, che pure talvolta costituisce il supporto del filmato, come in The hidden conference: about the dis continuous history of things we see and don’t see (2010), non necessariamente è legato alla riproduzione di video: in Invisible act (2010) la qualità installativa dell’opera è affidata allo scorrimento della pellicola nel proiettore, che produce una particolare suggestione luministica e sonora. Anche nell’opera Column (2009), l’artista turco Kutluğ Ataman ha composto in una forma cilindrica, citazione delle antiche colonne istoriate come la Colonna Traiana, 42 televisori a tubo catodico che riproducono altrettanti ritratti, iconici nella loro fissità.
L’evoluzione delle tecnologie ha favorito la creazione di v. sempre più smaterializzate, sovente interattive, come nel caso delle creazioni di Studio Azzurro, un collettivo fondato a Milano nel 1982 da Fabio Cirifino, Paolo Rosa e Leonardo Sangiorgi. Studio Azzurro, la cui attività ha spaziato tra la realizzazione di mostre temporanee (Fabrizio De André, 2011), musei (Museo Laboratorio della mente, 2008) e opere, come quella presentata in occasione della LV Biennale di Venezia (La creazione, 2013, Padiglione della Santa Sede), definisce i lavori di questi ultimi anni «ambienti sensibili».
Da quanto sin qui esposto si comprende come la rapida obsolescenza di equipaggiamenti e supporti non esaurisca le problematiche conservative delle v., insite peraltro nell’indefinitezza della relazione, anche spaziale, tra i vari elemen ti che costituiscono un’opera videoinstallativa. Documentare le opere, anche raccogliendo le intenzioni dell’artista attraverso l’intervista, è ormai unanimemente considerata un’efficace strategia conservativa, mentre per ovviare all’obsolescenza esistono diversi approcci che vanno dalla raccolta di scorte di tecnologie in disuso al backup delle tracce audiovideo effettuato con metodologie differenti.
L’uso terminologico di v., come per molti versi anche quello di videoarte, è stato posto in discussione a partire dagli anni Novanta nell’ambito di alcuni ambienti critici, che in alternativa proponevano espressioni come new media art, time-based media o installazione audiovideo. D’altronde, ognuna di queste definizioni sembra non esaurire tutte le possibili casistiche di un linguaggio artistico i cui contorni, proprio per la sua specifica natura di crocevia di più discipline, appaiono costitutivamente fluttuanti e indefiniti.
Bibliografia: The art of Bill Viola, ed. C. Townsend, London 2004 (trad. it. Milano 2005); P. Laurenson, Authenticity.Change and loss in the conservation of time-based installations, «Tate papers», 2006, 6 (trad. it. in Tra memoria e oblio, a cura di P. Martore, Roma 2014, pp. 147-65); Arte contemporanea e tecniche. Materiali, procedimenti, sperimentazioni, a cura di S. Bordini, Roma 2007; Tracce, sguardi e altri pensieri, a cura di B. Di Marino, Milano 2007; New media in the white cube and beyond, ed. C. Paul, Berkeley (Cal.) 2008; I. Ratti, La specificità della videoinstallazione, in Monumenti effimeri. Storia e conservazione delle installazioni, a cura di B. Ferriani, M. Pugliese, Milano 2009, pp. 130-66; Inside installations. Theory and practice in the care of complex artworks, ed. T. Scholte, G. Wharton, Amsterdam 2011; Medienkunst Installationen. Erhaltung und Präsentation. Konkretionen des Flüchtigen, hrsg. R. Buschmann, T. Caianiello, Berlin 2013; Preserving and exhibiting media art. Challenges and perspectives, ed. C.G. Saba, J. Noordegraaf, B. Le Maître et al., Amsterdam 2013.