Vicino Oriente antico. Il computo del tempo
Il computo del tempo
di Maria Giovanna Biga
Le unità di misura del tempo presso le popolazioni del Vicino Oriente antico erano il giorno, il mese e l'anno. In Mesopotamia, il giorno (sumerico ud, accadico ūmu) iniziava al tramonto, e non al sorgere, del Sole ed era l'intervallo di tempo tra due successivi tramonti; si divideva in 12 periodi di 2 ore l'uno, valutati in base al cammino che si può percorrere in questo spazio di tempo. L'unità di misura del tempo all'interno del giorno apparteneva quindi all'ordine delle lunghezze ed era il bēru: 1 bēru equivaleva, come ora detto, a 2 ore di tempo (1/12 di giorno) e a una lunghezza di ca. 10.800 metri, appunto la distanza che si assumeva percorribile in media in due ore di marcia. Sottomultipli del bēru come unità di lunghezza erano UŠ e NINDA, pari, rispettivamente, il primo a 1/30 di bēru, il secondo a 1/60 di UŠ.
Altre determinazioni temporali nell'ambito del giorno indicavano vari momenti e condizioni particolari, quali il mezzogiorno (sumerico an-ba-ra), quando il sole raggiunge la sua massima altezza sull'orizzonte, la sera (sumerico u4-te-na), la notte (sumerico gi6-ba-a).
Anche presso gli Ebrei si riconoscono parecchie determinazioni temporali del giorno: l'aurora, il mattino, il mezzogiorno, il tramonto, la sera. La notte era divisa in tre vigilie: la prima vigilia, la vigilia della mezzanotte, l'ultima vigilia o vigilia del mattino. Queste determinazioni temporali sono verosimilmente mutuate dalla Mesopotamia. L'inizio del giorno in Israele sembra essere stato al mattino, come si deduce dall'espressione 'giorno e notte' usata per indicare la durata massima. Negli ultimi libri dell'Antico Testamento però si utilizza l'espressione 'notte e giorno'; probabilmente è prevalso il costume mesopotamico che faceva iniziare il giorno di sera.
Non si conoscono nel Vicino Oriente antico divisioni del tempo minori di due ore. Il termine aramaico ša'ah designerà l'ora soltanto in epoca molto tarda. Comunque, le popolazioni del Vicino Oriente antico avevano a disposizione vari mezzi per riconoscere le ore del giorno; infatti, già dalla metà del II millennio si diffuse l'uso di orologi solari e ad acqua (gnomoni e clessidre).
Il ciclo di sette giorni (dissociato dal periodo di una lunazione), conosciuto come 'settimana' e in uso in gran parte del mondo d'oggi, era ignorato in Mesopotamia, in quanto il calendario era legato ai fenomeni celesti. La settimana (ebraico šabu'a) è l'unica unità di tempo inferiore al mese menzionata nella Bibbia e si ritiene un'invenzione ebraica benché la sua origine sia oscura. La settimana ebraica è caratterizzata dal riposo del 7° giorno, il sabato, un'istituzione religiosa fondamentale in Israele. I nomi dei giorni della settimana basati sui nomi dei pianeti furono introdotti molto più tardi, con la settimana astrologica ellenistica, nella quale i pianeti guidavano anche le ore. Nel calendario mesopotamico aveva un ruolo speciale la Luna piena a metà del mese lunare, il 15° giorno (sumerico u4-15-kam, accadico šapattum).
Nel Vicino Oriente antico si sviluppò l'emerologia, la scienza dei giorni fasti e nefasti, di notevole importanza per le azioni umane. L'esistenza di emerologi è ben documentata da testi del I millennio a.C., soprattutto neoassiri provenienti dalla biblioteca del re Assurbanipal (668-627) a Ninive, che contengono precise indicazioni sul nome di ciascun giorno, sulla divinità cui è dedicato, sulla festa da celebrarsi in quel giorno e soprattutto sul carattere propizio oppure nefasto dei giorni. I re tenevano in gran conto ovviamente questi emerologi e partivano per la guerra nel mese dedicato a un dio favorevole e in un giorno fasto. Studi approfonditi sui testi degli archivi di Mari (XVIII sec.) hanno permesso di concludere che la credenza nell'emerologia esisteva già in epoca amorrea e sembra essere di origine semitica; non è invece attestata nella tradizione sumerica.
di Maria Giovanna Biga
I giorni formavano il mese (sumerico iti, accadico warḫu e, dalla stessa radice semitica, yrḫ a Ugarit e yeraḥ in Giudea e in Israele). Il segno per mese, iti/itud, era composto dal segno sumerico ud, giorno, con dentro il numerale 30; rappresentava quindi una nuova unità di tempo, di 30 giorni. I mesi erano 'lunari' in Mesopotamia e presso i Cananei di Siria, come pure presso gli Israeliti, in quanto ogni mese cominciava quando, dopo il periodo in cui la Luna non era stata visibile perché in congiunzione col Sole, il sottile crescente lunare appariva di nuovo e brevemente all'orizzonte occidentale, subito dopo il tramonto. Per i Mesopotamici la Luna era il dio sumerico Nanna (Sin in accadico) ed era una divinità superiore alla divinità solare; infatti il dio del Sole (Utu in sumerico, Shamash in accadico) era considerato nella mitologia sumerica il figlio della divinità lunare. Questa superiorità era evidente nel fatto che l'anno, definito dalle stagioni, era misurato con 12 cicli lunari completi; i Mesopotamici ignoravano la differenza tra questo periodo di 12 mesi lunari e la durata dell'anno solare, sia esso tropico o siderale (un anno tropico si ha col ritorno del Sole allo stesso equinozio o solstizio, un anno siderale col ritorno del Sole alla stessa stella). Essi consideravano la Luna come ciò che determina con il suo ciclo la lunghezza dell'anno; così, in un inno di preghiera alla divinità lunare scritto dal re Rim-Sin di Larsa, il dio Nanna è descritto come colui che stabilisce i mesi, che completa l'anno.
Il mese era quindi l'intervallo tra due successive apparizioni della Luna (lunazioni) e la sua durata variava tra 29 e 30 giorni; un anno durava circa 354 giorni. La lunghezza di ogni mese era determinata dalle apparizioni lunari, e non era stabilita in anticipo l'alternanza di un mese di 29 giorni e l'altro di 30 giorni. Questo modo di computare la lunghezza dei mesi secondo i cicli lunari è valido per la maggior parte degli antichi popoli del Vicino Oriente e del Mediterraneo; soltanto gli Egizi non si conformarono a questo mese lunare e scelsero una misura costante del mese, fissata in 30 giorni (v. cap. III della Sezione La scienza egizia).
Anche se la durata dei diversi mesi variava tra 29 e 30 giorni, presso gli amministratori e nei testi astronomici più semplici vigeva la convenzione di considerare il mese sempre di 30 giorni e l'anno di 360 giorni, per poter fare i bilanci di previsione, il computo delle razioni e del lavoro dei salariati. Certamente era difficile determinare la lunghezza del mese in tempo per avvertire tutti gli scribi, e inoltre il cattivo tempo poteva impedire di vedere la Luna nuova: infatti alcuni documenti sono stati datati dagli scribi al 30° giorno di un mese, anche se subito dopo si era determinato che il mese aveva soltanto 29 giorni. Per i periodi più antichi non è dato sapere se fossero i più alti funzionari del tempio o il capo degli amministratori della città o il capo degli scribi, a fare la determinazione ufficiale della Luna nuova e a informarne tutti gli scribi della città e quelli che lavoravano fuori città. È molto probabile che già dal III millennio ci fosse un coordinamento preciso, come provano, per esempio, le tavolette degli archivi della città di Drehem, scritti durante il quinto anno di regno di Amar-Sin (2042 ca.): per dieci dei 12 mesi vi sono tavolette datate al trentesimo giorno.
Ben presto fu chiaro che era necessario introdurre un mese intercalare in alcuni anni, quando sembrava necessario per assicurare la regolare cadenza di certe feste religiose legate a fenomeni stagionali, così da far corrispondere i tempi tra il fenomeno naturale e la festa. Infatti, ora noi sappiamo che 12 mesi lunari di 29,5 giorni ca. compongono un anno della durata totale di 354 giorni, cioè di 11 giorni più breve dell'anno solare (costituito approssimativamente da 365,25 giorni). Data questa asincronia, in un calendario basato sul ciclo lunare i mesi cadevano con 11 giorni di ritardo ogni anno e dopo 3 anni la sequenza dei mesi era sfasata di più di un mese rispetto alla stagione e alle attività designate in un particolare mese. Se non si fosse trovato un modo per compensare questa differenza, dopo soli 32,5 anni un dato mese sarebbe passato attraverso l'intero ciclo delle stagioni cadendo in stagioni diverse. Al fine di dare stabilità alla corrispondenza tra specifici mesi e tempi (agricoli, religiosi, fiscali) dell'anno fu aggiunto un tredicesimo mese intercalare; ci si avvicinava così all'anno solare, anche se l'intercalazione era riferita sempre alla Luna, ossia consisteva nell'aggiungere un ciclo lunare completo in un determinato anno. In tal modo, l'anno mesopotamico era in effetti un anno solare adattato a una divisione di mesi lunari.
L'ordine d'inserire un mese intercalare arrivava direttamente dal re. Si sono ritrovati documenti che attestano la procedura dell'epoca di Hammurabi di Babilonia (1792-1750), di Nabonedo (555-539), Ciro il Persiano (538-530), Cambise (529-522). I mesi intercalari erano chiamati con lo stesso nome del mese precedente e si aggiungeva il numero 2 (sumerico min, accadico šina) per indicare la ripetizione, oppure si aggiungeva il termine sumerico diri, accadico watrum, 'supplementare', oppure tašnit, 'secondo', per distinguerlo dal precedente. In particolare, diventava necessario aggiungere il mese intercalare quando gli eventi stagionali ciclici e fissi, come il raccolto o la stagione delle piogge, risultavano cadere fuori dal calendario di culto. Quindi normalmente le città aspettavano la fine dell'anno (che cadeva nei nostri mesi di febbraio-marzo) per aggiungere il mese intercalare. Tuttavia i calendari mensili (v. oltre) di alcune città, quali Mari, Sippar ed Eshnunna, documentano che il mese intercalare poteva essere inserito in diversi momenti dell'anno, per esempio dopo il primo mese; a Mari era previsto inoltre un secondo mese intercalare. Il calendario lunare in uso nell'Assiria del II millennio non usava il mese intercalare, venendo così ad avere una notevole discrepanza rispetto al calendario solare: gli anni solari erano identificati dall'eponimo (v. oltre) ed erano coordinati con i mesi lunari. L'uso del mese intercalare non è documentato in città quali Nuzi e Alalakh, ma la documentazione non è sufficiente per concludere con sicurezza che tale mese non esisteva.
Per molto tempo l'intercalazione fu irregolare; nella prima metà del II millennio si ritrovano anche quattro anni senza intercalazione oppure due anni intercalari di seguito. Questa variazione non doveva funzionare molto bene perché ci sono pervenute delle regole, risalenti forse al 1000, per determinare l'intercalazione in base all'apparizione di alcune stelle dopo la loro congiunzione col Sole. Se applicate sistematicamente, queste regole avrebbero dovuto rendere l'anno lunare molto simile a quello solare. Senza dubbio l'intercalazione fu molto più regolare nel VII-VI sec.; a partire dal 500 a.C. nei calendari civili e nei testi astronomici è utilizzato uno schema per l'intercalazione basato su un ciclo di 19 anni, di cui 7 intercalari: questo schema mantiene l'anno medio in accordo con le stagioni, quasi come l'attuale nostro calendario gregoriano. Tuttavia, l'invenzione del ciclo di 19 anni deve essere precedente al 500; questo ciclo è collegato al ciclo di 18 anni dell'eclissi, documentato a partire dall'VIII secolo. Alcuni studiosi propongono di considerare l'inizio del regno di Nabonassar (747) come il momento in cui gli astronomi babilonesi cominciarono a riconoscere (dopo centinaia di anni di osservazioni della volta celeste) che 235 mesi lunari avevano esattamente lo stesso numero di giorni di 19 anni solari. Il mese addizionale era inserito dopo il sesto mese o dopo il dodicesimo mese del calendario babilonese. Dal 367, ma forse già dal 383, questa procedura divenne una realtà stabile. Dalle tavolette cuneiformi si possono ricostruire i sistemi dei calendari mensili usati nei diversi periodi della storia del Vicino Oriente antico. Questi calendari sono una fonte importante per lo studio del culto, delle feste (sempre religiose) che scandivano l'anno nel Vicino Oriente antico e delle divinità più venerate del pantheon.
Ogni mese era identificato con un nome proprio che faceva per lo più riferimento a un'attività agricola da compiersi in quel mese oppure, più spesso, a una festa religiosa in onore di un dio. Riconoscere l'etimologia del nome del mese è tuttavia difficile; inoltre, poiché il nome del mese è sintetico, menziona soltanto un carattere distintivo di un rituale e quindi risulta arduo individuare esattamente al rituale di quale festa si riferisca. Durante tutta la storia del Vicino Oriente antico i nomi dei mesi furono scritti prevalentemente con logogrammi sumerici, anche se dal II millennio in poi furono letti in semitico. Questa resa logografica, utilizzata anche per i nomi dei mesi del calendario comune a tutta la Mesopotamia nel I millennio, è un'ulteriore difficoltà per la comprensione del significato dell'etimologia del nome del mese, dal momento che il logogramma aveva un valore ormai desueto ed era letto in accadico. Normalmente il nome del mese è reso con una costruzione genitivale: 'mese di …'.
di Maria Giovanna Biga
La più antica attestazione di un nome di mese proviene dal Sud della Mesopotamia, dai testi della città di Fara, antica Shuruppak. In un testo della metà del III millennio compare il nome iti a-DU-gir5ku6: il mese prende nome da un pesce, a-DU-gir5 che aveva probabilmente importanza nell'economia o un significato nel culto.
Il calendario semitico del III millennio e i calendari locali
Già a partire dalla metà del III millennio è documentato un calendario mensile che attribuisce a ogni mese un nome semitico riferito a lavori agricoli o pastorali. Questo calendario semitico era comune a una vasta area che comprendeva la Siria e la Mesopotamia centrale e settentrionale, essendo attestato su tavolette provenienti da Ebla, Mari, Gasur (più tardi Nuzi in alta Mesopotamia), Babilonia (Abu Salabikh, Adab, Girsu, Nippur, Umma) e Eshnunna intorno alla metà del III millennio. Mentre la sequenza dei mesi del calendario è sicura perché diversi resoconti plurimensili di Ebla elencano i mesi in ordine cronologico, non vi è accordo, tra gli studiosi, su quale fosse il primo mese dell'anno. Alcuni mesi fanno sicuramente riferimento alla raccolta dei primi frutti (XI) e dei frutti maturi (XII), alla produzione del burro (VIII) e ad altre attività agricole, ma in molti casi l'etimologia del nome del mese resta incerta.
A Ebla è documentato anche un altro calendario mensile, agricolo e cultuale, nel quale hanno grande spazio le feste religiose in onore delle divinità locali di questa città. In un primo tempo si era pensato che si fosse in presenza di una riforma da un calendario vecchio a un calendario nuovo. Si è invece compreso in seguito che si trattava di due calendari entrambi usati in testi contemporanei: il calendario comune in uso in quel tempo in gran parte del Vicino Oriente antico e il calendario locale di Ebla. I mesi del calendario locale eblaita di cui si può con qualche certezza capire il significato si riferiscono alla festa del dio Adamma (I), alla mietitura (II), alla festa della dea Ishkhara (III), all'offerta per il dio Kamish (IV), alla festa per il 'Signore' (V), all'offerta per il dio Ashtabil (VI), all'offerta per il dio Hadad (VIII), alla festa per l'apertura della porta (del tempio) (XI), alle offerte di cibo (XII). Resta da chiarire ogni quanti anni venisse introdotto il mese intercalare. In un lungo testo, che è servito a compilare la lista dei mesi eblaiti, esso figura negli anni 3, 5, 7 (Tav. IA).
Dai testi (recentemente ritrovati e studiati) di Tell Beydar, l'antica Nabatium dei testi di Ebla, una città dello Stato di Nagar, nella valle del Khabur, risulta che in questa città era in vigore un calendario locale, nel quale tutti i nomi dei mesi contengono un nome divino; non vi è traccia invece del citato calendario semitico comune del III millennio. Nel Sud della Mesopotamia, nel periodo dal 2400 al 2200, furono in uso calendari locali sumerici, documentati da tavolette d'archivio provenienti soprattutto dalle città di Adab, Lagash, Nippur, Umma, Ur. In particolare, l'abbondante documentazione testuale presargonica di Lagash fornisce una trentina di nomi di mesi, a riprova del fatto che le varie città che componevano lo Stato di Lagash avevano ciascuna un calendario locale. Tra i nomi di mesi di Lagash parecchi ricordano feste per le maggiori divinità, tra cui quella del dio Ningirsu a Girsu che prevedeva il consumo di orzo e malto (come ricorda il nome del mese), la festa per la dea Nanshe a Nina e la festa di Baba a Lagash. Più a nord, a Nippur, la città sede del tempio Ekur, il maggior santuario del dio capo del pantheon sumerico, Enlil, venerato da tutte le genti mesopotamiche, un calendario locale è già enucleabile in periodo presargonico e molti nomi di mesi di questo calendario sono passati al calendario di epoca sargonica e poi a quello di Ur III. Infine, è stato identificato un calendario in uso a Ur in periodo presargonico: la maggior parte dei nomi di mese del calendario presargonico passarono nel calendario di Ur usato nel periodo della III dinastia di Ur.
L'unificazione del calendario sotto la III dinastia di Ur
La III dinastia di Ur (2100-2004) ha lasciato la più abbondante documentazione testuale di tutto il Vicino Oriente antico: decine di migliaia di tavolette, in gran parte economiche, conservate ora in svariati musei del mondo e in molte collezioni private, tutte datate con il nome del mese e dell'anno e, nel caso degli archivi reali di Ur e del centro minore di Puzrish-Dagan (vicino a Nippur), anche con il giorno. Di moltissimi testi non si conosce la provenienza, perché frutto di scavi clandestini, o perché se ne è persa la traccia dell'origine. è quasi sempre possibile comunque comprenderne la provenienza con lo studio della prosopografia, ossia dal riconoscimento di personaggi, luoghi, ecc., ma soprattutto grazie al calendario mensile utilizzato dallo scriba. Si sono infatti riconosciuti alcuni sistemi di calendario che contraddistinsero le principali città dell'impero. Quello di Ur, la città capitale, fu adottato anche nel centro di Puzrish-Dagan, l'attuale Drehem, un piccolo villaggio che sotto il re Shulgi fu scelto come luogo di raccolta di bestiame grosso e minuto e che ebbe un grande ruolo economico, lasciando così moltissime tavolette con datazione mensile. Altri calendari furono in uso a Lagash, Umma, Nippur. Ad Adab si riscontrano mesi di calendari diversi usati dagli scribi, e in alcuni archivi, come quello ritrovato nel tell di Ishan Mizyad (vicino a Kish), oppure in archivi di alcuni alti funzionari o personaggi della famiglia reale, come Turam-ili e Shulgi-simtum, si adottarono calendari misti.
Al re Shulgi, il secondo re della III dinastia di Ur, che organizzò l'impero unificando i sistemi amministrativi del Sud e del Nord, introducendo un nuovo sistema di tassazione, creando un enorme apparato burocratico e scuole scribali e riorganizzando il sistema dei pesi e delle misure, è da attribuire l'introduzione di un nuovo calendario, il cosiddetto Reichskalender (calendario regale), che divenne il calendario ufficiale per tutta la dinastia di Ur e in tutto lo Stato (Tav. I B). In esso, dopo il ventesimo anno di regno di Shulgi, un nome di mese ricordava la festa del re divinizzato, e anche i successori Amar-Sin e Shu-Sin furono divinizzati e un nome di mese ricordò la loro festa. In realtà solamente a Ur e a Puzrish-Dagan era usato esclusivamente questo calendario: anche se il sistema di calendario di Ur divenne prevalente, continuarono a esistere i calendari locali. Quello di Shulgi, quindi, fu soltanto un tentativo di unificazione del calendario, necessario al buon funzionamento dell'apparato statale.
di Maria Giovanna Biga
Dopo la caduta dell'impero di Ur, alla fine del III millennio, sopravvisse il solo calendario sumerico di Nippur, adottato da Ishbi-Erra di Isin (2017-1985) e da lui probabilmente diffuso in tutte le città e i villaggi della Mesopotamia del Sud; vista la sua grande diffusione si può considerare il calendario di Nippur il vero Reichskalender. Tale calendario fu introdotto anche nella regione della Diyala, fu adottato dalla I dinastia di Babilonia e divenne il più diffuso in Mesopotamia nei primi tre secoli del II millennio. Durante il regno di Samsu-iluna di Babilonia (1749-1712) i nomi dei mesi del calendario di Nippur furono usati come logogrammi per indicare i mesi del calendario mesopotamico standard, usato nel seguito, fino alla fine del I millennio, in tutta la Mesopotamia (v. oltre).
Nella Mesopotamia del Nord, nei primi tre secoli del II millennio, molte città utilizzavano calendari semitici, variazioni di un calendario semitico comune (ormai completamente scomparso) che non era più quello usato a Ebla e in altri centri. È molto probabile che questi nuovi calendari siano stati introdotti dalle tribù amorree, semitiche occidentali (mar-tu in sumerico, amurru in accadico) immigrate in Mesopotamia, che raggiunsero presto il potere politico in una vasta area che comprendeva l'Assiria, l'Eshnunna e la Babilonia. Un'ulteriore indicazione che questi calendari erano di origine occidentale viene dal nome di mese Niqmum, un termine semitico per indicare 'vendetta', non documentato nei testi accadici, ma frequentemente presente nei nomi propri amorrei. Sono documentati calendari locali amorrei a Eshnunna, Nerebtum, Shaduppum, e in tre importanti centri siriani, Shubat-Enlil (Tell Leilan), la capitale dell'impero di Shamshi-Adad, Tell Rimah e Chagar-Bazar, fu usato lo stesso calendario (Tav. IIA). L'ultima attestazione di questi calendari amorrei si ha con il regno di Samsu-iluna (1749-1712) di Babilonia.
Altri calendari locali del II millennio
Vi sono anche testimonianze di diversi calendari locali di questo periodo. Sippar, città situata proprio al confine tra zone di influenza di due diversi calendari, in virtù di questa sua posizione mantenne fino a tutto il regno di Samsu-iluna di Babilonia due sistemi di calendario: il calendario sumerico del Sud della Mesopotamia e un calendario misto che aveva nomi di mese dal calendario sumerico e un mese della regione della Diyala. Con il regno di Samsu-iluna anche a Sippar il calendario locale cadde in disuso e venne adottato il calendario mesopotamico standard. I testi degli archivi di Mari (XVIII sec.) documentano sia un calendario locale paleobabilonese utilizzato in tutto il periodo degli archivi, sia il calendario amorreo di Shubat-Enlil utilizzato solamente nel periodo in cui Mari era sotto il controllo assiro del figlio di Shamshi-Adad, Yasmakh-Addu. Nella menologia di Mari sono attestate parecchie feste in onore di divinità tra cui il dio semitico-occidentale Dagan e la dea Belet-biri, la signora dei pozzi. In alcune città quali Nuzi, in alta Mesopotamia, a est del Tigri, Emar, in Siria sull'Eufrate, Alalakh, in Siria sulla costa mediterranea, che ebbero popolazione semitica e hurrita, furono utilizzati insieme calendari semitici e hurriti.
Dai testi di Ugarit del XIV e XIII sec. è possibile conoscere i dodici nomi di mesi usati nel calendario ugaritico. I nomi di mese sono scritti utilizzando la costruzione genitivale 'mese (yrḫ) di …'. Si conoscono undici nomi di mese (scritti nell'alfabeto ugaritico che utilizzava la scrittura cuneiforme), diversi dai mesi del calendario mesopotamico standard: gn, ḥlt, ḫyr, ib῾lt, iṯb, iṯtbnm, mgmr, nql, pgrm, riš yn, šm […]. Alcuni di questi nomi di mese compaiono anche scritti in accadico; un ulteriore nome di mese, išigu, ricorre soltanto in accadico. Alcuni nomi del calendario ugaritico ricordano rituali semitico-occidentali comuni ad Alalakh (ḫyr, iṯb, pgrm), Emar (nql), Terqa e Mari (pgrm).
I calendari assiri
Infine, in Cappadocia, all'inizio del II millennio, a Kültepe, l'antica Kanesh, una delle colonie commerciali assire, fu utilizzato un calendario paleoassiro che aveva chiaramente origine dalla madrepatria. Poco dopo anche a Khattusha, la capitale hittita, e ad Alishar fu utilizzato un calendario assiro. Nel periodo in cui l'amorreo Shamshi-Adad e suo figlio Ishme-Dagan (1813-1741) ebbero il dominio sull'Assiria fu introdotto un calendario ufficiale amorreo; ma con la fine della loro egemonia politica in Assiria, a partire dalla metà del XVIII sec., fu adottato un calendario ufficiale assiro, che era l'evoluzione del precedente calendario paleoassiro (Tav. IIB). Questo calendario fu utilizzato per molti secoli e soltanto durante il regno di Tiglat-pileser I (1115-1077) fu abbandonato per usare il calendario standard della Mesopotamia.
di Maria Giovanna Biga
I mesi del calendario sumerico di Nippur diffuso nel II millennio in tutto il Sud della Mesopotamia, scritti con logogrammi sumerici, costituirono la base per la creazione del calendario mesopotamico standard che divenne il calendario comune a pressoché tutto il Vicino Oriente antico nel I millennio. I nomi dei mesi erano comunque letti in semitico. Molto probabilmente l'introduzione del calendario mesopotamico standard avvenne durante il regno di Samsu-iluna di Babilonia (1749-1712); fu utilizzato in epoca cassita e poi anche dagli Assiri a partire dal regno di Tiglat-pileser I (1115-1077). La natura di questo calendario è ibrida e dimostra che fu elaborato per unificare le datazioni di tutta la Mesopotamia. In alcuni periodi durante l'impero neoassiro, forse di accentuata ostilità verso Babilonia, furono usati anche altri nomi di mese di provenienza straniera, per esempio elamica. Parecchi mesi hanno nomi semitici e provengono dal calendario semitico mesopotamico (Tamuzu, Abu), ma alcuni hanno provenienza straniera, anticopersiana (Araḫsamna), orientale, da Susa e Anshan (Šabāṭu e Addaru), e altri sono di origine occidentale (Nisannu): la loro è stata quindi una creazione artificiale. L'uso di logogrammi sumerici di un antico calendario sumerico per il nuovo calendario era la continuazione di una tradizione scritta e orale che riportava alla venerata città di Nippur e alla sua importante scuola scribale.
Gli Ebrei, che dapprima usavano per i mesi nomi cananei che ricordavano, come nei calendari semitici, le varie fasi delle stagioni e dei lavori agricoli, durante o più probabilmente dopo l'esilio in Babilonia adottarono il calendario standard mesopotamico; così fecero anche i Nabatei, i Palmireni e altri popoli che parlavano l'aramaico. L'adozione del calendario mesopotamico da parte di queste popolazioni portò a qualche variante, ma sostanzialmente il calendario standard mesopotamico unificò veramente il computo del tempo nel Vicino Oriente antico del I millennio. Gli Ebrei tuttavia non adottarono esattamente il calendario standard mesopotamico, probabilmente perché ricordava culti pagani, e contraddistinsero i mesi con numeri ordinali, cioè dal primo al dodicesimo. Soltanto parecchio tempo dopo l'esilio le designazioni babilonesi dei nomi di mese divennero correnti (Tav. II C).
di Maria Giovanna Biga
L'anno (sumerico mu, accadico šattu) nel calendario lunisolare era riconosciuto come un intervallo tra i successivi ritorni delle stagioni. I Mesopotamici dividevano l'anno solamente in due stagioni: estate (emeš), cioè la stagione calda e la stagione del raccolto, periodo che iniziava all'incirca a marzo, e inverno (enten), la stagione fredda, che iniziava all'incirca a settembre. Oltre al ciclo delle stagioni connesso a quello lunare, i Mesopotamici seguirono un altro ciclo: il ciclo degli equinozi, cioè il periodo in cui la Luna e il Sole si vedono insieme nel cielo.
L'equinozio, che si verifica ogni sei mesi, ebbe grande importanza nella determinazione del calendario di culto in tutto il Vicino Oriente antico. In molti luoghi è evidente che sia durante l'equinozio di primavera (il 21 marzo ca.), sia durante l'equinozio di autunno (il 23 settembre ca.), cioè al settimo mese, si tenevano le due più importanti feste dell'anno: forse, più che segnare l'una l'inizio dell'anno e l'altra la metà dell'anno, entrambe queste feste erano considerate dagli antichi Mesopotamici come feste di inizio nell'anno di due periodi di sei mesi ciascuno. Il termine sumerico mu-an-na indicava probabilmente questo periodo di sei mesi, mentre mu indicava l'anno intero. La festa mesopotamica dell'equinozio era la festa dell'akītu, la più documentata fin da testi del III millennio, e la più nota in ogni dettaglio in testi tardi; durava parecchi giorni, nei quali si svolgevano molti rituali, celebrati secondo rigorose prescrizioni. C'erano rituali di rinnovamento, di purificazione e di fertilità; un momento importante era la processione della statua del dio principale che usciva dalla città per consentire la purificazione rituale del tempio e della città e che poi rientrava a riprendere possesso di entrambi. Anche gli Ebrei riconobbero il ciclo degli equinozi e stabilirono la festa del primo mese (la 'festa degli azzimi', cioè dei pani non lievitati), dei primi frutti, della mietitura (equinozio di primavera) e la festa del raccolto (equinozio d'autunno).
Per tutta la storia del Vicino Oriente antico fino agli ultimi secoli del I millennio, l'anno iniziava in primavera, nel mese di Nisannu del calendario mesopotamico standard (marzo-aprile). Il primo giorno dell'anno cadeva attorno all'equinozio di primavera, ma variava leggermente. Durante il periodo neobabilonese, tra il 626 e il 536, il 1° del mese di Nisannu poteva cadere tra l'11 marzo e il 26 aprile. Il concetto di inizio dell'anno era fondamentale per vari ordini di motivi: per contare e chiamare gli anni, per l'inizio dell'anno fiscale, ossia per redigere resoconti annuali di entrate e uscite di beni e per le previsioni per l'anno che si apriva, per l'inizio dell'annuale ciclo religioso e agricolo. I Sumeri chiamarono l'inizio dell'anno zag-mu, letteralmente 'limite/lato dell'anno'; da questo nome derivò la designazione accadica per l'anno nuovo zagmukku.
I Mesopotamici hanno utilizzato due modi principali per isolare gli anni nel flusso continuo del tempo. Gli anni sono stati numerati e contati da un punto di partenza arbitrario, per esempio l'inizio del regno di un sovrano. Alla fine dei testi presargonici di Lagash, un numero indica il numero di anno di regno del sovrano regnante. Quasi contemporaneamente, verso il 2400 e il 2350, a Uruk, Ur, Nippur in Mesopotamia e a Ebla in Siria si cominciò a diffondere l'abitudine d'indicare l'anno facendo riferimento a un avvenimento notevole accaduto in quell'anno o nell'anno precedente. In genere era un evento di natura religiosa, civile o militare: la costruzione di un tempio o di qualche sua parte o arredo o statua per esso, lo scavo di un canale, una vittoria e così via; per esempio 'anno in cui la grande sacerdotessa del dio Nanna è stata scelta in base all'oracolo', 'anno in cui il re x ha costruito il tempio x al dio x', 'anno in cui la città x è stata sconfitta', 'anno in cui la città x è stata distrutta', ecc. Questo sistema di indicazione degli anni in seguito si generalizzò, e durò fino verso il 1600, ma è documentato sporadicamente ancora fino al XIII secolo. Da quel periodo in poi il sistema di computo degli anni avvenne in base agli anni di regno dei sovrani, a partire dal primo anno di regno completo. Gli scribi compilavano delle liste di nomi d'anno ordinati cronologicamente, di diversa lunghezza. Lo scopo era soprattutto amministrativo e giuridico, ma le dimensioni di certe lunghe liste (che arrivano fino a più di 160 anni) fanno pensare anche a un intento storiografico. Queste liste sono una fonte importante per lo storico, anche se non sono esenti da errori e il loro contenuto va confrontato con i documenti contemporanei.
In Assiria il nuovo anno incominciava in autunno ed era utilizzato un particolare sistema di datazione, mantenuto nel corso di un millennio e mezzo, cioè il sistema eponimico: gli anni erano designati dal nome di un alto dignitario dello Stato, il līmu. All'inizio i nomi di questi eponimi erano scelti a sorte, ma più tardi furono designati secondo un ordine gerarchico rigoroso, che solamente il re poteva a volte cambiare.
Un altro uso diffuso in Mesopotamia era quello di compilare liste di dinastie che avevano regnato fin dai tempi più antichi. In esse erano elencati i re seguiti dai loro anni di regno; quasi sempre, alla fine, dopo ogni dinastia, lo scriba ricapitola il numero dei re e il tempo totale della durata del loro regno. Altri documenti, fatti compilare dai re in occasione di qualche avvenimento, menzionavano il tempo trascorso dall'ultimo fatto degno di nota. Gli scribi commettevano errori e compivano anche volutamente delle omissioni; si sono ritrovati anche testi dello stesso genere con datazioni discordi circa il numero dei re e i loro anni di regno. Inoltre, certe liste redatte dagli scribi elencano come successive dinastie che sono state contemporanee, come nel caso della Lista reale sumerica. In questo celebre testo, redatto alla fine del III millennio, s'inizia con l'enumerazione di sovrani che hanno regnato prima del diluvio universale, ai quali è attribuito un numero d'anni assolutamente inverosimile: più di 10.000 anni. Dopo il diluvio, le dinastie menzionate hanno sovrani il cui regno ha una durata molto più ragionevole e verosimile. Con Sargon di Akkad e i suoi successori le date si fanno precise, si possono confrontare con i nomi d'anno e risultano coincidenti. Tuttavia, il principio teologico su cui è basata la lista reale sumerica, che considera la regalità come divina e quindi come tale presente sulla Terra soltanto in una città per volta, ha portato lo scriba a mettere in sequenza dinastie che sono state contemporanee. Tutte le liste sono comunque state utili per inquadrare i sovrani nella relativa cronologia.
Gli Ebrei datavano gli anni in base all'anno di regno di ogni re, sia in Israele sia nel regno di Giuda. L'Antico Testamento documenta delle variazioni circa l'inizio dell'anno presso gli Ebrei: alcuni passi sembrano fare riferimento a un anno che comincia in primavera, mentre altri passi, forse più antichi, sembrano riferirsi a un inizio d'anno in autunno, con la festa della raccolta. I due più antichi calendari liturgici sembrano far iniziare l'anno in autunno. Con l'adozione del calendario mensile babilonese s'introdusse l'inizio d'anno in primavera e il computo dei giorni da sera a sera. L'anno sabatico, anch'esso un'istituzione tipica degli Ebrei, era caratterizzato da un riposo del suolo e da una liberazione degli schiavi israeliti, cui erano anche condonati i debiti. Il ciclo di sette anni s'ispira probabilmente alla settimana di sette giorni in cui il settimo giorno, il sabato appunto (da cui deriva 'sabatico'), è il giorno del riposo. Ogni cinquant'anni inoltre si celebrava l''anno giubilare', che prevedeva un affrancamento di tutto il paese: le terre restavano incolte, tutti i debiti erano condonati e ognuno rientrava in possesso del suo patrimonio. Ci sono dubbi tuttavia sull'applicazione pratica delle prescrizioni relative all'anno giubilare, che resta comunque un'istituzione molto tarda.
di Antonio Panaino
Le letterature dell'Iran antico e delle altre tradizioni parallele hanno tramandato materiale sufficiente alla ricostruzione di alcuni sistemi calendariali. In questo capitolo ci occuperemo del calendario zoroastriano poiché si ritiene che esso risalga all'età achemenide o poco dopo, anche se le sue fonti appartengono soprattutto all'epoca volgare. Si farà inoltre cenno ai sistemi alternativi, alcuni verosimilmente molto arcaici, sui quali sono rimaste soltanto testimonianze frammentarie.
Il calendario antico persiano
Come in altri settori della vita civile e religiosa, gli Achemenidi per organizzare il loro calendario si sono ispirati ai contemporanei modelli mesopotamici (calendario elamico e babilonese). La grande iscrizione trilingue di Behistun (519 ca.), fatta redigere da Dario I, costituisce la fonte principale per la ricostruzione del calendario. Nel testo antico persiano sono indicati soltanto otto dei 12 nomi dei mesi, mentre un nono, *Vṛkazana-, o, forse, *(H)uvarkajana, è stato ricostruito sulla base della parallela versione elamica. Sulla base di nuove fonti accadiche e con l'aiuto di tavolette elamiche, tuttavia, è stato possibile ricostruire la corretta sequenza dei nomi dei 12 mesi (Tav. IVA).
Sebbene non si possa affermare nulla di preciso sulla data dell'introduzione del calendario antico-persiano, né sulle regole che ne caratterizzavano l'applicazione all'epoca dei primi sovrani della dinastia, si ritiene però che questo calendario fosse lunisolare, suddiviso in 12 mesi di 29 o 30 giorni ciascuno, e che le necessarie intercalazioni venissero disposte su base empirica. I 30 giorni del mese erano soltanto enumerati ma non denominati, fatta eccezione per l'ultimo, Jiyamna ('il decrescente'?), cui corrispondeva, nella versione babilonese, "il trentesimo giorno di Ajaru".
Sui sistemi di intercalazione si riscontrano opinioni discordanti, a causa della scarsezza di fonti: se alcuni studiosi davano per scontato che il calendario antico persiano seguisse gli stessi criteri di quello babilonese ed elamico, altri hanno fatto notare delle discrepanze documentate per gli anni 503-499, forse dovute a incertezze prodotte dalla riforma del calendario operata nel 19° anno di regno di Dario I. Il calendario babilonese era fondato inizialmente sul ciclo lunare sinodico, con 12 mesi di 29 e 30 giorni, ai quali, almeno ogni tre anni, si aggiungevano intercalazioni empiriche dei mesi Ulūlu II e Addaru II (Tav. IV A). Dal 527 a.C., secondo un'accreditata ipotesi di Hartner (1985), sarebbe subentrato un sistema basato sulla octaeteride (8 anni con 3 intercalazioni o aggiunte di mesi: 8×12+3=99 mesi sinodici). Soltanto a partire dal 503 a.C. (27 marzo-502) sarebbe stato introdotto il ciclo di 19 anni con 7 intercalazioni (19×12+7=235 mesi), ma con la differenza che quello babilonese avrebbe intercalato nel 503-502 il mese di Ulūlū (VI), mentre nel calendario antico persiano sarebbe stato doppiato il decimo mese.
Per quanto concerne la durata del calendario antico persiano le Tavolette del Tesoro di Persepoli ne confermano direttamente l'esistenza sino al 459 a.C., mentre nei documenti aramaici, emessi dall'amministrazione achemenide tra il 471 e il 401, il calendario in uso è quello babilonese. Sembra che questa pratica, seguita anche dai Macedoni in Iran, non soltanto coprisse tutto il periodo achemenide, ma trovasse eco ancora in epoca partica e addirittura sasanide.
La testimonianza di Quinto Curzio Rufo, che attribuisce ai Persiani un anno solare di 365 giorni (Panaino1990, p. 659), sebbene sia di un certo interesse, è valutata in modi differenti; più che un riferimento al calendario antico persiano, potrebbe trattarsi di un'allusione, per quanto vaga, a quello zoroastriano.
Il calendario zoroastriano
La struttura essenziale del calendario zoroastriano comprende 12 mesi composti di 30 giorni ciascuno (v. Tav. IV B) ai quali si aggiungono 5 giorni complementari ('epagomeni'). Nell'antico Avesta non si hanno riferimenti ad alcun sistema di calendari; i primi dati emergono, invece, dalla letteratura avestica recente, la quale tramanda la lista completa dei 30 nomi dei giorni, ognuno dedicato a una divinità mazdaica. Tali nomi sono elencati in due litanie, Sīh rōzag ī xwurdag ('Il piccolo trenta-giorni') e Sīh rōzag ī wuzurg ('Il grande trenta-giorni'), che sono state tramandate anche in versione pahlavi.
Nell'Avesta manca una lista completa dei nomi dei mesi ‒ ne sono testimoniati solamente sette (v. Tav. II) ‒ la cui ricostruzione, tuttavia, è certa grazie alle numerose fonti posteriori iraniche, arabe e greche. Gli epagomeni traggono la loro denominazione di epatta gāθica (pahlavi gāhānīg) ‒ in quanto giorni intercalari ‒ dal fatto che ciascuno porta il nome di una delle Gāθā (Canti) redatte in antico avestico e attribuite a Zoroastro. Tali nomi, elencati in Āfrīnagān ī Gāhān (Geldner 1889), sono stati tramandati con numerose varianti e al-Bīrūnī (973-1048) ne elenca ben sei differenti liste. Il giorno è poi suddiviso in quattro parti (cinque in estate), dette gāh, a partire dal levare del Sole. Per quanto riguarda le stagioni, nell'Avesta l'anno è suddiviso in 10 mesi invernali e due estivi, ma già nel commentario in pahlavi allo stesso testo si aggiunge che i mesi estivi sarebbero sette, contro i cinque invernali; tale suddivisione è presente anche nel Bundahišn, ma qui si precisa che, secondo il calendario wihēzagīg, vi sono quattro stagioni di tre mesi ciascuna.
Una funzione molto importante è attribuita ai Gāhānbār, attestati sia nell'Avesta recente (Geldner 1889, pp. 270-275), sia nella letteratura pahlavi, e ricordati anche da al-Bīrūnī. Considerati di norma come feste stagionali, rappresenterebbero, secondo Hartner, una sopravvivenza del 'calendario antico avestico', poi sussunta da quello più recente, dove contrassegnavano il tramonto cosmico di alcuni asterismi, osservabili da Persepoli. Essi avrebbero costituito una sorta di scheletro per l'anno luni-solare (poi sidereo), grazie al quale erano stabilite intercalazioni empiriche. Nessuno degli asterismi indicati da Hartner è tuttavia noto nella letteratura avestica, mentre il riferimento a Persepoli come luogo di osservazione primario di un calendario 'antico avestico', quindi verosimilmente iranico orientale, sembra improprio. Le considerazioni di Hartner potrebbero assumere un altro peso, se si ammettesse che tale sistema fosse stato inglobato posteriormente nella tradizione zoroastriana.
Se non ci sono dubbi circa l'esistenza del cosiddetto 'calendario civile zoroastriano', il dibattito scientifico è impegnato a verificare l'esistenza, e quindi l'eventuale datazione, di un secondo calendario, definito 'religioso'. La differenza consisterebbe nel fatto che nel calendario civile non era prevista alcuna forma di intercalazione per recuperare il ritardo di sei ore circa accumulato ogni anno; di conseguenza tale calendario retrocedeva rispetto all'anno solare, per esempio, di un giorno ogni quattro anni e di un mese ogni 120, come un anno vago, esattamente paragonabile a quello egiziano detto 'sothiaco'. Il calendario zoroastriano civile e quello egizio risultavano pertanto analoghi; nel calendario religioso tale slittamento sarebbe stato evitato, invece, mediante l'inserzione di un mese intercalare.
La situazione è però complicata dal fatto che le fonti indicano l'uso di due differenti sistemi di intercalazione: secondo Abū ᾽l Ḥasan Kūšyār (971-1029 ca.) e al-Bīrūnī, un'intercalazione sarebbe avvenuta ogni 120 anni, in modo da recuperare le sei ore perdute annualmente. Tuttavia, sempre al-Bīrūnī, in un altro capitolo della Cronologia, afferma che il mese intercalare sarebbe stato aggiunto ogni 116 anni in modo da recuperare non soltanto 1/4 di giorno, ma anche un'ulteriore frazione di 1/5 di ora (12 minuti). Un passo del libro III del Dēnkard sembra confermare entrambi i valori: da una parte si ricorda che le frazioni accumulate di anno in anno fanno un giorno ogni quattro anni, 10 giorni in 40, un mese in 120, cinque mesi in 600 e un anno in 1440; dall'altra, si precisa che le frazioni di ora con il tempo costituiscono un giorno, se si sommano i minuti eccedenti le sei ore. È stato fatto notare che la lunghezza dell'anno misurata in 365 giorni, sei ore e 12 minuti (in frazioni di giorno uguale a 365,2583), non si discosta di molto da quella moderna dell'anno sidereo (S=365,25636), ed è tale da accumulare un errore di un giorno in circa 530 anni; inoltre, essa si accorderebbe bene con quella attestata nelle tavole astronomiche babilonesi appartenenti al cosiddetto 'sistema B' (365,2595) (Hartner 1985, pp. 763-764).
A prescindere da quale dei due sistemi fosse di fatto praticato, se si ammette l'esistenza dei due cicli paralleli, tra il calendario civile e quello religioso vi sarebbe stato uno slittamento progressivo di un mese; cioè, posto che il primo mese intercalare fosse inserito ‒ come in genere si ritiene ‒ dopo l'ultimo (cioè Spandarmad) dell'anno 120 o 116 del ciclo, da quel momento sino alla successiva intercalazione (anni 121-240 o 117-232) il primo mese del calendario religioso (ossia Frawardīn) si sarebbe trovato in corrispondenza del secondo mese di quello civile (cioè Ardwahišt). Con l'intercalazione successiva (dopo il dodicesimo mese del 240 o 232) il primo mese del calendario religioso (Frawardīn) avrebbe corrisposto al terzo del calendario civile (Kordād) e così via.
Non è però chiaro se e come fosse denominato il mese intercalare; secondo Abū ᾽l Ḥasan Kūšyār il primo mese era contato due volte, una all'inizio e una alla fine dell'anno, e i Persiani "attaccavano gli epagomeni al mese intercalare". Al-Bīrūnī, afferma, invece, nell'opera Athār-ul-Bākiya, che i Persiani "non chiamavano il mese intercalare con un nome speciale, né ripetevano il nome di un altro mese, ma lo tenevano semplicemente a memoria da un ciclo all'altro". Inoltre, al-Bīrūnī precisa che essi, "preoccupati del fatto che potesse sorgere incertezza riguardo al luogo in cui il mese intercalare dovesse essere di nuovo inserito, trasferirono i cinque epagomeni e li collocarono alla fine di quel mese al quale era avanzato il turno dell'intercalazione nell'ultima occasione".
È quindi evidente per quale ragione la data di introduzione del calendario zoroastriano sia stata strettamente connessa alle intercalazioni: infatti, si è ritenuto che se si calcola a ritroso, moltiplicando 120 (o 116) per tante volte quante indicate dalla posizione degli epagomeni nel calendario al momento dell'ultima intercalazione nota, si dovrebbe risalire alla data di inizio del ciclo. Purtroppo le fonti pongono anche in questo caso nuovi problemi; infatti Abū ᾽l Ḥasan Kūšyār afferma che all'epoca di Xusraw I (531-579) il Sole entrò in Ariete in Āḏar e l'epatta fu aggiunta dopo Ābān (ottavo mese). A causa della successiva caduta dell'impero sasanide non vi sarebbero più state intercalazioni, sino alla correzione reintrodotta nel 375 da Yezdegerdī (1006 d.C.). Al-Bīrūnī spiega invece che al tempo di Yezdegerd b. Šāpūr (= Yazdagard I, 399-420/21) sarebbero stati intercalati addirittura due mesi, uno per correggere il ritardo accumulato, l'altro per prevenire futuri errori, ma concorda sul fatto che gli epagomeni sarebbero stati collocati dopo Ābān. Nuovamente al-Bīrūnī, nel più recente Qānūn al-Mas'ūdī, sposta l'ultima intercalazione sotto il regno di Pērōz (459-484). L'esistenza di un siffatto calendario intercalare per l'epoca preislamica è stata però negata da alcuni studiosi, secondo i quali l'antico calendario civile, sicuramente di epoca achemenide, sarebbe stato modificato soltanto intorno al 500 d.C. con lo spostamento dell'inizio dell'anno dal primo al nono mese e quindi con la collocazione degli epagomeni alla fine dell'ottavo.
I risultati divergenti relativi alla storia di questo calendario sono in gran parte dovuti allo stato delle fonti, troppo recenti ‒ oltre che discordanti ‒ per imporre un consenso univoco. In ogni caso, si può assumere che l'anno vago zoroastriano esistesse dall'epoca achemenide, verosimilmente insieme ad altri sistemi di computo del tempo, mentre resta incerta l'esistenza di un calendario religioso e, in subordine, la data precisa della sua introduzione (un giudizio a tal proposito presuppone come valido il principio del computo a ritroso basato su un ciclo di 120 o 116 anni e, in aggiunta, che si stabilisca una data certa da cui farlo partire, scelta non facile dato il disaccordo delle fonti e dei sincronismi utilizzabili a questo fine).
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