Abstract
Dopo aver analizzato il problema del titolo, ossia il suo ruolo nella delineazione dei rapporti tra il diritto sostanziale ed il processo esecutivo, si espone la disciplina che per esso viene dettata nel codice di rito. Enucleato il basilare principio di tipicità, sono descritte le diverse fattispecie rientranti nel catalogo dei titoli esecutivi e le loro diversificate potenzialità. Quindi si cala il titolo esecutivo nella dinamica del processo anche al fine di verificare sia la cognizione dell’organo esecutivo in ordine alla sua esistenza sia la sua efficacia soggettiva.
A fronte di rapporti obbligatori rimasti insoddisfatti fisiologicamente, per la mancanza dell’adempimento, l’ordinamento disciplina un’attività giurisdizionale sostitutiva che ne consente la realizzazione nell’inerzia dell’obbligato: l’attività esecutiva. Questa attività, che viene svolta da un organo dello Stato anche per mezzo dell’uso della forza, pur essendo prevista al fine della realizzazione del credito, non è condizionata al suo interno dall’esistenza del diritto a motivo del quale viene compiuta. Il creditore insoddisfatto, lungi dall’avere un potere di aggressione del patrimonio del suo debitore fondato sull’esistenza di un credito magari accertato o provato, può pretendere che sia posta in essere un’attività aggressiva dello Stato, ossia esercitare quella che viene chiamata azione esecutiva, se vanta a suo favore una peculiare fattispecie che viene denominata titolo esecutivo. Non che l’attività esecutiva sia una sorta di attuazione degli atti, magari di autorità, a cui la legge attribuisce la qualità di titoli esecutivi. Invero, qui sia ha sempre e solo realizzazione del credito, almeno se l’operazione va a buon fine, non attuazione di un programma aggressivo contenuto in un atto autoritativo a monte, realizzazione che può essere legittimamente messa in moto se sussiste una delle tante fattispecie che la legge costruisce come titoli esecutivi, fattispecie che, come vedremo, possono essere le più svariate.
Il titolo esecutivo, costruito come unico fondamento del potere esecutivo dello Stato, quale attività giuspubblicistica di aggressione svincolata da ogni potere privato, ha indubbiamente rappresentato storicamente ciò che ha permesso l’astrazione dell’attività esecutiva dal credito, sia in sistemi che hanno visto in essa un’attività amministrativa sia in sistemi, come il nostro, che hanno attratto l’esecuzione forzata nell’ambito della giurisdizione civile. Insomma, se si vuole, con esso si è trovato un punto di equilibrio tra l’esigenza di essere certi dell’esistenza del credito che si vuole realizzare e l’esigenza di procedere al fine della realizzazione in tempi celeri. Così che, fondandosi l’esecuzione legittimamente solo sul titolo esecutivo, si è separata l’esecuzione dalla cognizione, per cui, potendosi ipotizzare la sussistenza di un titolo esecutivo, ma non anche l’attuale esistenza del credito, ogni contestazione su questo può e deve essere sollevata al di fuori del processo esecutivo, spostandosi sul piano esterno di un processo dichiarativo che, se può essere celebrato in pendenza dell’aggressione esecutiva (opposizione di cui all’art. 615, c.p.c.), può essere anche ipotizzabile, per la via della ripetizione dell’indebito (art. 2033, c.c.) o comunque dell’ingiustificato arricchimento (art. 2041, c.c.), a seguito del compimento di un’esecuzione processualmente legittima, per la sussistenza del titolo esecutivo, e pur sostanzialmente ingiusta per la carenza del suo presupposto sostanziale.
Tuttavia, quel dato storico non va sopravvalutato nell’analisi della funzione tecnica del titolo esecutivo, da condurre esclusivamente alla luce del diritto vigente. In particolare non si può dire che esso sia ciò che rende certo o quantomeno sufficientemente certo il credito all’interno del processo esecutivo. Una simile affermazione sarebbe sia errata concettualmente sia poco rispondente al catalogo attuale del titoli esecutivi.
Concettualmente essa è errata perché tradisce un non corretto inquadramento del rapporto tra diritto e processo esecutivo, finendo per vedere il fondamento di questo essenzialmente nel credito, di cui il titolo esecutivo fornirebbe in buona sostanza la prova, magari legale o integrale, utile al fine di assolvere l’organo esecutivo dal relativo accertamento. Ma in questo modo si ammette implicitamente il potere dell’organo esecutivo di occuparsi del credito, abbandonando quella separazione tra cognizione ed esecuzione che pur la costruzione dei titoli esecutivi ha voluto sancire e che indubbiamente emerge dal diritto vigente.
In secondo luogo, è la lettura del catalogo legale dei titoli esecutivi, a partire dalla norma di base contenuta nell’art. 474 c.p.c., che impone l’abbandono dell’idea per cui il titolo esecutivo avrebbe la funzione di rendere (sufficientemente) certo il credito per cui si procede. Indubbiamente nella sentenza di condanna vi è accertamento del credito, ancorché essa non produca un’assoluta certezza sia perché la sentenza non passata in giudicato potrebbe essere riformata in sede d’impugnazione sia perché persino la cosa giudicata non fornisce una certezza assoluta, non coprendo la sua precettività i fatti che non erano deducibili nel corso del processo della sua formazione. Ed anche l’atto notarile in fondo può essere visto come un titolo esecutivo che fornisce una certezza “sufficiente” intorno all’esistenza del credito da esso risultante, ancorché esso, essendo un documento e non un atto di accertamento, al più può rendere certi alcuni fatti e non il credito quale situazione giuridica. Ma non si vede proprio quale certezza intorno all’esistenza del credito per cui si procede possa fornire un titolo di credito, che, se non dà certezza nemmeno intorno alla sua autenticità, è qualificato dalla legge come titolo esecutivo solo se è adempiuto l’aspetto fiscale relativo al bollo.
Invero, pare indiscutibile l’affermazione che proprio l’attribuzione alla cambiale dell’efficacia di titolo esecutivo col codice di commercio del 1882 abbia tolto fondamento all’idea per cui il titolo esecutivo rappresenterebbe un atto di autorità fonte di certezza del credito. Senza considerare che, se il titolo esecutivo avesse la funzione di rendere (sufficientemente) certo il credito, non si comprenderebbe la ragione per cui, visto l’art. 474, co. 2, n. 2, c.p.c., una scrittura privata autenticata rappresentante un contratto di compravendita sia titolo esecutivo a favore del venditore per il credito al prezzo e non anche a favore dell’acquirente per la pretesa alla consegna della cosa, essendo questi due diritti, se così si può dire, certi nella stessa misura.
In definitiva si può dire solo che, a prescindere dalle ragioni, le più diverse, per cui il legislatore sceglie di qualificare certi atti o certi documenti come titoli esecutivi, questi rappresentano l’unico fondamento del potere esecutivo dello Stato e tutti, all’interno del processo esecutivo, svolgono solo appunto quella funzione, senza che si possano costruire distinzioni tra essi. Altro è porsi nell’ambito del processo dichiarativo in cui ci si interroga sull’esistenza del credito a motivo del quale si procede ad esecuzione forzata, in particolare il processo di opposizione all’esecuzione di cui all’art. 615 c.p.c.: qui il concetto di titolo esecutivo evapora e perde ogni consistenza, rilevando piuttosto il tipo di atto o di documento speso nel processo esecutivo come titolo esecutivo. Insomma, se all’interno dell’attività esecutiva il titolo esecutivo è tutto, dovendo esso esistere dall’inizio alla fine del suo svolgimento, al di fuori di essa, ossia di fronte al giudice della cognizione, esso è nulla e ciò che conta per il debitore che contesta di essere tale è, ad esempio, l’atto di accertamento-sentenza ovvero l’atto notarile-documento.
Alla luce dei descritti rapporti tra diritto e processo esecutivo e del ruolo del titolo esecutivo bisogna comprendere il senso della disposizione, contenuta nell’art. 474 c.p.c., per cui l’esecuzione forzata può aver luogo solo in virtù di un titolo esecutivo per un diritto certo, liquido ed esigibile. È ovvio che il requisito della “certezza” qui non rinvii all’esigenza di una sicurezza intorno all’esistenza del credito a motivo del quale si procede, bensì, propriamente, all’esigenza per cui il diritto rappresentato nel titolo esecutivo sia determinato nei suoi estremi soggettivi ed oggettivi.
Così il diritto alla consegna o al rilascio, sulla cui base si può ipotizzare un’esecuzione secondo il percorso di cui agli artt. 605 ss. c.p.c., deve riguardare un bene determinato. L’obbligazione di facere (fungibile) che può fondare un’esecuzione di cui agli artt. 612 ss. c.p.c. deve essere individuata nel tipo di bene e nel contenuto del “fare” che lo coinvolge. Il credito pecuniario, che può fondare un’esecuzione per espropriazione, deve essere liquido, ossia quantificato nel suo ammontare ovvero quantificabile in base ad un’operazione matematica sulla base di elementi contenuti nel titolo esecutivo.
Infine il diritto, per poter essere realizzato per mezzo dell’esecuzione forzata, deve essere esigibile, ossia non sottoposto a condizione sospensiva o termine. Ed, inoltre, l’esecuzione forzata può essere impedita ove l’efficacia del titolo esecutivo sia subordinata alla prestazione di una cauzione, come accade, per fare un solo esempio, nell’eventualità che il giudice della cognizione accolga la domanda originaria dell’attore con riserva della decisione sull’eccezione di compensazione che, trasformatasi ormai in domanda, sia devoluta al giudice superiore ai sensi dell’art. 35 c.p.c.
Se i titoli esecutivi rappresentano le uniche fattispecie che fondano il potere esecutivo dello Stato e se diverse possono essere le ragioni a cui il legislatore si ispira nella loro selezione, è evidente come titoli esecutivi possano essere solo gli atti e i documenti che la legge qualifica come tali, senza che l’interprete possa, sulla base di una introvabile logica unitaria, costruire titoli esecutivi in base ad un’interpretazione analogica. Questo indiscutibile e per la verità indiscusso principio di tipicità esige solo due precisazioni.
Innanzitutto, va rammentato come, se indubbiamente sta solo al legislatore scegliere le fattispecie di titolo esecutivo, è ragionevole ritenere che il legislatore possa trovare diverse forme per esprimere le sue scelte. Così, per fare un solo esempio, non sembra dubitabile che l’ordinanza di assegnazione del credito pronunciata nell’ambito dell’espropriazione presso terzi di cui agli artt. 543 ss. c.p.c. sia un titolo esecutivo (così Cass., 10.5.2016, n. 9390). Se è vero che la legge non attribuisce a tale ordinanza espressamente tale qualità, è pur vero che questa emerge in modo indubitabile dal contesto della disciplina di riferimento, in particolare quando negli artt. 548 e 549 c.p.c. si ipotizza esplicitamente un’esecuzione forzata tra creditore assegnatario e debitore assegnato fondata appunto su detta ordinanza di assegnazione.
In secondo luogo, va notato come, se il fondamento della qualità di titolo esecutivo sta sempre nella legge, è anche vero che a volte la legge attribuisce direttamente l’efficacia esecutiva ad una determinata fattispecie, mentre altre volte essa conferisce il potere ad un giudice di attribuire quella qualità a un certo atto o documento. Trattandosi di atti, si pensi all’attribuzione del cd. exequatur alle sentenze straniere ai sensi dell’art. 64 l. 31.5.1995, n. 218 (diverso è il discorso, ormai, nell’ambito della UE, a seguito del reg. n. 1215/2012) o al lodo arbitrale ai sensi dell’art. 825 c.p.c. ovvero dell’attribuzione della cd. provvisoria esecutività al decreto ingiuntivo, originariamente ai sensi dell’art. 642 c.p.c. ovvero in pendenza di opposizione ai sensi dell’art. 648 c.p.c. Trattandosi di documenti si pensi all’attribuzione dell’exequatur al verbale di conciliazione redatto di fronte ad un organismo accredito in base al d.lgs. 4.3.2010, n. 28.
Se in ogni caso l’esecutato deve avere una sede in cui contestare la sussistenza del titolo esecutivo, è anche vero che una simile contestazione, ove ci si trovi di fronte ad una fattispecie di titolo esecutivo ex lege trova la sua naturale sede in un’opposizione esecutiva, che per i più è da individuare in quella disciplinata dall’art. 615 c.p.c. e per alcuni è da individuare in quella disciplinata dall’art. 617 c.p.c., mentre, ove ci si trovi di fronte ad una fattispecie a cui la qualità di titolo esecutivo non è attribuita direttamente dalla legge, bensì da un provvedimento giudiziale, normalmente quella contestazione ha prima una sede diversa, a volte persino esclusiva. Così, ad esempio, la contestazione in ordine alla concessione dell’exequatur alle sentenze straniere ha la sua sede naturale, e direi esclusiva, in sede di ricorso per cassazione avverso la pronuncia della corte d’appello, mentre il provvedimento di omologazione del lodo o del verbale di conciliazione possono (devono) essere contestati previamente in sede di reclamo ai sensi dell’art. 825, co. 3, c.p.c., residuando poi anche il rimedio dell’opposizione in sede esecutiva.
Infine, si rileva che, come tipiche sono le fattispecie a cui si può attribuire la qualità di titolo esecutivo, altrettanto tipiche sono le ipotesi di sospensione e di perdita di efficacia del titolo esecutivo, ancorché per le prime vi siano spazi di valutazione per il giudice chiamato a rendere il provvedimento inibitorio. Per fare solo alcuni esempi, si pensi per la prima alla sospensione dell’esecutività del decreto ingiuntivo ai sensi dell’art. 649 c.p.c. ovvero di una sentenza provvisoriamente esecutiva ancora soggetta ad impugnazione ordinaria, secondo la via tracciata dall’art. 283 c.p.c. in caso di proposizione dell’appello ovvero secondo la via tracciata dall’art. 373 c.p.c. in caso di proposizione del ricorso per cassazione, e per la seconda alla sostituzione della sentenza esecutiva di primo grado ad opera della sentenza di modifica pronunciata in appello (sull’immediata caduta in questo caso del titolo esecutivo vedi Cass., 11.6.2014, n. 13249).
Limitandoci alle sole indicazioni contenute nell’art. 474 c.p.c., senza spigolare nelle tante leggi speciali, vediamo che nel sistema si hanno titoli esecutivi giudiziali, consistenti in atti del giudice, e titoli esecutivi stragiudiziali, consistenti in documenti.
Tra i primi vengono nominate le sentenze e i provvedimenti a cui la legge attribuisce espressamente efficacia esecutiva.
Ancorché la norma non lo espliciti, è chiaro che la sentenza a cui ci si riferisce sia quella di condanna e non anche quella di mero accertamento o quella costitutiva, per il semplice fatto che solo la prima è evidentemente non autosufficiente, ripetendo essa in concreto un ordine di prestazione rivolto al soccombente già previamente esistente a favore dell’avente diritto risultato vittorioso in giudizio, ordine che, se non eseguito spontaneamente, esige appunto l’intervento sostitutivo dell’organo esecutivo. Insomma, ben si può dire che esiste una normale correlazione tra tutela di condanna e tutela esecutiva, senza che, però, si possa esagerarne il senso.
L’esagerazione ovviamente sarebbe palese ove, volendosi affermare l’impossibilità di un’esecuzione senza sentenza di condanna, si dimenticasse la sussistenza dei titoli esecutivi stragiudiziali, fattispecie che, invece, il legislatore configura proprio per anticipare la tutela esecutiva facendo a meno di una preventiva tutela dichiarativa, la cui possibilità o necessità viene spostata in ipotesi a valle dell’esercizio dell’azione esecutiva a seguito dell’instaurazione di un’opposizione all’esecuzione.
Ma essa è evidente anche ove si pretendesse di affermare che non vi possa essere condanna senza esecuzione forzata, perché ben può esservi quella senza questa. Innanzitutto l’azione di condanna non può essere vista come un primo momento dell’azione esecutiva, risolvendosi quella nell’accertamento dei presupposti di questa, perché ben è possibile che il soccombente adempia senza che, quindi, sia necessario procedere agli atti esecutivi. In secondo luogo non si può ritenere che il contenuto della sentenza di condanna stia nella costituzione dell’azione esecutiva, perché, come abbiamo visto sopra, l’efficacia esecutiva è attribuita ad una pronuncia di condanna comunque dall’esterno: dalla legge o da un ulteriore provvedimento giudiziario. In realtà il contenuto della condanna sta solo in un ordine di prestazione attinente ad un rapporto obbligatorio. In terzo luogo, ben possono esservi pronunce di condanna non suscettibili di esecuzione forzata, nella misura in cui attengono a rapporti obbligatori dal contenuto infungibile. Si pensi solo alle pronunce inibitorie, per la parte relativa all’ordine di cessazione rivolto al futuro.
È vero che anche la sentenza di mero accertamento contiene un comando rivolto al futuro. Ma, in questo comando c’è un ordine di non fare del tutto generico, reso necessario da una previa provocazione di incertezza in ordine alla situazione giuridica in contestazione, là dove, invece, nell’ordine inibitorio vi è un comando concreto consistente nell’ordine di non ripetere un comportamento illecito già in precedenza posto in essere.
In relazione, poi, al problema della provvisoria esecutività (art. 282 c.p.c.) dei capi condannatori consequenziali a pronunce costitutive, la soluzione dipende da quanto si sia disposti a ritenere anticipabile anche il profilo relativo alla disposta modificazione giuridica, effetto questo che tradizionalmente si ritiene conseguire solo al passaggio in giudicato della sentenza costitutiva.
Quanto, infine, agli altri provvedimenti giudiziali è impossibile una loro elencazione. Resta solo da ricordare che trattasi di ordinanze o decreti che, evidentemente avendo un contenuto condannatorio, caratterizzato dalla pronuncia di un ordine di prestazione, ricevono la qualità di titoli esecutivi, non in virtù di una valutazione dell’interprete, bensì per la scelta esplicita del legislatore. Ciò sempre con la precisazione che a volte la qualificazione della fattispecie quale titolo esecutivo viene direttamente dalla legge, come ad esempio nel caso dell’ordinanza per il pagamento di somme non contestate (artt. 186 bis e 423, co. 1, c.p.c.), mentre altre volte deve intervenire un provvedimento di attribuzione giudiziale dell’efficacia esecutiva, coma accade in riferimento al decreto ingiuntivo ancora opponibile (art. 642 c.p.c.) ovvero già soggetto ad opposizione (art. 648 c.p.c.).
Tra i titoli stragiudiziali vi sono i titoli di credito, le scritture private autenticate in riferimento ai crediti pecuniari da esse risultanti ed, infine, gli atti ricevuti da notaio o da altro pubblico ufficiale in riferimento ai crediti pecuniari ed ai diritti alla consegna o al rilascio di un bene in essi risultanti.
Rispetto alla categoria del titolo esecutivo dato dalla scrittura privata autenticata ci si chiede se in essa rientrino anche le scritture private riconosciute o comunque da considerare come legalmente riconosciute. Si potrebbe, in chiave restrittiva, dire che in virtù del principio di tassatività del catalogo dei titoli esecutivi non si può interpretare estensivamente la legge e così giungere ad attribuire alle sole scritture private autenticate l’efficacia esecutiva. Ma si potrebbe anche ritenere che il legislatore abbia qui utilizzato un’espressione riduttiva per comprendere, in realtà, tutta la categoria delle scritture private riconosciute, di cui all’art. 2702 c.c., nell’ambito delle quali la scrittura la cui sottoscrizione sia stata autenticata rappresenta solo un tipo.
Fra le due prospettive sembra preferibile la seconda, posto che non si vede la ragione che dovrebbe condurre a negare la valenza di titolo esecutivo alle scritture private riconosciute o comunque non disconosciute in giudizio ai sensi dell’art. 215 c.p.c. Tanto più se si ritiene che l’efficacia esecutiva debba senz’altro essere attribuita al verbale di conciliazione che, ai sensi dell’art. 322, co. 3, c.p.c., sia redatto in sede non contenziosa dal giudice di pace che non sarebbe stato competente a decidere la lite in sede contenziosa. Del resto, non si vede perché l’efficacia probatoria privilegiata debba sussistere ab origine, cioè al momento della formazione della scrittura, e non possa essere acquisita ex post a seguito del non disconoscimento della scrittura privata non autenticata, non potendosi vedere la differenza tra le due ipotesi dal punto di vista dell’esecuzione forzata.
Infine, restano i cd. «altri atti» ai quali la legge attribuisce espressamente efficacia esecutiva, che il legislatore inserisce nel n. 1) del co. 2 dell’art. 474 c.p.c., ossia nell’ambito dei titoli giudiziali. Si tratta di una categoria di titoli esecutivi che evidentemente devono avere strutturalmente qualcosa di diverso dai titoli esecutivi propriamente giudiziali, ancorché il legislatore abbia voluto, non tanto riconoscerli come tali, scopo che è realizzato dalle specifiche norme che, al di fuori dell’art. 474, c.p.c., singolarmente attribuiscono a dette fattispecie l’efficacia esecutiva, quanto equipararli, ai fini delle potenzialità esecutive, ai titoli giudiziali, ossia, come vedremo anche infra, renderli idonei a fondare qualsiasi tipo di processo esecutivo.
La detta peculiarità strutturale emerge in riferimento ad atti che, dotati di efficacia esecutiva, sono posti in cooperazione tra i privati ed il giudice o tra i privati ed un soggetto che in qualche misura può fare le veci del giudice, quale è l’avvocato. Si, pensi per fare l’esempio a cui certamente pensava il legislatore, al verbale di conciliazione giudiziale, che già derivava e deriva la sua efficacia esecutiva dall’art. 185 c.p.c., senza che però in questa disposizione si specifichi l’estensione di una simile efficacia. Prima della riforma del 2005 era assai discutibile la possibilità di fondare un’esecuzione per obblighi di fare sulla base di questo titolo esecutivo e coloro che cercavano di giungere ad una risposta affermativa ad un simile problema finivano per forzare la natura delle cose, sia affermando che il verbale di conciliazione sarebbe un atto analogo alla sentenza sia ritenendo che in esso il giudice potesse svolgere la valutazione di fungibilità della prestazione. Ma, evidentemente, se nel verbale di conciliazione non si può vedere un atto analogo alla sentenza e se, poi, non vi era e non vi è alcuna necessità di prevalutare la fungibilità di una prestazione nemmeno al fine di pronunciare una sentenza, essendo questa una valutazione da compiere semmai successivamente alla formazione del titolo esecutivo, restava alle parti il rischio di dover giungere ugualmente alla pronuncia di una sentenza pur avendo esse trovato un punto di accordo nella lite, ciò al solo fine di ottenere un titolo esecutivo. Ecco, allora, che la riforma del 2005 ha consentito di superare ogni disputa, avendo il legislatore esplicitamente riportato una fattispecie come quella in parola nella categoria dei titoli esecutivi giudiziali.
E sempre in questa categoria rientrano altre rilevanti fattispecie, quali il verbale di conciliazione di cui all’art. 12 d.lgs. n. 28/2010 ed il verbale di negoziazione assistita di cui all’art. 5 d.l. 12.9.2014, n. 132, convertito dalla l. 10.11.2014, n. 162.
Se quella esecutiva è un’attività di aggressione che, in riferimento ad un rapporto obbligatorio irrealizzato, mira a far ottenere all’avente diritto il bene della vita che egli avrebbe dovuto ottenere fisiologicamente per mezzo dell’adempimento dell’obbligato, evidentemente il processo esecutivo ha ad oggetto appunto questo bene. Ma qui, seguendo lo schema e la terminologia del codice civile, che disciplina il fenomeno in parola dal punto di vista sostanziale, si deve distinguere tra l’esecuzione per espropriazione e l’esecuzione in forma specifica. Quella serve alla realizzazione di crediti pecuniari, mentre questa si scinde in due vie: una mirante alla realizzazione di un diritto alla consegna o al rilascio di una cosa e l’altra mirante alla realizzazione di un fare.
Dire che sempre il processo esecutivo serve alla realizzazione di un diritto significa affermare appunto che questo diritto da realizzare è oggetto di quel processo. Tuttavia, se una simile affermazione è sufficiente in riferimento all’esecuzione in forma specifica, fenomeno che sempre si caratterizza per far emergere un’attività che si limita ad adeguare una realtà di fatto alla realtà giuridica, le cose sono più complesse a fronte dell’esecuzione per espropriazione, che invece realizza il suo obiettivo per mezzo di una trasformazione giuridica, ossia la liquidazione di un bene appartenente al debitore o comunque responsabile per quel certo debito. Ecco, allora, che nell’esecuzione per espropriazione emergono in realtà due oggetti: il bene dovuto, ossia la somma di denaro a cui ha diritto il creditore procedente, ed il bene-strumento, ossia il bene per mezzo della cui espropriazione la procedura acquisisce il bene dovuto, vale a dire la somma di denaro.
Queste diverse caratteristiche si riverberano anche sul titolo esecutivo, precisamente sul rapporto tra questo ed il processo esecutivo.
Se nell’esecuzione in forma specifica il bene oggetto dell’aggressione si identifica col bene dovuto, emerge che esso è individuato specificamente già nell’atto o nel documento costituente il titolo esecutivo. Qui, non essendovi alcuna dualità, il processo esecutivo non individua al suo interno un bene da aggredire e l’esecuzione si denomina “in forma specifica”, non già perché all’avente diritto si farà conseguire specificamente il bene dovuto, fine che l’esecuzione forzata ha in ogni sua forma, bensì perché appunto quell’unico bene è specificamente preindividuato.
Al contrario, in riferimento all’esecuzione per espropriazione il bene oggetto dell’aggressione è individuato nell’ambito della stessa procedura, precisamente nella fase iniziale denominata pignoramento, bene che non corrisponde certo alla somma di denaro che risulta dovuta nel titolo esecutivo. E qui non si usa l’espressione di esecuzione “in forma specifica” non perché l’avente diritto otterrà un bene della vita diverso da quello dovuto, ma solo appunto perché il bene-strumento non è specificamente preindividuato nel titolo esecutivo.
Sulla base di queste inevitabili differenze strutturali, il legislatore processuale costruisce poi, sempre nell’art. 474 c.p.c., differenze di disciplina in riferimento al catalogo dei titoli esecutivi, differenze che, se in astratto non sono certo inevitabili, devono solo essere registrate come tali dall’interprete.
Così, emerge che, mentre i titoli esecutivi giudiziali possono fondare ogni tipo di esecuzione forzata, i titoli esecutivi stragiudiziali, invece, hanno potenzialità più ristrette. La scrittura privata autenticata può fondare solo un’esecuzione per espropriazione e non anche un’esecuzione in forma specifica. L’atto pubblico può fondare un’esecuzione per espropriazione ed un’esecuzione per consegna o rilascio, ma non anche un’esecuzione per obblighi di fare.
La scelta è del tutto irragionevole perché non si comprende il motivo per cui lo stesso contratto, rappresentato in una scrittura privata autenticata o in un atto pubblico, possa essere o meno titolo esecutivo a seconda del contenuto del diritto che da esso emerge. Inoltre la scelta è anche in contraddizione con l’altra, quella per cui i cd. «altri atti» sono da ricondurre nell’ambito dei titoli esecutivi giudiziali, potendo quindi fondare ogni tipo di esecuzione, anche quella per obblighi di fare. Invero, se una limitazione in tal senso in riferimento alle scritture private autenticate e agli atti pubblici poteva essere ravvisata nell’idea (erronea) che si debba valutare nell’ambito di un processo dichiarativo al momento della formazione del titolo la fungibilità della prestazione di fare, oggi evidentemente un simile argomento sarebbe improponibile, avendo il legislatore previsto che l’esecuzione per obblighi di fare possa fondarsi anche su documentazioni di negozi giuridici, quali i verbali di conciliazioni ai sensi dell’art. 12 d.lgs. n. 28/2010.
Si ripete: su un piano logico-giuridico non è affatto necessario che a monte di un’esecuzione per obblighi di fare vi sia una sentenza in cui si accerti, fra l’altro, la fungibilità dell’obbligo, essendo un simile accertamento necessario solo ex post, ossia al momento in cui si deve procedere ad esecuzione forzata. Ma direi che una simile, presunta, necessità è stata ormai smentita dal legislatore perché nella formazione del titolo esecutivo da ultimo citato non vi è svolgimento di attività giurisdizionale dichiarativa né tantomeno l’accertamento della fungibilità dell’obbligo.
L’organo esecutivo, composto dall’ufficiale giudiziario e giudice dell’esecuzione, ha il potere-dovere di conoscere, ancorché non di decidere, i presupposti del suo agire, quindi, in particolare, anche la sussistenza del titolo esecutivo, che, come abbiamo visto, rappresenta la condizione essenziale per l’esercizio del potere esecutivo. Ma, nell’applicazione di un principio che appare così semplice e lineare, si è in realtà venuta a creare una disputa che ha importanti risvolti pratici e sistematici.
Secondo un’opinione molto diffusa l’organo esecutivo ha certamente il potere-dovere di conoscere dell’esistenza del titolo esecutivo, ma esso può e deve accontentarsi di accertare la sussistenza, non propriamente delle fattispecie che abbiamo visto inserite nel catalogo dei titoli esecutivi, bensì di quello che viene chiamato titolo esecutivo in senso documentale, ossia propriamente della documentazione di quelle fattispecie. Il titolo esecutivo in senso documentale è dato diversamente a seconda che ci si trovi di fronte ad un titolo esecutivo che circola in copia ovvero in originale. Nel primo caso, ossia in riferimento ai provvedimenti del giudice e agli atti notarili, esso sarebbe costituito dalla copia munita della cd. spedizione in forma esecutiva di cui all’art. 475 c.p.c., mentre nel secondo caso, relativo alle scritture private autenticate e ai titoli di credito, esso sarebbe costituito dall’originale stesso.
In tal modo la cognizione dell’organo esecutivo viene limitata a quei fatti costitutivi dell’azione esecutiva che possono essere rappresentati nella predetta documentazione, la quale certo non può riguardare fatti successivi ad essa, quali possono essere ad esempio la scadenza di un termine o la sospensione dell’efficacia esecutiva.
Questa idea non pare, in verità corrispondere al diritto positivo, ma solo cogliere il dato pratico per cui è improbabile che l’organo esecutivo possa, nella cognizione dei presupposti del suo agire, andare oltre il titolo esecutivo in senso documentale. Tuttavia, se ciò è vero di solito, non è detto che una cognizione propriamente avente ad oggetto l’intera fattispecie costitutiva ed estintiva dell’azione esecutiva sia sempre impedita all’organo esecutivo: il tutto dipende dall’evidenza delle cose, quindi in definitiva da una valutazione caso per caso.
Piuttosto l’inconveniente sistematico a cui la costruzione del cd. titolo esecutivo in senso documentale vuole ovviare sta nell’evitare che si crei una discrasia tra creditore procedente e debitore esecutato, posto che comunemente si ritiene che, se questi può contestare la sussistenza del titolo esecutivo sollevando opposizione all’esecuzione ai sensi dell’art. 615 c.p.c., quello, a fronte di un rifiuto dell’atto esecutivo, possa sollevare le sue contestazioni nell’ambito del diverso rimedio dato dall’art. 617 c.p.c. (così anche in giurisprudenza: Cass., 23.2.2009, n. 4334). Ma un simile inconveniente si crea solo se ci si ostina a partire da un presupposto errato, ossia dall’idea che l’art. 615 c.p.c., quando in esso si legge della contestazione del diritto a procedere all’esecuzione forzata, voglia riferirsi all’azione esecutiva. Invero, se così fosse, con detto rimedio non potrebbe contestarsi la sussistenza del credito, che certo non è elemento costitutivo dell’azione esecutiva, per cui pare evidente come con quella espressione il legislatore abbia voluto attribuire all’esecutato il potere di chiedere un ordine inibitorio a fronte di un illecito in atto, ossia un’esecuzione senza credito. Così, anche il debitore esecutato che volesse contestare, non l’ingiustizia dell’aggressione, bensì la carenza delle condizioni processuali dell’attività esecutiva deve spendere il rimedio a ciò costruito, ossia l’opposizione agli atti esecutivi di cui all’art. 617 c.p.c.
Quanto alla cd. spedizione in forma esecutiva di cui all’art. 475 c.p.c, siamo in presenza di un relitto storico, risalente al tempo in cui era necessario marcare il passaggio dall’attività giurisdizionale a quella esecutiva, che era considerata un’attività amministrativa, attribuendosi con la formula esecutiva l’efficacia esecutiva ad un atto dell’autorità, giudice o notaio, che di per sé non aveva quella certa efficacia. Poi, con l’attribuzione alla cambiale dell’efficacia esecutiva vennero meno diverse idee precedenti: che l’esecuzione potesse fondarsi solo su un atto dell’autorità, che a questo l’efficacia esecutiva fosse da attribuire dall’esterno e che l’esecuzione si inserisse nell’ambito dell’amministrazione.
Così, oggi, lo scopo, peraltro di discutibile utilità, della spedizione in forma esecutiva sta solo nel contrassegnare l’unica copia dell’atto che può essere utilizzata a fini esecutivi, quindi che può essere notificata come titolo esecutivo.
Se normalmente il titolo esecutivo è spendibile da chi in esso appare come creditore nei confronti di colui che in esso appare debitore, è possibile che una simile efficacia soggettiva si estenda ad altri soggetti, sia dal lato attivo sia da quello passivo. Per arrivare ad una simile affermazione non ci si può fondare sulle norme che prevedono un’efficacia ultra partes dei provvedimenti giurisdizionali, quali gli artt. 2909 e 1595 c.c. nonché l’art. 111 c.p.c., perché ben si potrebbe ritenere che una pronuncia del giudice possa svolgere nei confronti dei terzi effetti di accertamento, ma non anche effetti esecutivi.
Così, prendendo in considerazione le sole norme che si occupano propriamente della possibile efficacia ultra partes dei titoli esecutivi, l’interprete deve ragionare esclusivamente sulla base degli artt. 475 e 477 del codice di rito. Nella prima, disciplinando la spedizione in forma esecutiva, nel prevedere che questa possa essere fatta, non solo a favore di chi risulta dal titolo come creditore, ma anche a favore dei suoi successori, si presuppone evidentemente l’efficacia in sé del titolo esecutivo a favore appunto di ogni successore, sia a titolo universale sia a titolo particolare. Nella seconda, se si prevede esplicitamente l’efficacia del titolo esecutivo anche contro coloro che siano successori a titolo universale di colui che nel titolo appare come debitore, ci si dimentica, però, di occuparsi dei successori a titolo particolare. Dimenticanza che, tuttavia, è facilmente superabile, se si considera che sarebbe assai discutibile escludere dall’ambito di una simile efficacia dal lato passivo soggetti che comunque sono assoggettati all’efficacia dell’atto che costituisce il titolo esecutivo.
Insomma, da questo telaio normativo emerge che il titolo esecutivo è utilizzabile, non solo dal creditore in esso indicato, ma anche da un suo successore, e contro, non solo il debitore risultante sempre dal titolo, ma anche un suo successore. Con la conseguenza che l’esecuzione ben può essere compiuta, non più per realizzare il diritto del dante causa, bensì per realizzare il diverso, ancorché da quello dipendente, diritto o obbligo dell’avente causa. Ciò a prescindere da ogni preventivo accertamento dell’avvenuta successione, fattispecie che è solo affermata da colui che procede ad esecuzione, fermo restando che colui che si trovi a subire l’aggressione esecutiva può sempre contestare quell’affermazione in sede di opposizione all’esecuzione, provocando così alla prova il procedente che si era avvalso di essa (Cass., 30.5.2014, n. 12286).
Insomma, per evitare il sicuro appesantimento di un preventivo processo dichiarativo il legislatore ha scelto di affidarsi inizialmente alle affermazioni del creditore procedente, rinviando il problema dell’accertamento dell’avvenuta successione ad un momento cognitivo eventuale e successivo.
Rinviando alle voci specifiche, qui merita fare solo due brevi precisazioni sul tema.
La prima: se tendenzialmente l’art. 499 c.p.c. impone anche ai creditori intervenuti di avere un credito fondato su un titolo esecutivo, è pur vero che vi sono alcuni casi di creditori legittimati all’intervento senza che questi abbiano un titolo esecutivo. Tali soggetti, però, avranno diritto solo ad un accantonamento di somme in sede distributiva, a meno che si perfezioni a loro vantaggio quella peculiare fattispecie di titolo esecutivo in corso di processo esecutivo che scaturisce dalla mancata contestazione del loro credito da parte del debitore esecutato.
La seconda: se il titolo esecutivo del creditore procedente deve sussistere dall’inizio alla fine della procedura, si deve ritenere che il suo venir meno impedisca la continuazione dell’esecuzione sulla base del titolo esecutivo di un creditore intervenuto (in senso contrario invece Cass., 7.1.2014, n. 61). A meno che questi sia intervenuto provocando un secondo pignoramento, scelta che lo rende autonomo dal creditore originariamente procedente, ancorché la caduta del primo pignoramento produca l’ancoraggio degli effetti sostanziali di cui agli artt. 2913 ss. c.c. solo al secondo pignoramento.
Il titolo esecutivo deve essere notificato al debitore insieme al precetto per preannunciare l’imminente esecuzione forzata. Questo adempimento può avere o meno una sua unitarietà.
Se trattasi di un titolo esecutivo che circola in copia, esso è notificato nella copia munita della clausola esecutiva autonomamente dal precetto. Se, invece, trattasi di un titolo che circola in originale, allora esso è trascritto integralmente nel precetto, che finisce per essere l’unico atto da notificare.
Si aggiunga che l’art. 477 c.p.c. non impone di notificare agli eredi un titolo esecutivo che sia già stato precedentemente notificato alla parte poi defunta (Cass., 14.7.2015, n. 14653).
L’art. 479, co. 2, c.p.c. prevede che la notifica del titolo esecutivo sia fatta a norma degli artt. 137 ss. c.p.c. Per cui la parte vittoriosa, ad esempio in un giudizio di primo grado, deve notificare la sentenza al difensore, se vuole far scattare la decorrenza del termine breve per l’appello, e poi notificare la sentenza in forma esecutiva personalmente al debitore se vuole procedere ad esecuzione. Peraltro l’eventuale nullità della notifica è sanabile in caso di raggiungimento dello scopo (Cass., 13.5.2014, n. 10327).
Artt. 474-479 c.p.c.
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