Abstract
Viene analizzata l’espropriazione forzata come fenomeno sostanziale prodotto dal processo esecutivo. Così, dopo aver sommariamente descritto le fasi del percorso scandito dalle norme del codice di procedura civile, vengono messi a fuoco gli effetti che la fattispecie espropriativa produce alla luce del codice civile, nonché i limiti entro i quali essi risultino stabili.
Il creditore insoddisfatto, al fine di conseguire quanto gli è dovuto, può far espropriare i beni del suo debitore secondo le regole del codice di procedura civile (art. 2910 c.c.). Con ciò la legge, per un verso, fissando i limiti entro i quali è sostanzialmente giustificata l’espropriazione forzata e, per altro verso, rinviando il creditore insoddisfatto all’esercizio dell’azione esecutiva, fa emergere come si sia in presenza di una vicenda processuale destinata a produrre effetti sostanziali. Con l’espropriazione forzata l’attività esecutiva dello Stato, che opera secondo presupposti e regole di esercizio di diritto processuale, provoca il trasferimento di un bene e ciò al fine di realizzare un credito insoddisfatto.
Lo strumento per giungere alle dette modificazioni sostanziali è il processo esecutivo, che sempre presuppone la sussistenza del titolo esecutivo. Peraltro in riferimento all’esecuzione per espropriazione la peculiarità del titolo esecutivo sta, a differenza di quanto accade nelle altre forme di esecuzione, nel non individuare il bene che sarà oggetto dell’aggressione statale, bene che inevitabilmente andrà individuato per mezzo dell’attività esecutiva. Così l’esecuzione per espropriazione finisce per rappresentare sicuramente un percorso assai più complesso rispetto ad altri moduli esecutivi. L’organo esecutivo dovrà prima individuare i beni da sottoporre ad esecuzione, poi espropriare questi beni, ossia solitamente venderli a terzi, quindi, acquisita la liquidità necessaria, assegnare il ricavato al creditore procedente ovvero, nel caso che siano intervenuti altri creditori, procedere alla distribuzione forzata tra di essi. Tralasciando quest’ultima fase, che qui non interessa, deve accennarsi alle prime due.
La fase iniziale nella quale si individuano e si conservano i beni da sottoporre ad espropriazione è quella del pignoramento. Se gli artt. 2740, co. 1, e 2910, co. 1, c.c. esigono che l’espropriazione forzata avvenga su beni che appartengono al debitore, salve le ipotesi in cui legittimamente si possono aggredire beni di un terzo (art. 2910, co. 2, c.c.), tuttavia la legge processuale, che presiede all’attività degli organi esecutivi, non prevede che si debba accertare l’appartenenza al debitore esecutato dei beni che si vanno ad individuare. Per far fronte a questa possibile discrasia tra piano sostanziale e piano processuale sono previsti degli strumenti, successivi e preventivi, sui quali torneremo. Per il momento limitiamoci a rilevare come, dal punto di vista interno al processo esecutivo, se il pignoramento ha una sua disciplina generale e comune nelle disposizioni dell’art. 492 c.p.c. (inerenti: l’ingiunzione al debitore di non compiere atti che possano sottrarre il bene individuato all’espropriazione, la ricerca dei beni da pignorare mediante la cooperazione del debitore o l’esercizio di poteri di indagine dell’ufficiale giudiziario), per gli aspetti più rilevanti, però, le regole del pignoramento variano a seconda del tipo di bene, al fine di tenere conto delle diverse regole sostanziali di circolazione di essi.
Nel pignoramento mobiliare diretto la scelta è fatta dall’ufficiale giudiziario ai sensi degli articoli 513 ss. c.p.c., preoccupandosi di accertare, non l’appartenenza dei beni al debitore, ma solo un indice di appartenenza che la legge ritiene sussistente quando il bene è nella disponibilità dell’esecutato. Nelle altre forme di pignoramento la scelta è compiuta dal creditore procedente, il quale si attiva ai sensi dell’art. 555 c.p.c. se trattasi di beni immobili, ai sensi degli articoli 543 ss. c.p.c. se trattasi di crediti o beni mobili che si trovano nella disponibilità di un terzo, ai sensi dell’art. 2471 c.c. se trattasi di quota di una s.r.l. Nemmeno in queste forme di pignoramento si riscontra alcun accertamento in ordine all’appartenenza del bene al debitore. Così, in particolare nell’espropriazione immobiliare la legge, quando esige dal creditore procedente la produzione, prima della vendita forzata, dell’estratto del catasto ed i certificati delle iscrizioni e trascrizioni relative all’immobile pignorato, ancora una volta si accontenta di un indizio di appartenenza. Né l’appartenenza del credito all’esecutato è resa certa dalla dichiarazione del terzo debitor debitoris o dalla sua non contestazione (cfr. l’attuale art. 548 c.p.c. così come modificato dalla l. 24.12.2012, n. 228) ovvero dagli accertamenti su di esso condotti ai sensi dell’art. 549 c.p.c. modificato con l. n. 228/2012.
Individuati i beni da espropriare, la legge processuale bada alla loro custodia materiale, mentre la legge sostanziale si occupa della loro custodia giuridica. Su quella il codice di rito detta una serie di minute disposizioni a seconda dei diversi tipi di beni (artt. 520-521 c.p.c. per i mobili e artt. 559-560 c.p.c. per gli immobili), tutte tese a gestire il bene stesso al fine di attendere i tempi della sua espropriazione.
Quindi, al fine di ottenere la necessaria liquidità, il bene è venduto ovvero assegnato ad un creditore, operazione ancora una volta complessa e minutamente disciplinata dal codice di procedura civile in modi diversi a seconda del tipo di bene in gioco. L’assegnazione, che può essere satisfattiva (datio in solutum) o non satisfattiva (assegnazione-vendita) a seconda di chi sia il creditore assegnatario in virtù del valore di assegnazione stabilito ai sensi dell’art. 506 c.p.c., è doverosa per crediti scaduti o che scadono entro 90 giorni (art. 553, co. 1, c.p.c.) ovvero per oggetti d’oro e d’argento dopo un tentativo di vendita fallito (art. 539 c.p.c.). Essa è possibile su richiesta, senza previo tentativo di vendita, per i titoli di credito e altre cose il cui valore risulta da listino di borsa o di mercato (art. 529 c.p.c.), mentre tutti gli altri beni possono essere assegnati dopo un primo tentativo di vendita fallito.
Ma non vi è dubbio che l’espropriazione avvenga più comunemente mediante vendita. Volendone far emergere i caratteri strutturali comuni, al di là di singole specificazioni procedurali che variano a seconda del tipo di bene da vendere, si può dire che nella vendita forzata l’organo esecutivo non esercita la facoltà di vendere del debitore esecutato, facoltà che non viene espropriata col pignoramento e che, fino a quando il bene non viene venduto esecutivamente, resta civilisticamente in capo al debitore, anche se, come vedremo, eventuali suoi atti di disposizione non sono opponibili alla procedura. Né egli esercita, come rappresentante, un potere di vendere in ipotesi acquisito dal creditore procedente col pignoramento, perché il pignoramento non fa acquisire a tale soggetto alcuna situazione giuridica sostanziale. In realtà l’organo esecutivo vende il bene pignorato nell’esercizio del suo potere esecutivo concretizzatosi col pignoramento. Ma ciò non toglie che la vendita forzata non possa spiegarsi solo riferendosi ad un provvedimento autoritativo. Così, ad esempio, nella vendita immobiliare non si può dire che tutti i suoi effetti siano riportabili al decreto di trasferimento di cui all’art. 586 c.p.c. In realtà, prima di questo provvedimento vi è un contratto che si perfeziona con l’aggiudicazione, anche provvisoria, che già in sé provoca il trasferimento del bene all’acquirente, trasferimento che è solo reso rilevante nel processo esecutivo col citato decreto di trasferimento (che converte in denaro il bene pignorato: Cass., 23.5.2011, n. 11318). È vero che l’aggiudicazione provvisoria può essere superata ove l’aggiudicatario non versi il prezzo e si debba quindi procedere alla rivendita forzata (art. 587 c.p.c.). E ancora è vero che l’aggiudicazione può essere superata da offerte dopo l’incanto ai sensi dell’art. 584 c.p.c. Ma è anche vero che evidentemente l’aggiudicazione provvisoria esplica già effetti traslativi se essa è protetta a fronte della possibile conversione del pignoramento e a fronte della possibile estinzione del processo esecutivo (arg. dagli articoli 632 c.p.c. e 187 bis disp. att. c.p.c.).
L’espropriazione forzata ha quale suo effetto naturale il trasferimento del bene pignorato all’acquirente. Ma, prima di analizzare questo effetto, è necessario osservare gli effetti c.d. sostanziali che strumentalmente la legge collega al pignoramento.
A tale ultimo proposito gli articoli 2912 ss. c.c. fissano due principi: 1) il debitore esecutato è spossessato del bene pignorato, senza che per ciò il possesso sia acquisito in capo al creditore o all’ufficiale giudiziario; 2) gli eventuali atti di disposizione della res pignorata non hanno effetto nei confronti del creditore procedente e dei creditori intervenuti, fermo restando che, ovviamente, si salvano acquisti a titolo originario, come emerge dalla previsione della salvezza degli effetti del possesso di buona fede per i mobili non iscritti in pubblici registri (qui l’art. 2913 richiama la fattispecie acquisitiva di cui all’art. 1153 c.c.). Su questi principi è bene precisare, preliminarmente, che col pignoramento il creditore procedente non acquista un diritto reale sui beni aggrediti, una sorta di diritto di far vendere detti beni. La vendita forzata si fonda esclusivamente sul potere esecutivo dello Stato, ancorché questo sia commisurato al potere di vendere che sarebbe spettato al debitore esecutato. I c.d. effetti sostanziali del pignoramento, più che creare vere e proprie modificazioni giuridiche sostanziali in riferimento ai beni pignorati, hanno solo una funzione processuale: essi garantiscono l’effettività della tutela esecutiva, determinando la conservazione giuridica dei beni pignorati al fine della successiva vendita forzata. L’art. 2913 c.c. non provoca l’invalidità dell’atto di disposizione, ma solo la sua irrilevanza per l’esecuzione forzata, per cui se il processo esecutivo dovesse estinguersi o, trattandosi di beni immobili, dovesse cessare l’efficacia della trascrizione del pignoramento ai sensi dell’art. 2668 ter c.c. o ancora per qualsiasi ragione non dovesse aver luogo la vendita, l’efficacia di quell’atto, già sussistente tra le parti, si riespanderebbe.
Peraltro l’art. 2913 c.c. va letto insieme all’art. 2914 c.c. che, disciplinando il conflitto tra creditore procedente ed acquirente della res pignorata, richiama le regole di circolazione dei diversi tipi di beni, equiparando il creditore procedente ad un avente causa dal debitore esecutato. Se trattasi di un bene immobile prevale il creditore procedente ove l’atto di pignoramento sia stato trascritto prima della trascrizione dell’atto di acquisto del terzo, anche se questo atto sia stato concluso anteriormente alla notifica del pignoramento di cui all’art. 555 c.p.c. (principio derivante dall’art. 2644 c.c.). Se trattasi di un credito, il creditore procedente prevale sul cessionario se la cessione sia stata notificata al debitore ceduto o da questi accettata successivamente al pignoramento (principio derivante dall’art. 1265 c.c.). Se trattasi di una universalità di mobili, non emergendo dal codice civile una regola esplicita sulla composizione del conflitto in caso di doppia alienazione, l’art. 2914 c.c. si àncora alla regola, direi di diritto naturale (prior in tempore potior in iure), per cui prevale chi può vantare un atto di data certa anteriore. Se trattasi di quota di s.r.l., non trattandone l’art. 2914 c.c., evidentemente varrà la regola ricavabile dall’art. 2740, co. 3, c.c., per cui il conflitto tra creditore procedente ed acquirente, equiparato al conflitto tra due acquirenti, va risolto a favore di colui che per primo ha effettuato l’iscrizione in buona fede nel registro delle imprese, anche se il suo titolo è di data posteriore.
Peculiare è, invece, la previsione di cui all’art. 2914, n. 4, c.p.c., che, in riferimento ai beni mobili non iscritti in pubblici registri, non richiama la regola di conflitto di cui all’art. 1155 c.c. (prevalenza di chi per primo acquista il possesso in buona fede della cosa), ma afferma la prevalenza dell’acquirente che non abbia acquisito il possesso del bene nel caso che egli possa vantare un atto di data certa anteriore al pignoramento. Questa norma è sistemica e conferma l’idea per cui lo spossessamento del debitore esecutato non implica l’acquisizione del possesso in capo al creditore procedente, in quanto la regola in essa contenuta ha un senso proprio partendo dal presupposto che nessuna delle parti in conflitto abbia acquistato il possesso della res pignorata.
Alla stessa logica risponde anche l’art. 2915, co. 2, c.c., disponendo che non sono opponibili al creditore procedente le domande per la cui efficacia rispetto ai terzi acquirenti la legge richiede la trascrizione, se sono trascritte successivamente alla trascrizione del pignoramento. Qui entrano in gioco gli artt. 2652 e 2653 c.c. nonché l’art. 111 c.p.c. In linea di principio la trascrizione serve a rendere opponibile la litispendenza giudiziale agli eventuali acquirenti della res litigiosa: costoro subiranno l’efficacia della emananda sentenza se hanno trascritto i loro acquisti dopo la trascrizione della domanda, mentre sfuggiranno a quella efficacia se, invece, hanno trascritto prima della trascrizione della domanda, a prescindere da quando questa sia stata processualmente proposta. Lo stesso principio vale se la res litigiosa, invece di essere alienata, è fatta oggetto di pignoramento: il creditore procedente non può subire gli effetti di una sentenza pronunciata in un processo la cui domanda sia stata trascritta dopo la trascrizione del pignoramento. Altro poi è il problema dell’eventuale prevalenza sostanziale che (anche) la trascrizione può condizionare. Così, ad esempio, l’attore in rivendicazione che trascrive la sua domanda dopo la trascrizione del pignoramento del bene in contestazione non subisce da ciò alcun pregiudizio sostanziale, ma deve certamente cambiare il percorso processuale da seguire, passando dalla detta azione all’opposizione di terzo di cui all’art. 619 c.p.c. Ma, per fare un esempio esattamente opposto, se trattasi di un attore nell’azione di risoluzione il discorso è assai diverso, perché l’art. 2652, co. 1, n. 1, c.c. attribuisce una prevalenza sostanziale all’avente causa (quindi anche al creditore procedente) che abbia trascritto l’acquisto prima della trascrizione della domanda di risoluzione del contratto in cui sia convenuto il suo dante causa. Insomma, in casi come questo il legislatore predilige la tutela dell’avente causa all’operatività del principio resoluto iure dantis resolvitur et ius accipientis.
Venendo ora agli effetti sostanziali della vendita forzata (e dell’assegnazione) l’art. 2919 c.c. enuncia il principio della derivatività: se è vero che è lo Stato a vendere la res pignorata in virtù del suo potere esecutivo, è altresì vero che l’acquirente in vendita forzata non acquista più diritti di quanti su quel bene avesse il debitore esecutato (Cass., 12.1.2011, n. 517). Quindi, da questo punto di vista, la vendita forzata non ha nulla di diverso da una vendita di diritto comune, con l’ovvia precisazione che anche qui vale il principio, enunciato nell’art. 1153 c.c., per cui il possesso di buona fede vale titolo per i beni mobili non registrati, perfezionandosi in tal caso un acquisto a titolo originario.
Tuttavia questa affermazione esige due importanti puntualizzazioni. La prima: la vendita forzata, a differenza della vendita di diritto comune, produce il c.d. effetto purgativo dalle ipoteche (art. 586 c.p.c.). La seconda: quando l’art. 2919 c.c. dispone che non sono opponibili all’acquirente in vendita forzata diritti acquistati da terzi sul bene se i diritti stessi non hanno effetto in pregiudizio del creditore pignorante, evidentemente con ciò si collegano gli effetti della vendita forzata agli effetti del pignoramento, per cui l’acquirente in vendita forzata acquista i diritti che il debitore esecutato aveva, non al momento della vendita, ma al momento del pignoramento. Peraltro questa previsione, in sé inevitabile se non si volevano rendere del tutto inutili le disposizioni sugli effetti sostanziali del pignoramento, esige anche un’ulteriore approfondimento, posto che l’art. 2919 c.c. non si limita ad estendere all’acquirente in vendita forzata la protezione di cui gode il creditore pignorante, ma richiama anche quella spettante ai creditori intervenuti nell’esecuzione. Ora, se normalmente i creditori che intervengono godono essi stessi della protezione spettante al creditore pignorante, evidentemente qui la legge ha voluto riferirsi a qualche interventore particolare, che apporta col suo intervento una barriera protettiva in più rispetto a quella già derivante dal pignoramento. Il riferimento allora può essere solo ad un creditore ipotecario che, intervenendo, può far vendere il bene libero da diritti i cui titoli sono stati trascritti o iscritti dopo la sua iscrizione ipotecaria, ancorché prima della trascrizione del pignoramento.
L’espropriazione forzata può essere compiuta in modo processualmente illegittimo, perché affetta da qualche nullità, ovvero, pur condotta in modo del tutto rituale sul piano processuale, essa può essere ingiusta, perché compiuta senza l’esistenza del credito del creditore procedente o su un bene non sostanzialmente responsabile per quel credito, ossia su un bene appartenente ad un terzo. Questi profili di illegittimità processuale o di illiceità sostanziale possono travolgere gli effetti traslativi prodotti con l’atto espropriativo?
Comunemente si ritiene che l’art. 2929 c.c. esprima un generale principio di tutela dell’affidamento per cui l’acquirente in vendita forzata non potrebbe subire un pregiudizio da un’esecuzione condotta in modo irrituale o senza credito, salvo il caso del concerto fraudolento tra acquirente e creditore procedente. Ma questa idea non sembra condivisibile, dovendosi piuttosto distinguere tra le diverse ipotesi. A fronte di un’esecuzione ingiusta, perché condotta senza credito, non è possibile che giochi un ruolo una norma che parla esplicitamente di nullità degli atti esecutivi. Né, peraltro, l’acquirente in vendita forzata ha bisogno di una simile protezione perché l’accertamento negativo del credito, non essendo il credito un presupposto degli atti esecutivi, non potendo determinare una qualificazione negativa di questi, non può neanche rappresentare per lui un problema. Ciò è vero sia che si voglia contestare il credito prima dell’espropriazione sia che lo si voglia contestare dopo. Preventivamente l’esecutato può avvalersi dell’opposizione all’esecuzione di cui all’art. 615 c.p.c., la cui pendenza però non provoca necessariamente la sospensione della procedura esecutiva. Se la sospensione non viene disposta, un’eventuale sentenza di accoglimento dell’opposizione non travolge la compiuta vendita forzata, non in virtù dell’art. 2929 c.c., ma solo per il fatto che quella sentenza non può che operare con effetti ex nunc, non essendo gli atti compiuti invalidabili dall’accertata carenza del credito. Finito poi il processo esecutivo, l’esecutato ingiustamente, salva l’eventuale azione in ripetizione dell’indebito o per ingiustificato arricchimento (peraltro di recente negata da Cass., 18.8.2011, n. 17371), non potrà mai pretendere di riavere il bene espropriato, neanche se, subita una vendita a prezzo vile, affermi la collusione tra creditore procedente ed acquirente a suo danno. Al più egli potrà esercitare un’azione risarcitoria nei confronti del creditore ai sensi dell’art. 96, co. 2, c.p.c. e nei confronti dell’acquirente ai sensi dell’art. 2043 c.c.
Diverso è il discorso a fronte di atti esecutivi processualmente illegittimi: qui l’art. 2929 c.c., facendo eccezione al principio di cui all’art. 157, co. 1, c.p.c. per cui la nullità processuale si ripercuote sugli atti successivi, protegge l’acquirente in vendita forzata da ogni nullità (formale o extraformale, come accade nel caso di esecuzione senza titolo esecutivo: cfr. Cass., S.U., 28.11.2012, n. 21110, in Corr. giur., 2013, 387 ss., che, pur negando che in tal caso si abbia una nullità, applica tuttavia anche in questa eventualità il principio ricavabile dall’art. 2929 c.c.) che dal processo possa ripercuotersi sulla vendita, andando oltre il principio dell’affidamento nel momento in cui si prevede che la protezione salti solo per la collusione tra creditore procedente ed acquirente, il cui acquisto è quindi salvo anche se egli conosceva o avrebbe potuto conoscere il vizio. Se questo è il senso della norma, sono necessarie ora alcune precisazioni.
La prima: l’art. 2929 c.c. non si applica ai vizi propri della vendita forzata, né a quelli sostanziali (ad es. la vendita di un bene non commerciabile) né a quelli propri della fase processuale della vendita forzata, vizi che però devono farsi valere con l’opposizione di cui all’art. 617 c.p.c. nel relativo termine. La seconda: l’operatività dell’art. 2929 c.c. deve fare i conti con la disciplina dei rimedi esecutivi per far valere le relative nullità, dalla quale emerge, per un verso, che l’opposizione ex art. 617 c.p.c. in generale va proposta entro 20 giorni dal compimento dell’atto e, per altro verso, che, visti gli artt. 530 e 569 c.p.c., all’udienza fissata per stabilire le modalità della vendita bisogna far valere tutte le nullità che si possono ancora far valere e che non sono state ancora fatte valere, per cui quando si passa all’atto espropriativo il processo esecutivo dovrebbe essere “ripulito” da tutte le eventuali nullità antecedenti. Ma allora, evidentemente, l’art. 2929 c.c. si applica: 1) quando è accolta dopo la vendita un’opposizione agli atti esecutivi proposta prima della vendita (ipotesi improbabile perché si deve pensare ad un giudice dell’esecuzione che abbia palesemente violato gli artt. 530 e 569 c.p.c.), 2) quando prima della vendita si sia verificata una nullità assoluta (nullità-inesistenza del pignoramento, impignorabilità del bene), che, se pur è rilevabile con l’opposizione agli atti esecutivi, non è tuttavia sanata dalla scadenza del relativo termine di 20 giorni. In questo secondo caso il debitore esecutato può, al di fuori dei rimedi esecutivi, esercitare quella particolare azione di nullità prevista dall’art. 2929 c.c., dovendo provare la nullità assoluta ed il concerto fraudolento tra creditore procedente ed acquirente in vendita forzata.
Se, invece, è stato assoggettato ad espropriazione un bene appartenente ad un terzo e questi non si è avvalso del mezzo preventivo offerto dall’opposizione di cui all’art. 619 c.p.c., visto che la vendita forzata provoca un acquisto a titolo derivativo, si dovrebbe affermare che il vero proprietario possa sempre far valere il suo diritto nei confronti dell’acquirente. Ciò è vero se trattasi di beni immobili, con la precisazione che l’acquirente soccombente potrà agire per la ripetizione del prezzo non ancora distribuito e, se la distribuzione è già avvenuta, per la ripetizione da ciascun creditore di quanto ha riscosso e dal debitore per il residuo, salva la responsabilità del creditore procedente per i danni e le spese (art. 2921 c.c.), caso quest’ultimo da ricondurre al genus della responsabilità aquiliana e non propriamente ad una garanzia per evizione che di per sé non potrebbe essere imputata né al creditore, che non ha venduto il bene, né allo Stato, che ha venduto il bene senza poterne accertare l’appartenenza. Ma se trattasi di un bene mobile, bisogna fare i conti con la regola per cui l’acquirente diventa comunque proprietario del bene ove ne abbia acquistato il possesso in buona fede. In tal caso, alla luce dell’art. 2920 c.c. e dei principi generali, il terzo, ormai non più proprietario del bene, potrà agire: 1) in via risarcitoria nei confronti del creditore procedente di mala fede, ossia consapevole del fatto che si stesse espropriando il bene di un terzo, perché, se è lo Stato a vendere il bene pignorato, è anche vero che la vendita avviene nell’interesse del creditore; 2) in via di ingiustificato arricchimento nei confronti del debitore, che ha visto estinguere un suo debito per mezzo di un bene non suo. Invece l’art. 2920 c.c. impedisce azioni di ingiustificato arricchimento nei confronti dei creditori che si siano soddisfatti in esecuzione, sposando l’idea, che pur poteva essere in astratto discutibile, che essi non si siano soddisfatti ingiustamente, avendo ricevuto ciò che dovevano ricevere, sia pur per mezzo della liquidazione di un bene non responsabile.
Infine, per garantire maggiore stabilità alla vendita forzata, l’art. 2922 c.c. prevede che non possa essere esercitata l’azione generale di rescissione di cui all’art. 1448 c.c., e che non ha luogo la garanzia per i vizi della cosa. Se la prima previsione è comprensibile perché, fondandosi l’azione di rescissione sullo stato di bisogno di cui l’altra parte approfitta, nella vendita compiuta dall’organo esecutivo non si può vedere l’approfittamento di una parte in danno dell’altra, la seconda previsione, invece, appare non del tutto ragionevole, non comprendendosi perché l’acquirente dovrebbe accettare sempre il bene nello stato in cui si trova. La giurisprudenza ha così quantomeno escluso dal campo di operatività della norma il caso dell’aliud pro alio, ossia quando l’acquirente si trovi ad avere un bene diverso da quello che risultava dagli atti della procedura, precisandosi che ciò si verifica quando il bene manca delle qualità necessarie per assolvere alla sua naturale funzione economico-sociale ovvero risulti compromessa la destinazione del bene all’uso che, visto il contenuto dell’ordinanza di vendita, abbia costituito elemento determinante per l’offerta di acquisto da parte dell’aggiudicatario (Cass., 14.10.2010, n. 21249, in Resp. civ. prev., 2011, 1571). Peraltro anche in questa eventualità non sono qui utilizzabili i rimedi previsti per la vendita di diritto comune (azione di risoluzione del contratto o azione di riduzione del prezzo). L’interprete deve in qualche modo “inventarsi” una sorta di azione di impugnativa della vendita forzata esercitata dall’acquirente al fine di ottenere dai creditori quanto essi abbiano ottenuto ovvero i danni da parte del creditore che abbia proceduto con colpa.
Artt. 2910-2929 c.c.; 483-598 c.p.c.
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