Vedi Sudafrica dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
La posizione internazionale del Sudafrica è stata condizionata dalle vicende dell’apartheid. Sempre più isolato sul piano internazionale dopo la seconda ondata della decolonizzazione, in seguito alle sanzioni economiche imposte da molti paesi e venuti meno gli appoggi – o gli alibi – ideologici e pragmatici dopo la caduta del Muro di Berlino, alla fine degli anni Ottanta il Sudafrica era uno degli stati-paria dell’ordine internazionale. Il successo della transizione verso un regime democratico multipartitico e la figura carismatica di Nelson Mandela hanno fatto rientrare il Sudafrica in Africa come potenza regionale e lo hanno reso un’icona internazionale e un attore globale a tutti gli effetti.
Durante la sua presidenza, Mandela ha cercato di impostare la politica estera sudafricana basando sui diritti umani ogni presa di posizione sulla scena internazionale. Questo atteggiamento ha permesso al Sudafrica di occupare uno spazio nell’arena internazionale molto più ampio rispetto a quello che le reali dimensioni del paese avrebbero potuto giustificare: il Sudafrica post-indipendenza e i suoi ex presidenti Mandela e Thabo Mbeki – che sono stati negoziatori in prima persona in alcune crisi africane, anche dopo la fine del proprio mandato – hanno svolto un ruolo di mediazione in molte crisi continentali (Burundi, Repubblica Democratica del Congo, Sudan, Costa d’Avorio) e internazionali (da Timor Est all’Irlanda del Nord).
Il ruolo di leader morale globale ottemperato dal paese si è però trovato spesso in tensione con quello di potenza continentale. Nel 1995, per esempio, la decisione di Mandela – e di molte potenze occidentali – di ritirare l’ambasciatore in Nigeria in seguito alla condanna dell’attivista Ken Saro-Wiwa scatenò l’accusa da parte di molti governi africani che il Sudafrica fosse un paese di bianchi governato da un presidente nero.
A partire dall’invasione del Lesotho nel 1998 – avvenuta dietro richiesta del governo del Lesotho alla Comunità di sviluppo dell’Africa meridionale (Sadc) dopo disordini seguiti alle elezioni – lo status morale del Sudafrica ha iniziato ad appannarsi e la Realpolitik – oppure la rivendicazione di posizioni più vicine al nazionalismo africano e all’attivismo terzomondista – si è fatta strada anche presso il ministero degli Esteri sudafricano.
La presidenza Mbeki ha improntato le relazioni internazionali del paese verso il rafforzamento della posizione del Sudafrica come leader panafricano e portavoce dei paesi in via di sviluppo. Nel 2001 Mbeki, insieme ai presidenti di Nigeria, Algeria e Senegal, nel contesto della sua visione del ‘Rinascimento africano’, ha lanciato il Nepad (New economic partnership for Africa’s development), un piano africano per lo sviluppo del continente. Inoltre, Mbeki è stato uno degli architetti delle istituzioni continentali africane, tra cui l’Unione Africana (Au) e il Meccanismo africano di revisione tra pari.
Nel corso dei due mandati di Mbeki, il Sudafrica ha assunto posizioni meno universalistiche e più controverse, come la decisione presa nel 2007 in seno al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di votare insieme a Russia e Cina contro una risoluzione americana che censurava il regime birmano. La posizione di Mbeki e del Sudafrica relativamente alla questione dello Zimbabwe – trattata con la cosiddetta ‘quiet diplomacy’ – è stata in particolare oggetto di controversie: il tentativo di trovare una soluzione africana a una crisi africana – che peraltro ha avuto effetti collaterali negativi anche sulla situazione sudafricana – è stato visto come incapacità di trovare una soluzione alla crisi. Mbeki è stato anche molto criticato, sia internamente che sul piano internazionale, per la sua posizione sulla lotta all’Hiv.
Molti osservatori hanno visto in queste e altre decisioni del Sudafrica il tentativo di sganciare le decisioni dei forum internazionali dalla pervasiva visione strategica e politica statunitense e di proiettarsi come referente per il Terzo mondo nei consessi internazionali, a partire dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, di cui il Sudafrica è stato membro non permanente per la prima volta tra il 2007 e il 2009 e di nuovo tra il 2011 e il 2013. La nuova rilevanza internazionale del G20, di cui il Sudafrica – unico paese africano – è membro, così come quella di forum quali l’Ibsa (India, Brasile e Sudafrica) e il G5 (gruppo delle economie emergenti), aiutano a consolidare la proiezione del Sudafrica nel mondo multipolare, spesso in rappresentanza del continente africano – rivaleggiando con le altre potenze regionali dell’Africa nera, quali Nigeria ed Etiopia. L’elezione di Nkosazana Dlamini-Zuma a presidente dell’Unione Africana nel giugno 2012 ha confermato invece come Pretoria intenda occuparsi più da vicino delle sorti interne al continente e non solo di rappresentarlo sullo scenario internazionale.
Il Sudafrica ricopre inoltre un ruolo di leader regionale nell’area dell’Africa australe e all’interno dell’organizzazione della Sadc. Le recenti liberalizzazioni commerciali nell’area Sadc stanno infatti rafforzando l’interdipendenza anche economica dei paesi della regione con il Sudafrica.
A differenza del cambiamento avvenuto tra la presidenza di Mandela e quella di Mbeki, l’arrivo di Jacob Zuma non ha modificato molto la posizione internazionale del Sudafrica. Alla fine del 2010, il Sudafrica è entrato a far parte dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina e ora Sud Africa): un ulteriore segno dell’orientamento realista e multipolare del paese.
Il Sudafrica post-apartheid si è dotato di istituzioni che garantiscono la democraticità della vita civile. La Costituzione sudafricana, adottata nel 1996, è stata scritta tenendo in considerazione lo stato di ingiustizia del passato, ed è quindi una della più progressiste al mondo, con provvisioni relative ai diritti civili e all’uguaglianza senza precedenti nelle leggi fondanti degli altri paesi.
Gli equilibri politici del paese, invece, risentono ancora della pesante eredità dell’apartheid. Se infatti i partiti che si sono consolidati durante la transizione sono quelli che hanno scelto un profilo inclusivo e non etnico, a partire dall’African national congress (Anc), il comportamento di voto degli elettori continua a essere leggibile a partire dai quattro population groups, le categorie razziali su cui si basava il regime dell’apartheid. I tre gruppi etnici minoritari (bianchi, meticci o coloureds, e indiani, circa il 20% dell’elettorato) tendono a sostenere i partiti di opposizione – e in particolare la Democratic alliance (Da), erede del Democratic party, il partito liberale anglofono oppositore dell’apartheid nel parlamento bianco che, sotto la leadership di Helen Zille, ha attirato il voto dei bianchi di lingua afrikaans e dei coloureds, conquistando Cape Town e la provincia del Western Cape.
La maggioranza africana (pari a quasi l’80%) continua a tributare un consenso plebiscitario all’Anc. In seguito allo scontro tra Mbeki e Zuma l’Anc si è diviso, portando alla formazione del Cope (Congress of the people) ma non, come temevano analisti e osservatori, lungo linee etnico-regionali, bensì, almeno virtualmente, lungo linee programmatiche e di classe. Questo ha in parte spazzato via la preoccupazione della comunità e dei mercati internazionali che una crisi dell’Anc potesse aprire la porta all’etnicizzazione delle elezioni, come avvenuto spesso nel continente africano. Gli analisti continuano però a individuare nel perdurante ruolo dei fattori etnico-razziali il maggiore pericolo per il consolidamento della democrazia sudafricana.
Le elezioni del maggio 2009 hanno concluso il primo vero scontro di potere ai vertici del Sudafrica dalla fine dell’apartheid: si è parlato dell’inizio di un’era ‘post post-apartheid’. Il tentativo di Mbeki di ottenere un terzo mandato, in deroga alla Costituzione, aveva il sostegno, diretto o indiretto, di tutti coloro che, per diversi motivi, temevano che l’avvento di Zuma potesse riportare l’Anc sulle posizioni populiste-socialiste abbandonate dopo il 1990.
Una volta salito al potere, Zuma ha manifestato pragmatismo e duttilità, che nel lungo periodo sono stati però interpretati come indecisione e mancanza di leadership. Sullo Zimbabwe e sulla battaglia contro l’Aids ha sostanzialmente rovesciato le posizioni del suo predecessore, allineandosi alla percezione internazionale della malattia e delle sue cure. I propositi di nazionalizzazione sono stati accantonati e l’entrata di esponenti del Congress of South African trade unions (Cosatu) e del South African communist party (Sacp) nell’esecutivo è stata controbilanciata dall’istituzione di un ufficio di coordinamento affidato all’ex ministro delle Finanze di Mbeki, TrevorManuel, molto amato dai mercati. Complice la crisi economica mondiale, la promessa di rilanciare la lotta all’ineguaglianza e alla povertà si è trasformata nell’impegno a non tagliare la spesa sociale esistente. Queste decisioni hanno però alimentato un crescente scontento nelle masse di lavoratori, soprattutto di origine nera, che, allettati dalla retorica con la quale Jacob Zuma aveva condotto una parte della propria campagna elettorale, si aspettavano di più dalla presidenza. Nell’agosto 2012 gli scontri tra minatori in sciopero e polizia avvenuti alla miniera di Marikana, durante il quale hanno perso la vita almeno 34 minatori e alcuni poliziotti, segnano uno spartiacque nella difficile transizione del paese: il rapporto fiduciario che legava i dirigenti dell’Anc e le masse nere sembra non essere più così solido se i governanti adottano metodi molto duri per la repressione dei lavoratori in sciopero. Allo stesso modo, le proteste hanno evidenziato come le voci di coloro che vedono nei legami tra la nascente classe media nera e l’Anc una fonte di disuguaglianza, corruzione, nepotismo e malfunzionamento generale della politica e dell’economia del paese appartengano non più solo alla minoranza bianca, ma anche a parte del resto dei cittadini.
L’Istituto nazionale di statistica registra ancora la popolazione secondo i quattro gruppi razziali dell’apartheid: stando ai dati del censimento 2011, poco meno dell’80% della popolazione è registrata come di origine nera africana, l’8,7% della popolazione è bianca, il 9,5% è di origine coloureds, mentre il restante 2,4% è di origine indiana e asiatica. In realtà, le lingue parlate (la Costituzione riconosce 11 lingue ufficiali) identificano una più variegata composizione etnica della popolazione.
Per quanto riguarda gli indicatori demografici, il Sudafrica del post-apartheid ha continuato nella transizione demografica iniziata nel dopoguerra, registrando una riduzione del tasso di natalità e fecondità importante, così come un rapido aumento dell’urbanizzazione.
Al tempo stesso, però, l’epidemia di Hiv-Aids sta portando a un aumento vertiginoso del tasso di mortalità, incidendo in classi di età e ceti importanti per lo sviluppo economico. La diffusione dell’Hiv-Aids ha portato a un peggioramento delle condizioni generali di salute della popolazione, evidenziato dall’aumento dell’incidenza della tubercolosi di cinque volte su un milione di abitanti.
Anche la mortalità infantile ha risentito delle difficoltà derivanti dallo stato generale della salute pubblica del paese, così come la speranza di vita, che è in continua diminuzione dalla metà degli anni Novanta: un bambino nato nel 2011 ha una speranza di vita inferiore di 9 anni rispetto a quella di un bambino nato nel 1993. La fine dell’apartheid ha comportato l’emergere di richieste di uguaglianza non solo di carattere politico ma anche sociale ed economico. Tuttavia, ad oggi molte disuguaglianze permangono nel paese.
Per quanto riguarda gli indicatori sociali relativi all’istruzione, ad esempio, il passaggio alla nazione post-razziale non ha portato a miglioramenti sostanziali nell’accesso alla scolarità, sulla quale peraltro sussistono elementi di incertezza relativamente alla qualità. La principale conquista del regime post-razziale sta nell’allargamento dell’accesso all’acqua potabile della popolazione rurale, così come all’accesso all’elettricità e a case decenti, a cui la cosiddetta Alleanza tripartita (Anc, Cosatu, Sacp) che governa il paese ha dedicato politiche specifiche.
Il Sudafrica è da sempre un polo di attrazione dei flussi di immigrati che provengono dagli altri paesi della regione e si dedicano soprattutto al lavoro nelle miniere. Si stima che il numero degli immigrati, spesso illegali, sia quantificabile tra i due e i sette milioni di persone. La crisi in Zimbabwe è stata certamente una delle cause dell’aumento del numero degli immigrati in Sudafrica. Nel maggio 2008, le tensioni derivanti dalla presenza di migliaia di immigrati dai paesi dell’Africa australe nelle aree più povere delle città sudafricane hanno fatto scoppiare disordini e una vera e propria ondata di xenofobia, che in alcuni casi è sfociata in episodi di ‘caccia all’uomo’. Si stima che almeno 60 persone siano morte nelle violenze, le quali hanno portato molte migliaia di persone al precipitoso ritorno nei loro paesi di origine. I disordini sono poi continuati in modo sporadico nei mesi successivi e vi sono stati nuovi attacchi di una certa entità anche nel 2012.
Al tempo stesso, la fine dell’apartheid ha generato flussi di emigrazione, soprattutto tra la popolazione bianca, spinta dal timore della criminalità crescente e dalla possibilità che il governo della maggioranza decretasse la fine delle opportunità per la minoranza privilegiata. Molti bianchi di diverso livello sociale si sono così trasferiti in paesi dove c’è domanda di lavoratori altamente qualificati, come Australia, Nuova Zelanda, Regno Unito, Stati Uniti e Canada. La popolazione bianca è diminuita tra il 1996 e il 2001 di 150.000 unità, per poi aumentare di 300.000 unità nei dieci anni successivi.
Il Sudafrica presenta una situazione dicotomica per quanto riguarda il rispetto dei diritti e delle libertà individuali. Infatti, la Costituzione garantisce un ampio spettro di diritti civili individuali, incluso il diritto alla non discriminazione in base all’orientamento sessuale, che è esplicitamente garantito solo in pochissimi altri casi al mondo ed è certamente una novità nel contesto sub-sahariano, dove l’omosessualità è ancora gravata da pesanti pregiudizi derivanti anche dalla tradizione. Al tempo stesso, pur essendo garantiti dalla Costituzione, vi è una grande difficoltà a fare rispettare i diritti economici e sociali della maggioranza nera.
Il Sudafrica ha visto un marginale miglioramento dell’indice di sviluppo umano tra il 1990 e il 2011. I progressi dovuti all’impegno del nuovo governo democratico sono stati in parte erosi dalla diffusione dell’Hiv-Aids (secondo uno studio dell’università di Harvard, le controverse politiche di contrasto al contagio messe in atto dalla presidenza Mbeki sarebbero costate al paese 330.000 morti tra il 2000 e il 2005). Grazie anche al deciso impegno del presidente Zuma nella lotta all’Hiv e nella distribuzione di farmaci antiretrovirali (verso i quali Mbeki aveva invece tenuto un atteggiamento pericolosamente ‘negazionista’), i trend dell’infezione dimostrano come sia in atto, potenzialmente, un’inversione di tendenza. I dati più recenti suggeriscono che, mentre il tasso di prevalenza aumenta di anno in anno tra le persone con più di 30 anni di età, esso è in diminuzione nelle generazioni tra i 15 e i 29 anni, segno dell’effetto delle campagne di prevenzione. Inoltre il Sudafrica – quasi un’eccezione tra i paesi africani – sta affiancando alle misure preventive il trattamento antiretrovirale, che dovrebbe arrivare a curare l’80% dei pazienti entro il 2015.
La persistente disuguaglianza di opportunità e di condizioni economiche e sociali tra la maggioranza della popolazione nera, i bianchi e gli asiatici di recente immigrazione crea differenti percezioni dell’emarginazione sociale e del crimine.
La questione della disuguaglianza economico-sociale è però il vero banco di prova della democraticità del Sudafrica: come descritto da Thabo Mbeki in uno storico discorso del 1998, solo quando le ‘due nazioni’ – una bianca e sviluppata e l’altra nera e in condizione di sottosviluppo – si saranno riconciliate anche sul terreno delle opportunità e delle condizioni di vita si potrà parlare di piena cittadinanza sudafricana.
Per quanto riguarda le libertà civili, nonostante il Sudafrica sia ritenuto uno dei paesi con la stampa più libera al mondo, negli ultimi anni il rapporto con la Sabc (South African broadcasting corporation, finora indipendente dal governo) e alcune proposte legislative, sinora mai approdate in parlamento, che avrebbero limitato o limiterebbero la libertà di cronaca, sono stati letti come segnali di un’involuzione di tendenza. Allo stesso modo, alcuni interventi di membri dell’Anc e della sua Lega giovanile, del Cosatu e del Sacp relativamente all’operato dei giudici hanno creato ulteriori elementi di apprensione per quanto riguarda l’equilibrio tra i tre poteri e in particolare l’indipendenza del potere giudiziario. La situazione giuridica di Jacob Zuma, coinvolto in due processi per corruzione e in un processo per stupro, sempre non condannato, ha creato elementi di tensione e pretesti per possibili interferenze politiche. Anche le misure di lotta alla corruzione sono spesso oggetto di attenzione da parte degli osservatori internazionali, a partire anche dal processo contro Jackie Selebi, che da capo della polizia è stato condannato nel 2010 per i suoi legami con la criminalità organizzata.
La vitalità della società civile e delle esperienze associative maturate durante gli anni dell’apartheid costituisce di per sé un elemento che differenzia il Sudafrica dagli altri paesi africani e un baluardo contro qualsiasi possibile tendenza all’autoritarismo.
Dal punto di vista dello stadio di sviluppo economico, il Sudafrica rappresenta un’eccezione notevole nel panorama africano. Nonostante sia ricco di risorse naturali, tra cui oro, platino, ferro e diamanti (oltre alla ricchezza rappresentata dalla terra), il paese non è stato vittima della ‘maledizione delle risorse’, né presenta una struttura produttiva schiacciata sulle risorse primarie.
Il Sudafrica è oggi uno dei pochissimi paesi industrializzati dell’Africa nera, e vanta un settore terziario in grado di partecipare agli scambi internazionali, in particolare nel settore delle telecomunicazioni.
Anche la politica macroeconomica del Sudafrica democratico e post-razziale rappresenta un’eccezione: nonostante i timori di una parte dell’establishment bianco nazionale e internazionale, essa è sempre stata molto rigorosa e in pochi anni ha dato una stabilità invidiabile al paese che, negli ultimi anni del regime dell’apartheid, a causa della situazione di instabilità interna e delle sanzioni internazionali era precipitato in una spirale recessiva che sembrava senza via d’uscita. Il rigore della politica macroeconomica, delineata nel piano chiamato Gear (Growth, Employment and Redistribution), è sempre stato oggetto di discussione tra l’ala di maggioranza dell’Anc e le componenti di sinistra dell’Alleanza tripartita (Cosatu, Sacp).
La stabilità macroeconomica non è però stata sufficiente ad assicurare al Sudafrica i tassi di crescita necessari per l’ambiziosa agenda di democratizzazione del sistema economico e rientro della disoccupazione. Il paese, infatti, a fronte di politiche economiche stabili, soffre di mancanze strutturali più profonde, tra cui un deficit strutturale delle partite correnti, alti tassi di disoccupazione, soprattutto tra la popolazione nera, carenze infrastrutturali e scarsa concorrenza in alcuni settori chiave (trasporti ed energia).
Tra il 2008 e il 2009, il Sudafrica si è trovato ad affrontare la prima recessione del post-apartheid. Le stime di crescita sono state riviste al ribasso, e si calcola che siano stati perduti almeno 900.000 posti di lavoro nel settore formale, con una situazione particolarmente critica nel settore minerario. Ciononostante, gli effetti della crisi e la successiva ripresa presentano un quadro migliore rispetto a quello di altri paesi sviluppati, proprio perché da un lato il Sudafrica gode di una stabilità macroeconomica riconosciuta e dall’altro perché, come molti paesi emergenti, ha sofferto di meno per gli effetti diretti della crisi economica internazionale.
Il deficit strutturale della bilancia commerciale sudafricana è andato aumentando nel corso degli anni a partire dal 2004. A questo si aggiunge che, secondo l’Organizzazione mondiale per il commercio (Wto), tra il 1948 e il 2005 la quota di esportazioni sudafricane sul totale mondiale è declinata dal 2% allo 0,5% . Lo stesso è accaduto per la quota delle importazioni, che sono passate dal 2,48% allo 0,58%, a sancire da un lato una diminuita importanza del paese negli scambi internazionali e dall’altro una sempre maggiore (se comparata con le esportazioni) dipendenza dai prodotti importati.
Sempre secondo il Wto, mentre le esportazioni mondiali annuali sono cresciute nel 2005 del 9,52%, quelle dell’Africa sub-sahariana sono cresciute del 7,73 e quelle del Sudafrica del 6,88%: un segno del rischio di marginalizzazione del Sudafrica sui mercati mondiali, anche in rapporto al continente. Tra il 1988 e il 2002, l’export sudafricano si è molto diversificato: se nel 1988 il paese esportava oltre il 70% in prodotti primari, nel 2002 oltre il 53% delle esportazioni era di prodotti manufatti.
Il Sudafrica fa parte di tre raggruppamenti economici regionali: la Southern Africa Development Community (Sadc), la Southern Africa Customs Union e la Common Market Authority. All’interno del gruppo regionale della Sadc, il Sudafrica gioca un ruolo molto importante: le esportazioni da parte del paese ammontano al 44% delle esportazioni all’interno del gruppo e al 40% delle importazioni. Nonostante questo, il peso del commercio intraregionale sul totale del commercio sudafricano è ridotto, e ciò malgrado il paese abbia un livello di produzione industriale e manifatturiera molto avanzato rispetto agli altri paesi della regione.
Il Sudafrica dirige verso gli altri paesi della Sadc poco più del 10% del proprio export, mentre commercia circa il 40% del proprio export con l’Europa e più dell’11% con gli Stati Uniti.
La questione della terra ha un forte valore simbolico nel Sudafrica post-apartheid. Il Native Lands Act del 1913, che confinava gli africani nelle riserve definite dal governo (pari al 13% della superficie del paese), è considerato uno dei pilastri dell’apartheid e la restituzione delle terre ai proprietari che la detenevano prima dell’insediamento dei bianchi compariva tra i primi obiettivi dell’Anc nel 1994. Il processo di redistribuzione della terra su base etnica è stato effettivamente avviato dal nuovo governo, secondo il principio del ‘willing seller, willing buyer’, ma procede molto lentamente, anche perché i benefici economici della riforma agraria (la formazione di una piccola proprietà contadina diffusa, a scapito della più redditizia grande proprietà) sono oggetto di discussione tra gli economisti. Tuttavia, lo sviluppo dell’economia urbana e industriale dà oggi alla questione della redistribuzione della terra un rilievo inferiore di quanto ci si aspettava. L’opinione pubblica bianca segue il dibattito sulla riforma agraria come indicatore dello stato complessivo delle relazioni interrazziali (anche alla luce della crisi nel vicino Zimbabwe), mentre la nuova classe media nera guarda soprattutto alle opportunità nell’economia urbana, nelle grandi aziende pubbliche e private e nel terziario. Alcuni episodi di violenza nelle zone rurali dimostrano però che permangono latenti tensioni.
Il settore energetico è stato fortemente determinato sia dalle ricchezze minerarie del Sudafrica, sia dalla vicenda storica del regime dell’apartheid che, a causa delle sanzioni economiche internazionali, ha cercato di rendersi il più autosufficiente possibile per quanto riguardava la produzione di energia. Il carbone è la principale fonte energetica del paese (nel 2011 il 68,3% dell’offerta energetica derivava da questo minerale): il Sudafrica è l’ottavo produttore al mondo di carbone, con 28 miliardi di tonnellate di riserve, mentre l’impresa Sasol è il primo produttore mondiale di petrolio dal carbone.
Circa il 17% del fabbisogno energetico del Sudafrica proviene dal petrolio, che è importato ma viene raffinato direttamente: il paese possiede infatti impianti per la raffinazione del petrolio che in Africa sono secondi solo a quelli dell’Egitto. Le energie rinnovabili, il nucleare, il gas e l’energia idroelettrica (importata dal vicino Mozambico) coprono il restante fabbisogno energetico.
Eskom è l’impresa che produce la maggior parte dell’energia elettrica sudafricana (il 95%) e regionale (il 60%, esportata in Botswana, Lesotho, Mozambico, Namibia, Swaziland e Zimbabwe). La crescente domanda interna e per l’esportazione, unita alla mancanza di recenti investimenti nella capacità produttiva di energia elettrica, ha come conseguenza che l’offerta non riesce a compensare la crescita della domanda. Dal 2007 sono frequenti i black-out e il governo si sta impegnando in un ambizioso programma di investimenti in questo settore per aumentare la capacità di generare energia.
Data anche la composizione dei carburanti utilizzati, il Sudafrica è il paese che produce più emissioni di CO2 in tutta l’Africa: il Sudafrica registra infatti emissioni pro capite che sono pari a quelle dei paesi industrializzati, a differenza di quanto accade per la maggior parte dei paesi in via di sviluppo. Il paese è firmatario del Protocollo di Kyoto, a cui ha aderito nel 2002, ma, essendo considerato una nazione in via di sviluppo, non è tenuto a ridurre le proprie emissioni, mentre può prendere parte al Clean Development Mechanism. Durante i negoziati di Copenaghen, il Sudafrica più che rafforzare il fronte dell’unità africana ha speso energie facendo lobby nel gruppo Basic (Brasile, Sudafrica, India e Cina), chiedendo compensazioni per i danni derivanti dal riscaldamento globale e attivando meccanismi di cooperazione Sud-Sud.
L’esercito sudafricano (South African National Defence Force, Sandf) ha subito una radicale riforma dopo la fine dell’apartheid. Parallelamente alla rinuncia al programma di offesa nucleare, il governo dell’Anc ha integrato le fila dell’esercito del regime separazionista con soldati provenienti dall’Umkhonto we sizwe (il braccio armato dell’Anc), dall’Azanian people’s liberation army (l’ala militare del Pan africanist congress) e dalle Unità di autoprotezione dell’Inkhata freedom party. Il 70% dei soldati sono quindi neri, indiani e coloureds, mentre più del 60% degli ufficiali è bianco. La differenza tra soldati e ufficiali ha creato alcuni problemi nella catena di comando durante l’invasione del Lesotho, ma oggi questi, con l’esercito impegnato in varie missioni di peacekeeping nel continente, sono molto limitati.
Il Sandf è uno degli eserciti più moderni, efficienti e meglio equipaggiati di tutta l’Africa sub-sahariana. I tagli al bilancio statale causati dalla recessione del 2008-09 hanno inciso sugli investimenti previsti per ammodernare le forze armate, che si sono quindi concentrati solo sui settori necessari per rafforzare la capacità del paese di contribuire alle missioni di pace nel continente africano.
Gli investimenti in equipaggiamenti militari sono stati oggetto di interesse e speculazioni in seguito al cosiddetto ‘South African Arms Deal’, un accordo del 1998 di compravendita degli armamenti del valore di poco meno di 5 miliardi di dollari, che potrebbe aver comportato una tangente stimata di 1 miliardo di rand. Per questo episodio di corruzione è stato condannato Schabir Shaik, un uomo d’affari molto vicino al presidente Zuma, che è stato a sua volta coinvolto nell’indagine insieme a Thabo Mbeki, Chippy Shaik e l’ex ministro della Difesa Joe Modise, in carica all’epoca dell’acquisto delle armi. Le indagini relative al presunto episodio di corruzione sono state al centro di alcuni snodi della vita politica sudafricana recente.
La criminalità è uno degli elementi al centro del dibattito sulla sicurezza interna dal 1994, da quando, cioè, gli episodi di illegalità a sfondo politico si sono trasformati in episodi criminali. Nelle classifiche dell’United Nations Office on Drugs and Crime, condotte sui paesi in grado di fornire dati attendibili, il Sudafrica risulta ai primi posti per l’incidenza pro capite di omicidi, di rapine a mano armata e di stupri. I risultati di queste indagini vanno contestualizzati, dato che riguardano solo i 50-60 paesi del mondo più sviluppati ed escludono la maggior parte dei paesi africani. Il fatto che gli atti di criminalità possano incentivare l’esodo dei bianchi contribuisce a enfatizzarli. Certamente è alto il numero di farmers bianchi assassinati nelle campagne, stimato tra i 2500 e i 3000 dal 1994. Altri dati appaiono invece meno eccezionali, se confrontati con quelli dei paesi in via di sviluppo. L’incidenza degli episodi di criminalità varia sul territorio e, come in molti altri paesi, la sua distribuzione reale è riflessa solo in parte dalle statistiche.
Da qualche anno, infine, il Sudafrica è considerato un buon punto di entrata della droga che transita dall’Asia e un mercato finanziario nel quale è facile avviare attività di riciclaggio del denaro di provenienza sospetta.
La storia del Sudafrica e della sua transizione verso una democrazia multirazziale nel periodo post-apartheid deve moltissimo a Nelson Mandela, tra i nove leader dell’Anc condannati a Rivonia, il più famoso prigioniero politico degli anni Ottanta, poi leader del dialogo con il governo di Fredrik de Klerk e infine primo presidente del Sudafrica democratico.
Il grande carisma personale, l’esperienza della militanza in clandestinità, la maturazione politica e umana avvenuta in carcere, la durezza delle costrizioni dal punto di vista della vita privata sono tra gli elementi che hanno contribuito a creare una figura capace di condurre in modo determinato, equilibrato e visionario sia le difficili fasi della negoziazione che il processo di creazione di una nuova identità sudafricana.
Il governo sudafricano ha investito molto – in termini non solo monetari – in questo appuntamento, che è stato affrontato dal paese ospitante con una grandissima energia e attenzione, sottolineandone il carattere di festa e opportunità. Per il Sudafrica post-apartheid si trattava infatti della presentazione al mondo dei successi della ‘nazione arcobaleno’.
Le risorse spese per le infrastrutture (quasi due miliardi di euro) e l’organizzazione dell’evento sono state molto discusse, perché ritenute da alcuni eccessive in un paese in cui il 22% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà. Il successo del Campionato con il rilancio dell’immagine del nuovo Sudafrica ha però ripagato il paese di tutti i costi. In un sondaggio effettuato alla fine del 2010 relativamente alla popolarità delle medie potenze, il Sudafrica – insieme al Brasile – ha registrato il secondo più significativo aumento del proprio gradimento presso i cittadini di altri paesi, pari a 7 punti percentuali. All’interno del paese, invece, si è registrata un po’ di delusione post partum, certificata anche dagli scioperi che hanno bloccato il paese solo due mesi dopo il calcio d’inizio.
Secondo la Costituzione del 1996, le 11 lingue ufficiali del Sudafrica dovrebbero ‘essere considerate e trattate in modo equo’. La lingua più diffusa è lo zulu, parlato come lingua materna da quasi il 25% della popolazione, seguito dallo xhosa, parlato da poco meno del 18% dei sudafricani. Nella realtà dei fatti, l’inglese, che è la madrelingua solo dell’8,2% della popolazione, domina su tutte le altre perché è considerata una lingua che dà maggiori possibilità nell’ambito lavorativo e delle relazioni. La seconda lingua più utilizzata è l’afrikaans, madrelingua del 13,4% della popolazione, anche in conseguenza delle politiche educative del regime dell’apartheid.
La supremazia dell’inglese significa che la maggioranza della popolazione nera (che non è fluente in inglese) sconta un ritardo nell’apprendimento e nelle funzionalità comunicative, che si ripercuote sui più generali livelli di disuguaglianza nell’accesso al mercato del lavoro e nella partecipazione alla vita economica e sociale del paese.
Nel tentativo di sanare le discriminazioni nelle opportunità che erano alla base della struttura razzista dell’economia sudafricana dell’epoca dell’apartheid, il governo Mandela lanciò un’ambiziosa politica di ‘discriminazione positiva’ chiamata ‘Black Economic Empowerment’, poi estesa anche agli altri raggruppamenti razziali non bianchi presenti in Sudafrica (da cui il nome Broad-Based Black Economic Empowerment o Bbbee).
Il Bbbee prevede un sistema stringente di quote, da attuarsi in qualche decina di anni, sia per l’accesso alle università che ai posti pubblici, e soprattutto per il trasferimento della proprietà e del management delle imprese private nelle mani delle minoranze precedentemente discriminate. Il Bbbee è stato ampiamente criticato in quanto forma di ‘razzismo al contrario’ e anche in quanto strumento utilizzato dall’élite per creare un gruppo di uomini d’affari compiacenti e legati alla dirigenza politica, non riconoscendo comunque la priorità del merito.
La transizione al regime dell’apartheid è stata accompagnata dalla transizione verso lo status di potenza nucleare. Inizialmente un fornitore segreto di uranio agli Usa e al Regno Unito, negli anni Sessanta il Sudafrica consolidò il suo programma di ricerca nucleare, arrivando negli anni Ottanta a produrre energia nucleare per usi civili – il regime dell’apartheid si era molto impegnato sul fronte della autosufficienza energetica – e sei bombe nucleari all’interno di un programma militare segreto. L’esperimento che avrebbe dovuto sancire l’accesso al club nucleare fu bloccato da un intervento politico di Usa e Urss, sia pure in forme diverse. Mentre il programma nucleare militare è stato subito smantellato dopo la fine del regime dell’apartheid (la rinuncia alla bomba e l’abolizione della pena di morte furono i primi due atti simbolici della presidenza Mandela), il nucleare civile continua a produrre energia.
Oggi i due reattori presso la centrale di Koeberg, situata a 30 chilometri da Città del Capo, producono il 5% del fabbisogno energetico del Sudafrica. In risposta ai crescenti bisogni energetici del paese, il governo è impegnato in un piano di espansione della capacità produttiva nucleare, che dovrebbe raggiungere il 25% del fabbisogno energetico entro il 2050.