stella
Nana, gigante, nova, supernova...
La stella è un corpo celeste che brilla di luce propria, alimentato dalle reazioni termonucleari che avvengono nel suo nucleo. Nasce, vive e muore in processi che possono durare milioni o miliardi di anni; il suo colore cambia – dal rosso al bluastro – a seconda della temperatura superficiale; la sua luminosità apparente dipende dalla distanza. Le stelle sono classificate sulla base dello spettro della radiazione elettromagnetica che emettono e vengono catalogate dagli osservatori astronomici, ma a occuparsi di stelle non sono solo gli scienziati. Il loro fascino ha infatti da sempre conquistato poeti e letterati e la forma a stella, peraltro molto diffusa in natura, ha un valore simbolico in diverse culture
Le stelle brillano in cielo e rischiarano la Terra: durante il giorno, il Sole con la sua luce illumina e riscalda il nostro pianeta; di notte invece sono gli astri più distanti che fanno splendere il firmamento e ci inviano una pur debole luce. Le stelle sono in apparenza fisse sulla volta celeste, perché la loro distanza reciproca non sembra cambiare nel tempo. In realtà anche le stelle si muovono rispetto alla Terra, ma in modo quasi impercettibile viste le grandi distanze che ci separano. Dei settantamila miliardi di miliardi di stelle che – secondo i conti degli astronomi – popolano l’Universo, infatti, da Terra ne sono visibili, come puntini luminosi, poche migliaia, oltre al Sole che ci appare molto più grande – un vero e proprio disco – per la sua vicinanza. Ma non dobbiamo lasciarci ingannare dalle apparenze: le dimensioni lineari effettive delle stelle sono comprese tra poche decine e un miliardo e mezzo di chilometri.
A differenza dei pianeti, che sono formati da materia ordinaria (solida, liquida o gassosa) e splendono di luce riflessa, le stelle sono globi di plasma e brillano di luce propria alimentate dalle reazioni termonucleari che avvengono nel loro nucleo. La durata della loro vita dipende dal numero e dalla rapidità delle reazioni nucleari: alcune stelle sono destinate a splendere, come il Sole, per miliardi di anni, altre invece esauriscono il combustibile nucleare appena in qualche milione di anni. Durante la loro esistenza le stelle, partendo dagli elementi più semplici come idrogeno ed elio, generano via via quelli più complessi, compreso il carbonio che, insieme ai suoi composti, è all’origine delle forme viventi a noi note. Dalle stelle dipende dunque, in molti modi, la nostra stessa esistenza, e in fondo anche noi «siamo polvere di stelle», come sostiene l’astrofisica Margherita Hack.
Le stelle nascono dalla condensazione di nubi di gas e polveri. Il processo nucleare è innescato da piccole fluttuazioni che casualmente fanno aumentare la densità in un punto della nube dove, poco per volta, viene richiamata altra materia. La forza che agisce in questa prima fase è di natura gravitazionale e le particelle che si avvicinano al nucleo urtandosi fra loro fanno aumentare la temperatura della stella; contemporaneamente cresce anche la densità perché altra materia si condensa. Quando, dopo alcuni milioni di anni, la temperatura e la densità raggiungono valori sufficientemente elevati, prendono avvio le reazioni di fusione nucleare e la stella comincia a brillare di luce propria.
I processi di fusione nucleare dipendono dalla temperatura interna e dalla composizione chimica della stella, due fattori che a loro volta dipendono dalla massa dell’astro e dalla fase del ciclo di vita in cui essa si trova.
A differenza della massa – che varia tra 0,1 e 50 volte la massa del Sole – la composizione chimica delle stelle cambia poco. Come il nostro Sole, sono formate per circa il 75% di idrogeno (l’elemento di gran lunga più abbondante di tutto l’Universo), per il 23% di elio e solo per il 2% da elementi più pesanti.
Le prime reazioni nucleari che si sviluppano sono quelle che conducono, attraverso vari passaggi, alla fusione di quattro protoni in un nucleo di elio con concomitante liberazione di energia sotto forma di radiazione elettromagnetica.
Dopo che la stella ha bruciato tutto l’idrogeno disponibile, la pressione verso l’esterno causata dalla radiazione elettromagnetica viene meno e gli strati esterni precipitano verso il nucleo, dove la temperatura aumenta notevolmente. Se la massa della stella è superiore a circa la metà della massa del Sole si innesca, a questo punto, un nuovo ciclo di reazioni: due nuclei di elio si fondono per formare carbonio.
La quantità di energia liberata in questa fase è enorme e la luminosità della stella aumenta notevolmente; la pressione di radiazione torna a crescere e gli strati esterni si espandono. A questo punto la temperatura diminuisce e la stella assume un colore rosso: è diventata una gigante rossa. Tra cinque miliardi di anni, quando gli astronomi stimano che avrà terminato il suo combustibile, il Sole aumenterà di circa due-trecento volte il suo diametro e attraverserà questa fase. Nello stadio di gigante rossa il diametro e la luminosità della stella possono anche fluttuare: la stella diventa così una variabile cefeide, come le Pleiadi, un gruppo di stelle che si trovano nella costellazione del Toro. Esaurito questo stadio, in una stella di media grandezza come il Sole le reazioni nucleari si arrestano e non c’è più alcuna pressione di radiazione in grado di opporsi alla contrazione gravitazionale. La stella diventa sempre più piccola e si trasforma in una nana bianca, un oggetto piccolo e denso che, una volta emessa tutta l’energia gravitazionale di cui dispone, diventa una nana nera e si spegne definitivamente.
La morte di una stella può anche essere un fenomeno molto più rapido e violento. Le stelle con una massa pari almeno a una volta e mezza quella del Sole, prima di arrivare allo stadio di nana bianca, espellono grandi quantità di materia e formano una nebulosa planetaria attorno al loro nucleo.
Se le stelle sono almeno tre volte più massive del Sole, questa fase assume un andamento esplosivo e le stelle diventano novae – letteralmente «stelle nuove», perché un tempo si pensava che fossero stelle appena nate – e supernovae, che sono ancora più luminose delle novae. Le supernovae sembrano apparire nel cielo all’improvviso e in pochissimo tempo aumentano la loro luminosità anche di un milione di volte (per questa ragione si possono scorgere anche a occhio nudo).
Nel nucleo degli astri circa dieci volte più massicci del Sole, prima di raggiungere lo stadio conclusivo, vengono sintetizzati anche elementi come silicio e ferro, l’ultimo e il più pesante elemento prodotto dalla fusione stellare. Eppure, per quanto possa sembrare paradossale, sono proprio le stelle più massicce quelle destinate alla vita più breve: splenderanno solo per milioni di anni e concluderanno la loro esistenza con un epilogo davvero catastrofico. A seconda della massa, il nucleo centrale si trasformerà o in una stella di neutroni o in un buco nero.
Nel primo caso il collasso gravitazionale della stella viene ostacolato dalla pressione dei neutroni formatisi quando i protoni del nucleo stellare catturano gli elettroni. In queste condizioni il raggio della stella è dell’ordine di una decina di chilometri e la densità è centomila miliardi di volte quella dell’acqua (1014 g/cm3). Se il collasso gravitazionale non viene in alcun modo contrastato, allora si genera un buco nero, una sorta di ‘inghiottitore cosmico’ di radiazione elettromagnetica e materia.
Nel luglio 1967 Jocelyn Bell e Antony Hewish dell’Osservatorio astronomico di Cambridge in Gran Bretagna individuarono una successione di segnali radio brevissimi, della durata di pochi decimi di secondo, ma molto regolari, separati tra loro da intervalli di poco più di un secondo.
I due astronomi riconobbero che i segnali radio non dipendevano da interferenze terrestri – perché erano sincronizzati con il giorno sidereo (celeste) – ma provenivano da una sorgente astronomica che fu chiamata pulsar perché emetteva il segnale radio a impulsi regolari. Immediatamente dopo la scoperta, qualcuno suggerì di attribuire le emissioni a civiltà extraterrestri tecnologicamente evolute; in realtà, le teorie oggi più accreditate identificano le pulsar con stelle di neutroni in rapida rotazione. Questi astri si comportano in modo simile a un faro per le segnalazioni marittime. Emettono un fascio – non di luce, ma di onde radio – durante ogni rotazione, e se il campo magnetico e l’asse della stella di neutroni non sono allineati l’emissione raggiunge la Terra sotto forma di impulsi. Una pulsar famosa, individuata già nel 1968, è quella che si trova al centro della nebulosa del Granchio: è stata identificata con la stella di neutroni formatasi dopo l’esplosione di una supernova – osservata dagli astronomi dell’antica Cina – nell’anno 1054 d.C.
La temperatura interna di una stella durante la fase attiva della sua esistenza supera 10.000.000 K (cioè gradi Kelvin, la scala di temperatura usata in astronomia che ha la stessa ripartizione in gradi di quella Celsius ma che parte dallo zero assoluto, corrispondente a -273,16 °C), il valore minimo per innescare le reazioni nucleari di fusione. La superficie della stella invece si trova a temperature molto inferiori, dell’ordine di migliaia o decine di migliaia di gradi, ed emette luce di diverso colore proprio in ragione della temperatura superficiale.
Le stelle più fredde, che in superficie raggiungono i 3.000÷4.000 K, emettono luce di colore rossastro, mentre quelle più calde, per le quali la temperatura supera i 25.000 K, irraggiano luce di colore bluastro. Il Sole, che ha una temperatura di circa 6.000 K, si trova a metà strada tra questi due estremi ed emette luce soprattutto nell’intervallo giallo-verde del visibile (per il quale la retina umana, forse per motivi di adattamento evolutivo, ha sviluppato la maggior sensibilità).
Oltre al colore, un parametro fondamentale per classificare le stelle è offerto dalla loro magnitudine, parola derivata dal latino magnitudo, che vuol dire «intensità» o «grandezza». La magnitudine apparente è la luminosità delle stelle misurata da Terra e dipende dalla distanza degli astri rispetto al nostro pianeta, mentre la magnitudine assoluta è quella che la stella avrebbe se fosse collocata a una distanza fissa di 32,6 anni-luce.
Il Sole, per esempio, ha una magnitudine apparente di -26,86 (più le stelle sono luminose più il valore è negativo), mentre la sua magnitudine assoluta raggiunge un valore di 4,74, analogo a quello delle stelle appena percettibili a occhio nudo.
Il colore e altre importanti informazioni sulla struttura chimica e fisica delle stelle derivano dalla spettroscopia stellare, che esamina gli spettri ricavati dalla luce proveniente dagli astri. Dall’analisi degli spettri si possono individuare gli elementi che formano le stelle, perché ogni componente dello strato gassoso superficiale assorbe nell’arcobaleno continuo di colori proprio quelle radiazioni (le righe nere) che è in grado di emettere, e che quindi costituiscono una sorta di carta di identità dell’elemento.
Gli spettri delle stelle si possono poi ordinare in una sequenza continua in base all’intensità relativa delle righe più importanti – come quelle dell’idrogeno – e la classificazione che ne risulta è scandita, in ordine decrescente di temperatura, in sette classi. Le classi sono contraddistinte da altrettante lettere dell’alfabeto – O, B, A, F, G, K, M – e ciascuna è a sua volta suddivisa in dieci sottogruppi, numerati da 0 a 9 per distinguere piccole differenze all’interno di ogni classe. Le stelle di classe O sono le più calde in assoluto, con temperature dell’ordine di 20.000 ÷ 40.000 K, ed emettono luce blu; ai loro antipodi ci sono le stelle di classe M, rosse e appena ‘tiepide’, con temperatura superficiale che sfiora i 3.000 K, mentre il Sole appartiene alla classe G2 delle stelle di media temperatura.
Questa moderna classificazione, condotta in base allo spettro, non è però l’unica possibile: le stelle possono essere distinte tra loro anche in base alla luminosità e alla composizione chimica.
È possibile ricostruire le principali tappe dell’evoluzione stellare utilizzando come parametri la temperatura e la luminosità. Il grafico che ne risulta è stato elaborato agli inizi del Novecento dai due astrofisici Ejnar Hertzsprung e Henry Norris Russell (il primo danese e il secondo statunitense), e per questo si chiama diagramma H-R.
Al centro del grafico – in cui sono riportate la temperatura sull’asse delle ascisse e la luminosità su quello delle ordinate – si disegna una fascia diagonale che prende il nome di sequenza principale e ospita le stelle di età media: in alto a sinistra ci sono quelle più calde e luminose, mentre dall’altro capo della sequenza trovano posto le stelle più fredde. Gli astri restano nella sequenza principale, dove occupano la posizione che loro compete per temperatura e luminosità, sino a che dispongono di idrogeno sufficiente per alimentare le reazioni nucleari di fusione. Al termine di questa fase le stelle escono dalla sequenza principale: quelle che hanno i requisiti per diventare giganti rosse passano nella zona in alto a destra del diagramma caratterizzata da bassa temperatura e alta luminosità, quelle più piccole invece si riducono a nane bianche e trovano posto nella parte bassa del diagramma, contraddistinta da piccoli valori della luminosità.
Più della metà delle stelle non sono isolate, come il nostro Sole, ma fanno parte di sistemi formati da due (stelle doppie) o più componenti (sistemi multipli); in alcuni casi possono trovarsi riunite in ammassi che hanno avuto origine dalla stessa nebulosa.
A miliardi entrano poi a far parte delle galassie, mentre le costellazioni che fin dall’antichità l’uomo ha individuato in cielo per distinguere le stelle non sono che raggruppamenti fittizi, anche se risultano molto utili per individuare le stelle principali.
Solo gli astri più luminosi come Sirio, Vega e Arturo, infatti, hanno ricevuto da subito un nome proprio; per gli altri invece si specifica il nome della costellazione a cui appartengono seguito da una lettera dell’alfabeto greco che le ordina dalla più luminosa – la stella α – alla meno luminosa. Oggi tuttavia nemmeno questo criterio basta più. Telescopi sempre più potenti hanno permesso di individuare un numero crescente di corpi celesti che non sono classificati con un vero e proprio nome (che può essere stabilito ufficialmente solo dall’Unione astronomica internazionale), ma dal numero che le contraddistingue negli atlanti e nei cataloghi stellari. Si tratta di elenchi, prima pubblicati in formato cartaceo e attualmente come raccolte di lastre fotografiche, che gli osservatori astronomici realizzano scandagliando la porzione di cielo visibile con gli strumenti a loro disposizione.
Punte e raggi in numero variabile, che si dipartono da un centro comune, contraddistinguono la forma a stella presente nella geometria euclidea – con i poligoni regolari stellati – e in biologia, dove è tipica di alcuni organismi animali e vegetali. Gli Echinodermi asteroidei, creature che vivono aggrappate ai fondali marini, sono più familiarmente chiamati stelle di mare proprio perché hanno forma di stella – in genere a cinque raggi, ma il numero può aumentare in alcune specie – da cui consegue non una simmetria bilaterale, come quella degli esseri umani, ma radiale. La forma a stella ricorre anche in simboli distintivi come la stella di Davide, a sei punte, adottata dal popolo d’Israele; in bandiere, come quella degli Stati Uniti e dell’Unione europea, dove c’è una stella per ogni Stato; fino alle guide turistiche, dove le stelle contraddistinguono i servizi offerti da un albergo o la qualità di un luogo di ristorazione.