Abstract
Si espone la disciplina del carico, fra le parti del processo, delle spese giudiziali civili esaminando: il regime della loro anticipazione; i provvedimenti contenenti condanna alle spese; i costi ricompresi nella condanna alle spese; la rilevanza della soccombenza per il loro carico; il loro trattamento nell’esecuzione forzata.
Secondo la disposizione contenuta un tempo nell’art. 90 c.p.c. e ora nell’art. 8 del t.u. spese di giustizia (d.P.R. 30.5.2002, n. 115), ciascuna parte ha l’onere di provvedere alle spese per gli atti che compie e per quelli che chiede, nonché per gli atti necessari al processo quando l’anticipazione sia posta a suo carico dalla legge o dal giudice, salva l’applicazione della disciplina del patrocinio a spese dello Stato (cfr. Assistenza giudiziaria ai non abbienti). Non è più richiesto però, a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 98 c.p.c., il versamento della cauzione per le spese (v. C. cost., 29.11.1960, n. 67; la l. 18.10.1977, n. 793, ha altresì abrogato la previsione del deposito per il caso di soccombenza contemplata, ai fini del ricorso per cassazione, dall’art. 364 c.p.c.).
Sotto il profilo tributario, la prima voce di spesa da anticipare per legge è costituita di solito (salvi cioè i giudizi esenti) dal contributo unificato di cui agli artt. 9 ss. t.u.: in particolare ai sensi dell’art. 14 la somma è dovuta dalla parte che per prima si costituisca in giudizio, ferma restando la necessità della sua integrazione quando il valore della causa sia incrementato per effetto di nuove domande o modificazioni di quelle già proposte, a carico delle parti cui si debbano tali iniziative. L’omesso o insufficiente versamento del contributo comporta peraltro l’applicazione delle sanzioni tributarie nonché degli interessi legali, ma non l’improcedibilità della domanda (essendo stata abrogata la previsione in tal senso dell’art. 9, co. 5, l. 23.12.1999, n. 488, da parte del d.l. 11.3.2002, n. 28).
Il contributo unificato ha sostituito le imposte di bollo, la tassa di iscrizione a ruolo, i diritti di cancelleria e i diritti di chiamata in causa dell’ufficiale giudiziario, ma non le spese di notificazione degli atti, di copia autentica e semplice degli stessi, e di registrazione dei provvedimenti. Ai sensi dell’art. 285 t.u. è pertanto tuttora previsto in via transitoria (sino all’emanazione del decreto attuativo dell’art. 196 t.u.) che i diritti di copia e di certificato e le spese per le notificazioni a richiesta d’ufficio si paghino mediante applicazione di marche da bollo, e che il funzionario rifiuti di ricevere gli atti, o di rilasciare la copia o il certificato se le marche mancano o sono di importo inferiore a quello stabilito.
A sua volta il giudice, quando dispone d’ufficio il compimento di un atto, nello stesso provvedimento individua la parte tenuta all’anticipazione, tenendo conto dell’interesse al suo compimento (per es., con riferimento ai mezzi istruttori, in base al riparto dell’onere della prova), potendo eventualmente ordinare che più parti concorrano pro quota o in solido. Trattandosi di una regolamentazione provvisoria, il provvedimento si ritiene revocabile (sinché non sia stato eseguito) e non impugnabile (ma correggibile ai sensi dell’art. 288 c.p.c.). Si ritiene altresì che possa validamente surrogarsi a quella tenuta a provvedere all’anticipazione, ex art. 1180, co. 1, c.c., la parte che ritenga di avere un proprio interesse al compimento dell’atto (cfr., su questi punti, Grasso, E., Della responsabilità delle parti, in Comm. Allorio, I, 2, Torino, 1973, 975 ss.).
Con l’introduzione dell’art. 816 septies c.p.c. da parte del d.lgs. 2.2.2006, n. 40, si è concesso anche agli arbitri di richiedere alle parti anticipazioni delle spese (oltre al versamento dell’acconto sull’onorario già possibile ex art. 2234 c.c.), ripartendone discrezionalmente il carico (salvo accordo delle parti stesse) e fissando altrettanto discrezionalmente il termine per il loro versamento. Ove una parte non provveda, l’altra può anticipare la totalità delle spese, ma se il termine decorre inutilmente cessa l’efficacia del compromesso rispetto alla controversia. Negli arbitrati amministrati secondo regolamenti precostituiti viene peraltro sovente previsto che in tali ipotesi si determini l’estinzione del procedimento senza pregiudizio per l’efficacia della clausola arbitrale (v., per es., l’art. 38 del Regolamento della Camera Arbitrale di Milano).
La regolamentazione provvisoria del carico delle spese viene sostituita da quella definitiva, ai sensi dell’art. 91 c.p.c., nel provvedimento con cui il giudice definisce il giudizio dinanzi a sé. Il riferimento alla sentenza, contenuto nella norma, ricomprende infatti i provvedimenti aventi forma diversa ma contenuto risolutivo di controversia su di un diritto soggettivo. La pronuncia è altresì contenuta nel decreto ingiuntivo (cfr., con riferimento agli artt. 641 e 653 c.p.c., C. cost., 31.12.1986, n. 3039) e nella corrispondente ordinanza ex art. 186 ter c.p.c., nonché nell’ordinanza ex art. 186 quater c.p.c. (non invece nell’ordinanza ex art. 186 bis c.p.c.). Contengono inoltre pronuncia sulle spese i provvedimenti resi dal giudice cautelare prima dell’inizio della causa di merito, quando rigettino l’istanza, ex art. 669 septies c.p.c., nonché, ex art. 669 octies c.p.c., quando concedano provvedimenti d’urgenza o comunque anticipatori della decisione di merito. Si nega invece che la pronuncia sulle spese sia dovuta, oltre che nelle sentenze non definitive, nelle decisioni sulle istanze di mera correzione (v., per es., Cass., S.U., 27.6.2002, n. 9438).
Si ha per converso pronuncia sulle spese nei giudizi di impugnazione, in senso stretto e lato (comprese quindi le opposizioni al decreto ingiuntivo e i reclami ex art. 669 terdecies c.p.c.), sia con riferimento al grado deciso, sia, in caso di accoglimento, a quelli precedenti, con riferimento all’esito complessivo della lite, purché non si sia formato sul punto il giudicato interno. In proposito va ricordato che la statuizione sulle spese è necessariamente dipendente da quella di merito, e quindi viene automaticamente caducata ex art. 336 c.p.c., senza bisogno di esplicita impugnazione, per effetto della riforma o della cassazione della statuizione pregiudiziale, ma pur sempre nei limiti della soccombenza effettiva della parte impugnante: pertanto, l’accoglimento dell’impugnazione proposta solo dalla parte parzialmente soccombente e non onerata delle spese nel precedente grado non incide sulla relativa statuizione (v., per es., Cass., 30.3.2001, n. 4739). Merita aggiungere che ex art. 385 c.p.c. la Corte di cassazione può rimettere la pronuncia sulle spese al giudice del rinvio, mentre quando cassa senza rinvio o per violazione delle norme sulla competenza deve regolamentare il carico di tutte le precedenti fasi, salvo poter rinviare la liquidazione al giudice a quo.
L’equiparazione, in tale norma, della cassazione senza rinvio a quella per violazione delle norme sulla competenza non risolve però i dubbi sulla disciplina applicabile alle pronunce declinatorie della competenza, anche a seguito dell’abrogazione, da parte della l. 18.6.2009, n. 69, del riferimento alle sentenze regolatrici contenuto nell’art. 91. Si potrebbe dunque immaginare che in vista della translatio iudicii ex art. 50 c.p.c. le ordinanze di rimessione ai sensi degli artt. 38, 39 e 40 c.p.c. siano equiparate alle sentenze non definitive, e così anche le pronunce affermative della giurisdizione di altro giudice nazionale ex art. 59 della l. n. 69/2009: già prima di tale riforma, peraltro, la Corte di cassazione soleva ritenere che l’accoglimento del regolamento di competenza, pur comportando la caducazione della statuizione sulle spese correlata alla pronuncia impugnata, non giustificasse anche una nuova regolamentazione delle spese dei precedenti gradi di giudizio (v. Cass., S.U., 6.7.2005, n. 14205; cfr., dopo la riforma, Cass., 9.11.2011, n. 23359). D’altro canto si ritiene comunque dovuta la pronuncia sulle spese anche nella sentenza di rimessione della causa al primo giudice ai sensi dell’art. 353 c.p.c. (v. Cass., S.U., 10.8.1999, n. 583).
Si esclude poi senz’altro la pronuncia sulle spese in occasione dell’estinzione del processo, per rinuncia o per inattività, o in caso di conciliazione giudiziale, derivandone le conseguenze di legge rispettivamente contemplate negli artt. 306 (in forza del quale le spese sono a carico della parte rinunciante salvo diverso accordo, gravando sul giudice che dichiara l’estinzione solo il dovere di liquidarle, e sempre purché la rinuncia sia stata accettata: ove invece la rinuncia produca l’effetto estintivo del processo prima della costituzione del convenuto non si procede neppure alla liquidazione, v. Cass., 10.3.2011, n. 5756; naturalmente anche la mera liquidazione ha contenuto decisorio, sicché la previsione della sua non impugnabilità da parte dell’ult. co. dell’art. 306 non la sottrae al ricorso ex art. 111 cost.: v., per es., Cass., 10.10.2006, n. 21707; ove sia resa anche una pronuncia sul carico delle spese in presenza di contrasto fra le parti si configura un provvedimento abnorme e pertanto appellabile: v., per es., Cass., 14.12.2009, n. 26210), 310 (in forza del quale le spese restano a carico delle parti che le abbiano anticipate) e 92, ult. co., c.p.c. (in forza del quale le spese si intendono compensate, salvo diverso accordo delle parti sul punto). La pronuncia sulle spese ha peraltro luogo quando venga definita controversia sulla sopravvenuta estinzione, nonché nelle fattispecie di cessazione della materia del contendere in cui si riscontri una soccombenza virtuale (merita ricordare che anche il disposto dell’art. 68 l. 27.11.1933, n. 1578, in forza del quale in caso di transazione giudiziaria tutte le parti sono solidalmente responsabili per gli onorari e le spese di tutti i difensori che abbiano partecipato al giudizio nei precedenti tre anni, si applica solo se non vi sia appunto stata una pronuncia di cessazione della materia del contendere comprensiva della regolamentazione delle spese: v. Cass., 12.6.2010, n. 14193; oggi l’art. 13, co. 6, l. 31.12.2012, n. 247, afferma che tale solidarietà viene meno solo in caso di espressa rinuncia), nonché quando la Corte di cassazione discrezionalmente ritenga, ai sensi dell’art. 391 c.p.c., di condannare la parte che abbia dato causa alla rinuncia al ricorso (purché non abbiano aderito alla rinuncia le altre parti).
Secondo la giurisprudenza più recente, la statuizione sulle spese è immediatamente esecutiva, anche se accessoria a statuizioni non esecutive (v. Cass., 27.7.2012, n. 13373).
La regolamentazione definitiva delle spese di cui alle ipotesi sopra menzionate ricomprende tutte quelle relative agli atti difensivi, quelle per le consulenze tecniche di parte e in generale per le attività di accertamento anche se svolte anteriormente al processo ove resesi necessarie per la lite, le imposte di registro sugli atti da registrare in caso d’uso, nonché quelle di registrazione e trascrizione della sentenza (le spese della sentenza sono però liquidate ex art. 91, co. 2, c.p.c. dal cancelliere, e quelle di notifica della sentenza, del titolo esecutivo e del precetto dall’ufficiale giudiziario, con provvedimenti soggetti a correzione ex artt. 278 e 288 c.p.c. da parte del capo dell’ufficio giudiziario). Soprattutto, però, essa ricomprende il compenso per la difesa tecnica, comprensivo dell’imposta sul valore aggiunto e del contributo previdenziale: il tema è di particolare attualità a seguito della riforma introdotta con l’art. 9 d.l. 24.1.2012, n. 1, conv. nella l. 24.3.2012, n. 27, e attuato con il d.m. 20.7.2012, n. 140, nonché della successiva l. n. 247/2012.
In particolare gli artt. 2-11 del d.m. n. 140/2012 prevedono criteri generali di adattamento al caso concreto delle tariffe stabilite dalla tabella A (per es. in aumento rilevano importanza e complessità del caso, pregio dell’opera svolta, vantaggi arrecati; in diminuzione, oltre alla mancata prova del preventivo ai sensi dell’art. 1, co. 6, d.m. n. 140/2012, rilevano per es. la condotta processuale abusiva o temeraria e il cumulo processuale; d’altronde rileva altresì in diminuzione, ma ai sensi dell’art. 151, ult. co., disp. att. c.p.c., la trattazione unitaria di cause di lavoro e previdenza anche se solo impropriamente connesse), ma il co. 7 dell’art. 1 precisa che in nessun caso le soglie numeriche previste siano vincolanti. Inoltre il co. 2 contemplava la possibilità per l’avvocato di conseguire un rimborso forfettario delle spese solo se previamente concordato.
Tuttavia l’art. 13, co. 10, della successiva l. n. 247/2012 stabilisce che sia comunque dovuta, anche in sede di liquidazione giudiziale, una somma per il rimborso delle spese forfettarie, la cui misura massima deve essere indicata tramite decreto attuativo. Uno schema di decreto con cui si reintroduceva tale voce aveva in precedenza raccolto un parere sfavorevole, per contrasto con la previsione dell’art. 9 d.l. n. 1/2012, da parte del Consiglio di Stato (n. 12463 dell’adunanza del 20 dicembre 2012). In mancanza di tale decreto resta dubbio che il giudice sia ancora tenuto a liquidare le spese generali anche in mancanza di allegazione (come talvolta affermava la giurisprudenza: v., per es., Cass., 29.11.2011, n. 25351), fermo restando che la mancata allegazione della nota spese di cui all’art. 75 disp. att. c.p.c. non impedisce di procedere alla liquidazione (in tal caso il giudice non ha l’onere di specificare le voci, v. Cass., 13.5.2011, n. 10663).
L’art. 13, co. 6, l. n. 247/2012 comporta inoltre che sia ancora dovuta dalla parte al suo difensore la differenza tra il compenso determinato consensualmente in forma scritta e quello liquidato ai sensi dell’art. 91 c.p.c. in misura inferiore (come d’altronde implica anche l’art. 92 c.p.c. nell’escludere la ripetizione delle spese eccessive). Si può peraltro dubitare che in base a tale disciplina sia ancora escluso che la somma liquidata ex art. 91 possa superare quanto dovuto dalla parte al suo difensore per effetto dei loro accordi, benché ciò sia di fatto improbabile, vista la tendenza legislativa a comprimere l’ammontare delle spese ripetibili: dapprima la l. n. 69/2009 ha modificato l’art. 152 disp. att. c.p.c. per prevedere che spese, competenze e onorari nelle cause per prestazioni previdenziali non possano liquidarsi in misura superiore al valore della domanda; poi l’art. 13 d.l. 22.12.2011, n. 212, conv. con modif. nella l. 17.2.2012, n. 10, ha introdotto il nuovo ultimo co. dell’art. 91 c.p.c. per stabilire la stessa regola per tutte le cause di competenza del giudice di pace in cui non sia obbligatorio il patrocinio; è appena il caso di notare che disposizioni del genere tendono a rendere relativamente meno rilevante la valutazione dell’apparenza di fondatezza della domanda nella scelta delle parti di agire o resistere in giudizio.
La pronuncia di regolamentazione definitiva delle spese è infatti resa di norma in favore della parte, e non direttamente del difensore, anche per quel che concerne i suoi compensi: quest’ultimo può solo (e sempre purché non gli sia stata revocata la procura) chiedere la distrazione in suo favore, ex art. 93 c.p.c., di onorari non riscossi e spese da lui anticipate; la parte può comunque chiedere, ancora ex artt. 287 e 288 c.p.c., la revoca del provvedimento dimostrando di aver saldato (ove però il difensore abbia già conseguito il rimborso dall’avversario la parte ha l’onere di esercitare l’azione di restituzione). Innovando rispetto all’orientamento in precedenza consolidato, la giurisprudenza ha di recente affermato che l’istanza di distrazione, oltre a non essere soggetta a preclusione, non attribuisce comunque al difensore la qualità di parte, e che l’omessa pronuncia sul punto deve trovare rimedio ancora nel procedimento di correzione (Cass., S.U., 7.7.2010, n. 16037).
Si nega invece la condanna alle spese in favore della parte rimasta contumace (v., per es., Cass., 19.8.2011, n. 17432). Analogamente, ricomprende solo le spese effettivamente sostenute, e non anche il compenso per la difesa tecnica e le spese generali, la condanna in favore della p.a. costituita in giudizio tramite funzionario delegato direttamente (non però quando questi sia delegato dall’Avvocatura dello Stato ex art. 2 r.d. 30.10.1933, n. 1611), salva l’applicazione dell’art. 152 bis disp. att. c.p.c. (in forza del quale se la p.a. è rappresentata da un suo dipendente nelle controversie di lavoro ai sensi dell’art. 417 bis c.p.c. le spetta la tariffa vigente per gli avvocati ridotta del 20%).
Nelle ipotesi ora menzionate la pronuncia sulle spese va resa anche d’ufficio, a meno che la parte vincitrice abbia preventivamente rinunciato al rimborso con dichiarazione propria o del difensore munito di mandato speciale (v. Cass., S.U., 28.7.1984, n. 4489). Essa viene infatti intesa come conseguenza automatica della soccombenza nella lite, e pertanto si nega correlativamente che le relative somme possano chiedersi in separato giudizio (v. Cass., 21.10.1993, n. 10450; cfr. anche l’esplicito disposto in tal senso dell’art. 22, co. 2, l. fall.).
Tali conclusioni trovano fondamento nell’idea che la necessità di ricorrere al giudice non debba tornare a pregiudizio della parte che abbia ragione, di cui si trova riscontro anche nella disciplina applicabile in caso di pluralità di parti soccombenti: ex art. 97 c.p.c. tale condanna si presume per quote uguali, ma il giudice può ripartirle in ragione dell’interesse di ciascuna parte nella causa, eventualmente in via totalmente o parzialmente solidale nei confronti di tutte o di alcune soltanto, quando l’interesse sia comune, anche d’ufficio (non è invece ammessa la previsione di solidarietà attiva fra più parti vittoriose: v., per es., Cass., 25.1.1999, n. 663). Dagli stessi principi discende che la condanna alle spese debba pronunciarsi nei confronti del soccombente anche se rimasto contumace (v., per es., Cass., 10.12.1988, n. 6722; cfr. Cass., 22.1.2010, n. 1101), ed anche se mero aderente all’azione di classe (v. Trib. Milano, 13.3.2012, in Foro it., 2012, I, 1909).
Nel caso in cui la parte sia invece difesa solo in modo apparente per inesistenza o falsità della procura è il difensore tecnico a rispondere delle spese, mentre la parte assistita ne è comunque responsabile quando la procura sia semplicemente invalida (v. Cass., S.U., 10.5.2006, n. 10706). Si esclude poi del tutto la condanna alle spese sia in favore sia in sfavore del p.m., sulla base della sua qualificazione come parte in senso formale ma non sostanziale (cfr., per es., Cass., S.U., 12.3.2004, n. 5165).
Sono altresì coerenti con la logica indennitaria del principio victus victori le previsioni di cui all’art. 92 c.p.c. nel senso che il giudice possa disporre la compensazione totale o parziale delle spese nei casi di soccombenza reciproca, ed escludere la ripetizione delle spese ritenute superflue o eccessive (merita ricordare che non sono escluse le spese di chiamata del garante per l’evizione anche se l’azione di rivendica viene accolta, v. Cass., 3.6.1991, n. 6255). Introduce invece una considerevole deroga ad essa il potere del giudice di disporre, in base alla stessa norma, analoga compensazione per altri motivi: il legislatore ha di recente introdotto regole volte a circoscrivere l’applicazione di tale istituto, dapprima stabilendo, con l’art. 2 l. 28.12.2005, n. 263, che tale statuizione debba essere motivata, e poi aggiungendo, con l’art. 45 l. n. 69/2009, che tali motivi non possano essere semplicemente giusti, ma debbano essere gravi ed eccezionali; l’effettività di tali innovazioni può tuttavia oggi restare impregiudicata solo se la giurisprudenza riterrà che il vizio di motivazione, non più deducibile come autonomo motivo di ricorso per cassazione ex art. 360 n. 5 c.p.c., a seguito delle modifiche introdotte con il d.l. 22.6.2012, n. 83, conv. con modif. dalla l. 7.8.2012, n. 134, possa comunque ancora farsi valere in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360 n. 4 c.p.c. (come avveniva prima della l. 14.7.1950, n. 581).
Gravi, ed essenzialmente riferibili alla slealtà o imprudenza della condotta processuale, debbono essere altresì i motivi per condannare alle spese dell’intero processo, o di singoli atti, ai sensi dell’art. 94 c.p.c., colui che rappresenta o assiste la parte (anche come rappresentante organico), eventualmente in solido con essa (v., per es., Cass., 8.10.2010, n. 20878). La slealtà processuale può giustificare d’altronde anche il superamento del principio secondo cui non può essere condannata alle spese la parte totalmente vincitrice: di nuovo ai sensi dell’art. 92 c.p.c., la violazione dei doveri di lealtà e probità di cui all’art. 88 c.p.c. può comportare anche a prescindere dalla soccombenza la condanna al rimborso delle spese, persino se non ordinariamente ripetibili; si tratta peraltro di una deroga alla regola del victus victori, ispirata al contrapposto principio di causalità, alquanto circoscritta (non rileva infatti la slealtà della condotta precedente al giudizio: v., per es., Cass., 20.3.2007, n. 6635), e coerente con quelle stesse esigenze di contenimento dell’abuso del processo (v., per es., la fattispecie decisa da Cass., S.U., 20.8.2010, n. 18810) che sono alla base anche dell’aggravamento della responsabilità da soccombenza ai sensi dell’art. 96 c.p.c., accentuato dalle più recenti riforme (cfr. in proposito Responsabilità aggravata).
Più ampie deroghe al principio del victus victori sono state introdotte di recente per favorire la conciliazione delle parti in sede giudiziale e stragiudiziale. Con riferimento alla prima, in occasione della modifica dell’art. 91, co. 1, c.p.c., da parte della l. n. 69/2009, si è generalizzato un meccanismo già contemplato per le controversie in materia societaria dall’art. 16, co. 2, d.lgs. 17.1.2003, n. 5 (contestualmente abrogato dalla stessa l. n. 69/2009), prevedendo che in caso di accoglimento della domanda in misura non superiore ad un’offerta conciliativa, siano poste a carico della parte che l’abbia rifiutata senza giustificato motivo le spese successive alla sua formulazione, salva sempre la loro compensazione per gravi ed eccezionali motivi.
Con riferimento alla seconda, va ricordato che già l’art. 5, co. 7, della l. 11.5.1990, n. 108, aveva stabilito che ai fini dell’impugnazione del licenziamento nelle piccole imprese rilevasse, ai fini della pronuncia sulle spese, la condotta tenuta dalle parti in sede di tentativo obbligatorio di conciliazione: tale sistema è oggi esteso dall’art. 7, co. 8., l. 15.7.1966, n. 604, come modificato dall’art. 1, co. 40, l. 28.6.2012, n. 92, ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo anche da parte dei datori di lavoro di maggiori dimensioni.
Successivamente, analoga disciplina era stata introdotta, per le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze della p.a., dall’art. 69 bis, co. 7, d.lgs. 3.2.1993, n. 29, aggiunto dall’art. 32 d.lgs. 31.3.1998, n. 80, poi trasfuso nell’art. 66 d.lgs. 30.3.2001, n. 165. L’art. 38 dello stesso d.lgs. n. 80/1998 aveva altresì previsto la modifica dell’art. 412 c.p.c. per estendere tale sistema anche alle controversie relative ai rapporti di lavoro privati. L’art. 80 d.lgs. 10.9.2003, n. 276, lo aveva poi contemplato ai fini delle contestazioni delle certificazioni del rapporto di lavoro. Tuttavia il successivo art. 31 l. 4.11.2010, n. 183, ha eliminato l’obbligatorietà del tentativo di conciliazione, e correlativamente la disciplina della rilevanza ai fini delle spese del suo fallimento, nella generalità delle controversie di lavoro, lasciando peraltro sopravvivere l’art. 80 del d.lgs. n. 276/2003.
Nel frattempo, l’art. 40 d.lgs. n. 5/2003 aveva contemplato la piena derogabilità del principio del victus victori anche in caso di fallimento del tentativo di conciliazione stragiudiziale reso obbligatorio dal contratto o dallo statuto della società, alla luce del confronto fra le posizioni assunte dalle parti e il contenuto della sentenza. Anche tale disciplina, però, è stata abrogata dall’art. 23 d.lgs. 4.3.2010, n. 28.
Lo stesso d.lgs. n. 28/2010, infatti, aveva introdotto in via molto più generale l’obbligatorietà del tentativo di conciliazione stragiudiziale, stabilendo all’art. 13 che in caso di corrispondenza della sentenza alla proposta rifiutata, la parte vincitrice rispondesse, oltre che delle spese sostenute successivamente a tale rifiuto dalla parte soccombente, anche del versamento allo Stato di un’ulteriore somma corrispondente al contributo unificato. Tale disciplina, peraltro, è oggi altrettanto inapplicabile a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale, per eccesso di delega, della previsione dell’obbligatorietà del tentativo di conciliazione a cui si ricollega: ne è derivata infatti l’illegittimità costituzionale consequenziale dell’intero art. 13, fatta eccezione per la parte in cui ribadisce l’applicabilità degli artt. 92 e 96 c.p.c. (v. C. cost., 6.12.2012, n. 272).
Ai sensi dell’art. 95 c.p.c., le spese sostenute dal creditore procedente nell’espropriazione forzata, nonché quelle sostenute dai creditori intervenienti che abbiano utilmente partecipato alla distribuzione, sono a carico del debitore esecutato. Tali spese non formano oggetto di pronuncia di condanna (v., per es., Cass., 29.5.2003, n. 8634), ma di accertamento meramente strumentale alla distribuzione della somma ricavata ex art. 510 c.p.c. (o alla determinazione della somma da sostituire al bene pignorato in sede di conversione ex art. 495 c.p.c.), e in quanto tale privo di efficacia di giudicato (v., per es., Cass., 25.6.2003, n. 10129). Si esclude però l’applicazione dell’art. 95 c.p.c. quando l’esecuzione sia infruttuosa (v. ancora Cass., 29.5.2003, n. 8634), qualificandosi la relativa spesa come intrinsecamente eccessiva e superflua (v. ancora Cass., 25.6.2003, n. 10129).
Le spese di giustizia sostenute dal creditore per gli atti conservativi e di espropriazione di beni mobili e immobili nell’interesse comune sono inoltre privilegiate, ai sensi del combinato disposto degli artt. 2755, 2770 e 2777 c.c., in via prioritaria rispetto a ogni altro credito, anche se pignoratizio o ipotecario. Sono tuttavia collocate nello stesso grado del credito principale le spese non compiute nell’interesse comune (v., per es., ancora Cass., 29.5.2003, n. 8634).
In caso di estinzione del procedimento esecutivo per rinuncia ai sensi dell’art. 629 c.p.c. si applica l’art. 306 c.p.c., sicché salvo diverso accordo delle parti sono poste a carico della parte rinunciante, e liquidate con provvedimento soggetto a ricorso ex art. 111 cost. (v., per es., Cass., 16.12.2010, n. 25439), anche le spese sostenute dal debitore (v., per es., Cass., 4.8.2000, n. 10306).
In caso di estinzione per inattività ai sensi dell’art. 632, co. 4, c.p.c., si applica l’art. 310, ult. co., c.p.c., e le spese restano a carico delle parti che le abbiano anticipate, senza pronuncia sul punto, ma a seguito della modifica dell’art. 632, co. 1, da parte della l. 3.8.1998, n. 302, è esplicitamente previsto che su istanza di parte si provveda anche alla loro liquidazione (con provvedimento ancora impugnabile ex art. 111 cost., v., per es., Cass., 9.11.2007, n. 23408): tale disciplina si ritiene tuttavia applicabile solo quando vi sia anche, eccezionalmente, una regolamentazione del carico (per es. in caso di estinzione per rinuncia o di accordo sul punto, o di controversia sull’estinzione: cfr., per es., Cass., 24.1.2003, n. 1109). Lo stesso art. 632, co. 1, prevede altresì che si provveda sempre alla liquidazione dei compensi al delegato alle operazioni di vendita: ai sensi dell’art. 7 d.m. 25.5.1999, n. 313, gravano sull’aggiudicatario o sull’assegnatario solo i compensi per le attività di cui all’art. 591 bis, co. 2, n. 5, c.p.c., ma la norma va coordinata con le modifiche apportate allo stesso art. 591 bis dalla l. 28.12.2005, n. 263; la disposizione va pertanto letta alla luce dell’art. 179 bis disp. att. c.p.c. (riferito alle vendite immobiliari, e richiamato per quelle mobiliari dall’art. 169 bis disp. att. c.p.c.), in guisa che gravino sull’aggiudicatario o sull’assegnatario le spese successive alle operazioni di vendita.
Nei procedimenti di esecuzione forzata in forma specifica la liquidazione delle spese da parte del giudice dell’esecuzione è compiuta con decreto soggetto a opposizione ex artt. 645 ss. c.p.c.: una previsione esplicita in tal senso è contenuta nell’art. 614 c.p.c. con riferimento all’esecuzione di obblighi di fare e non fare; con riferimento all’esecuzione di obblighi di consegna o rilascio il disposto dell’art. 611 c.p.c. (modificato dalla l. n. 80/2005 in modo da dissipare ogni dubbio intorno alla circostanza che siano ricompresi, oltre alle spese vive, i compensi per la difesa tecnica) viene inteso in giurisprudenza nel senso che sia esperibile lo stesso rimedio (v. Cass., 12.7.2011, n. 15341).
Artt. 2755, 2770, 2777 c.c.; artt. 90-98, 186 quater, 306, 310, 364, 385, 391, 495, 510, 611, 614, 629, 632, 641, 653, 669 septies, 669 octies, 816 septies c.p.c.; artt. 75, 151, 152, 152 bis, 169 bis, 179 bis disp. att. c.p.c.; art. 22 l. fall.; art. 68 l. 27.11.1933, n. 1578; art. 7 d.m. 25.5.1999, n. 313; d.P.R. 30.5.2002, n. 115; artt. 1-11, Tabella A, d.m. 20.7.2012, n. 240; art. 13 l. 31.12.2012, n. 247.
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