Vedi Spagna dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
La Spagna è stata un fiorente impero coloniale tra il 16° e il 17° secolo (il cosiddetto Siglo de oro): possedeva numerose colonie soprattutto nell’America meridionale, dove tuttora l’eredità culturale iberica è viva e la lingua spagnola, fra le più parlate al mondo, è la più usata. Marocco a parte, la Spagna perse i suoi possedimenti nel 19° secolo, prima delle altre potenze europee, ed entrò in una fase di declino, anche per il ritardo con cui affrontò la rivoluzione industriale. Il paese, che si è dichiarato neutrale durante le due guerre mondiali, ha vissuto una guerra civile devastante negli anni Trenta e, in seguito, un lungo periodo di isolamento internazionale durante la dittatura franchista.
Dopo la morte del generale Francisco Franco, nel 1975, si è delineato l’attuale assetto politico. L’uscita dall’isolamento del periodo franchista, la restaurazione dei rapporti diplomatici e l’integrazione nelle organizzazioni dell’Europa occidentale sono state il principale obiettivo della politica estera. Il paese è entrato nella Nato nel 1982 e poi nella Comunità economica europea nel 1986, assieme al Portogallo. L’integrazione europea, che è tuttora la priorità politica del paese, ha favorito il successivo sviluppo economico e sociale: la Spagna ha ricevuto fondi netti equivalenti allo 0,8% del pil ogni anno dal 1987. In più, i membri del processo di integrazione europeo sono i principali partner per commercio e investimenti. Il paese è parte della zona euro e degli accordi di Schengen. Rivendica un maggiore utilizzo della lingua spagnola nel contesto europeo, ma ha un impatto relativamente limitato sulle politiche dell’Unione Europea (Eu). Inoltre, pur essendo tuttora la quinta economia tra gli stati Eu, la profonda crisi attuale ne limita l’influenza. Nel primo semestre del 2010 la Spagna ha guidato per la quarta volta la presidenza del Consiglio dell’Eu. I principali obiettivi della sua presidenza erano un maggiore coordinamento per far fronte alla crisi economica, una nuova politica dell’immigrazione (problema che unisce la Spagna e i paesi del Mediterraneo), il rafforzamento del ruolo dell’Europa e il coordinamento delle politiche di aiuto allo sviluppo nella prospettiva del vertice Eu-Africa, tenutosi nel novembre 2010.
Per il resto, la politica estera spagnola è focalizzata sui rapporti con l’America Latina e su quelli con il Nord Africa. Il legame culturale con le ex colonie latinoamericane è molto forte e l’immigrazione dall’America Latina è un fenomeno di rilievo. La Spagna promuove i summit Eu-America Latina e partecipa attivamente ai summit annuali iberoamericani dei capi di stato e di governo. L’esecutivo Zapatero (2004-11) ha promosso una maggiore cooperazione politica, soprattutto con le amministrazioni di sinistra di Brasile e Venezuela, che ha tuttavia prodotto risultati modesti. Sebbene la Spagna commerci e investa soprattutto con altri stati Eu e gli Usa, negli anni Novanta è stata il primo investitore in America Latina e ancora oggi mantiene una delle prime posizioni: le multinazionali spagnole hanno investito in settori chiave quali bancario, energetico e dei servizi pubblici.
I rapporti con il Nord Africa e la stabilità della regione rappresentano un’altra priorità della politica estera spagnola. Madrid promuove l’Unione per il Mediterraneo nell’ambito Eu e il Dialogo 5+5, volto a rafforzare la cooperazione del Mediterraneo occidentale. I rapporti con il Marocco, geograficamente contiguo, rivestono un ruolo particolare e il governo spagnolo ha interesse alla cooperazione in materia di sicurezza, per far fronte a terrorismo e immigrazione clandestina. Nonostante le tensioni per le rivendicazioni marocchine di sovranità sulle exclaves spagnole di Ceuta e Melilla, sotto il controllo spagnolo da più di mezzo secolo, le relazioni tra i due paesi sono strette e la Spagna ha promosso la concessione al Marocco dello ‘status avanzato’ di associazione con l’Eu. Di rilievo anche i rapporti con il Medio Oriente, dove attualmente la Spagna è presente con le sue truppe nell’ambito della missione delle Nazioni Unite in Libano (Unifil). A livello europeo, Madrid intrattiene relazioni diplomatiche politiche cordiali con le principali potenze continentali. Recentemente sono, tuttavia, riemerse alcune tensioni con il Regno Unito in merito alla questione di Gibilterra. Un caso che ha rischiato (e rischia tuttora) di sfociare in un incidente diplomatico.
Per quanto riguarda gli Usa, la cooperazione nell’ambito della difesa è regolata da un trattato del 1989, che consente a Washington di mantenere alcune basi militari sul territorio spagnolo. Nel 2004 il ritiro delle truppe dall’Iraq da parte dell’allora neoeletto premier José Luis Rodríguez Zapatero ha determinato un raffreddamento delle relazioni. Da allora rimangono tiepide, complice anche la profonda crisi economica che spinge l’attuale governo di Mariano Rajoy a occuparsi principalmente della politica interna, sebbene i due paesi restino importanti alleati nella lotta al terrorismo e partner di rilievo per i rispettivi investimenti esteri.
La Spagna ha ampliato gli orizzonti della politica estera, soprattutto puntando ai Balcani occidentali (partecipa alla missione Eufor) e all’Asia, in particolare India e Cina, anche per rafforzare la cooperazione economica.
A livello globale, la Spagna è un’attiva promotrice del multilateralismo e del rafforzamento delle Nazioni Unite. Nel 2004 il governo Zapatero, assieme a quello turco, ha proposto la creazione dell’Alleanza delle civiltà delle Nazioni Unite (Unaoc), istituita nel 2005. L’Alleanza mira ad approfondire la conoscenza e le relazioni tra i popoli al di là delle culture e delle religioni, promuovere la convivenza pacifica e contrastare l’estremismo.
La democrazia fu restaurata in Spagna dopo la morte del generale Franco nel 1975. Il principe Juan Carlos di Borbone, scelto da Franco come proprio successore nel 1969, divenne re e nel 1976 nominò Adolfo Suárez come primo ministro. Nel giro di pochi mesi, i partiti furono legalizzati, per la prima volta in quarant’anni vennero indette libere elezioni e la nuova Costituzione democratica fu approvata con il referendum del 1978. La carta fondamentale prevede che la Spagna sia una monarchia parlamentare. Il re è il capo dello stato, arbitra e modera il funzionamento regolare delle istituzioni e assume la più alta rappresentanza del paese all’estero. Il potere legislativo è affidato a un Parlamento bicamerale (Cortes generales): la Camera bassa (Congreso de los Diputados) è composta da 350 membri eletti nelle circoscrizioni provinciali per quattro anni (Ceuta e Melilla sono rappresentate da un deputato ciascuna), mentre i membri del Senato, la Camera alta o di rappresentanza territoriale, sono 259, di cui 208 eletti a suffragio universale diretto e 51 scelti dalle assemblee legislative delle comunità autonome. Il primo ministro, a capo dell’esecutivo, è nominato dal re e gode della fiducia della camera bassa.
I due maggiori partiti spagnoli sono il Partido socialista obrero español (Psoe) e il Partido Popular (Pp). Il Psoe ha guidato il governo numerose volte dagli anni Ottanta: dal 1982 al 1996 l’esecutivo è stato presieduto da Felipe González, mentre dal 2004 al 2011 a capo del governo è stato José Luis Rodríguez Zapatero.
Il Pp, già partito di governo tra il 1996 e il 2004 con José María Aznar, è tornato alla guida del paese nel 2011 con Mariano Rajoy. Le elezioni anticipate del novembre 2011, indette dall’allora primo ministro Zapatero, forzato dalla crisi economica internazionale che ha messo a dura prova l’economia spagnola, minacciando la stabilità stessa del paese, hanno fatto registrare la vittoria del Pp. Conquistando 186 seggi sui 350 disponibili, il partito di Rajoy si è assicurato la maggioranza assoluta, relegando all’opposizione il Psoe. La guida del partito socialista è stata allora assunta da Alfredo Pérez Rubalcaba, dopo che Zapatero aveva manifestato la volontà di non ricandidarsi, sull’onda di una crisi di popolarità innescata dal crollo del settore edilizio spagnolo, dalla recessione e dalla drammatica impennata della disoccupazione.
La divisione amministrativa spagnola prevede 17 comunità autonome e due città autonome (Ceuta e Melilla). La Spagna è uno dei paesi europei che ha attuato un decentramento più radicale. Al governo vi sono partiti come la Esquerra Republicana de Catalunya, Convergència i unió e il Partido nazionalista vasco (in basco: Euzko alderdi jeltzalea) che pongono come prioritaria la questione dell’indipendenza. Le comunità, fortemente indebitate a causa di una spesa pubblica molto elevata negli anni della crescita spagnola che le espone oggi al rischio default, hanno alimentato allo stesso tempo istanze separatiste/autonomiste. Ciò vale in particolare per i Baschi e i Catalani: il novembre 2014 dovrebbe tenersi in Catalogna un referendum sulla secessione indetto dalla Generalitat, il governo della comunità autonoma, e giudicato illegale dal governo centrale.
La Spagna è un paese etnicamente molto omogeneo, nel quale sono tuttavia presenti forti istanze autonomiste o indipendentiste di alcune regioni storiche (in particolare i Paesi Baschi e la Catalogna) che si distinguono per motivi linguistici e culturali. La Spagna è anche un paese relativamente poco popolato, se confrontato con i grandi stati dell’Europa occidentale, con una densità di quasi 93 abitanti per chilometro quadrato (paragonabile a quella greca, mentre Italia, Germania e Regno Unito superano tutte i 200 abitanti per chilometro quadrato).
È un paese a forte tradizione cattolica: soltanto al termine del franchismo la Costituzione del 1978 ha abolito il cattolicesimo come religione di stato. Negli ultimi decenni, le persone che si dichiarano cattoliche sono scese dal 90% degli anni Ottanta al 73% dell’ottobre 2010, mentre più di un quinto degli spagnoli afferma di non appartenere ad alcuna confessione religiosa. Tra i cattolici il 55% ammette di non assistere mai a una funzione religiosa.
Tra il 2000 e il 2008 la popolazione è aumentata di più di 5 milioni di persone (+13%), prevalentemente per effetto dell’immigrazione dall’estero. Nel dicembre 2010 la Spagna è risultata il secondo paese europeo per stranieri residenti (5 milioni di persone), dietro la Germania (circa 7 milioni). Gli alti flussi migratori hanno fatto crescere significativamente la popolazione musulmana, anche se si tratta soltanto del 2% del totale.
L’immigrazione ha poi contribuito ad abbassare l’età mediana di una popolazione relativamente anziana, che negli anni Novanta stava attraversando una fase di deciso declino demografico (nel 1998 il tasso di fecondità era 1,16 figli per donna, mentre oggi è salito a 1,38). Gli stranieri rappresentavano nel 2012 il 12,1% della popolazione spagnola – negli anni Novanta si aggiravano attorno all’1,5% – e una percentuale maggiore di immigrati è in età da lavoro rispetto alla popolazione autoctona.
Questo ha contribuito a sgravare il sistema pensionistico di una parte della pressione provocata dai trend demografici. Tuttavia, il costo della previdenza sociale resta uno dei problemi principali. Come è avvenuto in molti altri paesi occidentali, l’alta aspettativa di vita ha allargato la fascia di persone con più di 65 anni (l’attuale età pensionabile), che nel 2012 ha superato il 17% della popolazione totale. Secondo stime delle Nazioni Unite, la tendenza sembrerebbe difficilmente arrestabile: se il trend si mantenesse costante, entro il 2025, un quinto della popolazione avrà più di 65 anni, ed entro il 2050 la quota potrebbe comprendere un terzo degli abitanti.
La Spagna è un paese democratico dalla seconda metà degli anni Settanta, dopo circa 35 anni di regime autoritario sotto Francisco Franco. Durante il primo trentennio di democrazia i diritti della società civile sono progrediti a ritmi serrati. Ma è stato soprattutto nell’ultimo decennio, e più precisamente dall’elezione di Zapatero nel 2004, che la Spagna ha emanato alcune delle leggi sui diritti civili più avanzate d’Europa. Innanzitutto, dal 2007 sono in vigore le quote rosa sulle liste elettorali: le donne devono costituire il 50% dei candidati. Le conseguenze sono state evidenti da subito: le donne rappresentano il 36% dei deputati eletti alla Camera bassa nel 2012. La nuova legislazione sull’aborto, regolamentato per la prima volta da una legge del 1985, è entrata in vigore nel luglio 2010: prevede maggiori possibilità per ricorrervi. La legge è stata preceduta da una forte contestazione da parte del mondo cattolico, sfociata in manifestazioni di piazza nell’ottobre 2009, alle quali ha partecipato quasi un milione di persone. Si deve tuttavia sottolineare che, sebbene in precedenza l’aborto fosse consentito solo nei casi in cui la gravidanza fosse conseguenza di uno stupro, o qualora fosse in pericolo immediato la salute fisica o mentale della madre, o infine nel caso in cui il feto soffrisse di malformazioni o handicap mentali, le applicazioni estensive della legge avevano già ampliato i casi di aborto medico dai 54.000 del 1998 ai 112.000 nel 2007. I rapporti tra coppie dello stesso sesso sono inoltre attualmente regolamentati da una legge che, entrata in vigore nel luglio 2010, ha legalizzato il matrimonio omosessuale. A quella data la Spagna è stato il terzo paese al mondo a farlo, dopo i Paesi Bassi e il Belgio. La stessa legge ha inoltre reso legale anche l’adozione da parte di coppie omosessuali. Benché la misura fosse prevista nel programma elettorale del Psoe e godesse del consenso di circa due terzi dell’opinione pubblica, ha scatenato una polemica anche da parte dei vertici della Chiesa cattolica.
Un’altra misura che ha creato forti divisioni è stata la legalizzazione dell’eutanasia. La disposizione, anch’essa prevista nel programma elettorale del Psoe, è stata rigettata dallo stesso partito in un voto in aula nel 2007. I sondaggi più recenti mostrano che il sostegno popolare a favore della legalizzazione dell’eutanasia è ampio, ma nel 2008 uno scandalo legato ad alcuni casi di morte assistita per almeno 400 pazienti terminali, che ha coinvolto 15 medici (poi scagionati da tutte le accuse), ha reso più complicato l’avvio di un nuovo iter legislativo.
Sotto il profilo dell’istruzione, il forte ruolo della scuola pubblica è cresciuto fino al 2002, quando il Pp ha approvato una riforma che rafforzava la posizione delle scuole private (attualmente frequentate da un terzo degli alunni delle scuole medie superiori) e restringeva le possibilità di accesso all’università. Nel 2005, tuttavia, il governo socialista di Zapatero ha ribaltato gran parte di questi cambiamenti. La controversia ideologica che si è aperta circa il processo di riforma del sistema scolastico non ha giovato alla qualità dell’istruzione stessa, che oggi tocca livelli tra i più bassi tra i paesi Oecd: le carenze più gravi si riscontrano nella lettura e nella matematica.
Al termine della dittatura franchista, nel 1975, la Spagna era ancora un paese prevalentemente agricolo. Il forte sviluppo economico conosciuto tra gli anni Cinquanta e i primi anni Settanta venne bloccato dall’impatto della crisi energetica del 1973 e dalla conseguente crisi economica, che si protrasse durante l’intero periodo di transizione verso la democrazia.
Tra il 1975 e il 1990 il sistema economico ha attraversato molte trasformazioni, che ne hanno consentito un livello di crescita modesto ma costante. Dalla seconda metà degli anni Novanta la Spagna ha invece conosciuto uno sviluppo economico tra i più rapidi in Europa. Nel periodo 1997-2007 il pil è cresciuto a una media annua del 3,8%, e nello stesso periodo il reddito pro capite è più che raddoppiato. Nel frattempo, il contributo al pil dei diversi settori economici è andato mutando. Il terziario è passato da una posizione subalterna fino alle dimensioni attuali: oggi forma oltre due terzi del pil. I servizi si concentrano in prevalenza nel turismo: la Spagna è la seconda meta europea (dietro la Francia) e quarta assoluta al mondo per arrivi dall’estero. Il settore industriale, nel frattempo, si è dimostrato resistente alla transizione verso l’economia dei servizi, soprattutto per il massiccio sviluppo dell’edilizia destinata al turismo (14% del pil, metà dell’intera produzione industriale del paese) e dei forti investimenti nel miglioramento delle infrastrutture. Nel 2009 la Spagna è inoltre risultata il secondo produttore di veicoli a motore in Europa (2,2 milioni di vetture), seconda solo alla Germania (5,2 milioni), dopo aver scavalcato la Francia (2 milioni). La posizione è stata mantenuta anche nel 2012 nonostante il perdurare della crisi economica.
Gli sforzi per entrare nell’area euro sin dall’inaugurazione (coronati da successo, già nel 1999) obbligarono la Spagna a imboccare la strada del rientro dal costante deficit di bilancio, che aveva afflitto il paese durante il primo periodo democratico. Nel 2001, per la prima volta dal termine della dittatura, il governo raggiunse il pareggio di bilancio, continuando su quella linea fino al 2007. Malgrado le attente politiche di bilancio, la crisi economica globale l’anno successivo ha provocato un deficit elevato (ha toccato l’11% del pil nel 2009, il 9% nel 2010 e il 10,6% nel 2012), ben oltre la soglia del 3% formalmente consentita dai parametri di Maastricht.
La crisi ha anche portato allo scoperto le debolezze strutturali che affliggono il paese e che sembravano costituire un problema crescente ma procrastinabile durante il periodo del grande sviluppo economico. L’eccessiva esposizione finanziaria delle banche e degli istituti di credito spagnoli ha influito sulla stretta del credito, mentre lo scoppio della bolla immobiliare ha abbattuto il valore delle case (-12% dall’inizio della crisi, ma secondo gli analisti gli immobili restano tuttora fortemente sopravvalutati e si attendono ulteriori correzioni nei prossimi anni). Il settore edilizio, in particolare, è sprofondato in una grave crisi.
Inoltre i cambiamenti demografici di lungo periodo hanno spinto in alto le spese previdenziali, rendendole non più sostenibili. Per questa ragione è oggi in discussione una riforma delle pensioni che dovrebbe innalzare l’età pensionabile da 65 a 67 anni. Infine, il tasso di disoccupazione degli ‘under 25’ anni ha superato il 46% nel 2012, mentre la disoccupazione totale raggiunge il 27%. Questa situazione ha spinto, dal maggio 2011, migliaia di giovani a ideare una forma di protesta permanente nelle maggiori città spagnole, dando vita al Movimiento 15-M, meglio conosciuti come ‘Indignados’. Nato grazie al coordinamento di Plataforma ¡Democracia Real Ya!, un’organizzazione civile che il 15 maggio 2011 ha portato nelle piazze spagnole la protesta contro il sistema delle banche, il Movimiento 15-M (15 maggio per l’appunto) ha rappresentato una forma di protesta fluida, senza un vero e proprio leader, che ha abbracciato una pluralità di questioni, pur ponendo al centro quella della crisi economica. Gli indignados sono scesi periodicamente in piazza ma il movimento, come gli analoghi nel resto del mondo, si è progressivamente esaurito.
Gli effetti della crisi non sono però stati solo negativi: il cronico deficit di bilancia commerciale della Spagna, storicamente attorno al 10% del pil, è rientrato al 4%, sebbene questo sia da attribuirsi più al rapido calo delle importazioni che all’aumento delle esportazioni. Le condizioni debitorie del paese sono comunque peggiorate, dal momento che la crisi del credito internazionale ha alzato il costo dei capitali necessari per finanziare il deficit commerciale. In particolare, lo spread tra i Bonos spagnoli e i Bund tedeschi si è attestato a circa 400 punti alla fine del 2012.
Le relazioni commerciali bilaterali spagnole si concentrano verso gli altri paesi europei (circa il 65% del commercio complessivo), ma grande importanza riveste anche l’interscambio con l’America Latina (nel 2012 pari a 45,7 miliardi di dollari).
Nel 2012 l’Unione Europea ha previsto circa 100 miliardi di euro di aiuti, principalmente per le banche spagnole, che hanno avuto bisogno di essere ripatrimonializzate. Il sistema bancario spagnolo è stato colpito in modo particolare dalla crisi del settore immobiliare. Approfittando dei bassi tassi di interesse offerti dalle banche, molte famiglie e imprese del settore edile avevano investito nel settore immobiliare, indebitandosi, fino all’inevitabile scoppio della bolla. Un milione di case sono rimaste invendute e gli occupati nell’edilizia sono scesi da 2,5 milioni nel 2006 a 1 milione nel 2012.
La Spagna produce circa il 40% del carbone consumato e quantità molto ridotte di petrolio e gas. Dipende quindi in larga misura dalle importazioni, poiché compra dall’estero il 60% del carbone che utilizza, il 98% del petrolio (che rappresenta la prima fonte del mix energetico nazionale) e quasi il 100% del gas. Le importazioni di gas sono piuttosto diversificate: attraverso i gasdotti Meg e Medgaz (quest’ultimo, operativo dal marzo 2011, collega direttamente Spagna e Algeria aggirando il Marocco), la Spagna può ricevere rispettivamente un massimo di 12 e 8 giga metri cubi (Gmc) all’anno dall’Algeria. Nel 2012 dall’Algeria è giunto circa il 40% del gas totale. D’altra parte il paese possiede sei rigassificatori (e altri tre dovrebbero essere costruiti entro il 2016) e quindi riceve gas liquefatto anche da Nigeria (13,9%), Qatar (13,8%), Norvegia (11,5%), Perù (7,5%) e Trinidad e Tobago (7,2%). La Spagna è così divenuta il primo paese Eu per diversificazione e sviluppo della tecnologia del gas naturale liquefatto (Gnl) e il quarto importatore al mondo di Gnl dopo Giappone, Corea del Sud e Regno Unito.
Questi risultati, che migliorano notevolmente il livello di sicurezza energetica del paese, sono una conquista recente visto che, ancora nel 2001, il paese importava il 70% del gas dall’Algeria.
Anche le importazioni di petrolio sono piuttosto diversificate: nel 2008 la prima fonte energetica del paese arrivava da circa 20 stati e in particolare da Russia (15%), Messico (13%), Iran (12%), Arabia Saudita (11%), Libia (10%) e Nigeria (9%). La Spagna possiede inoltre dieci raffinerie di petrolio.
Per garantirsi maggiore sicurezza, il paese ha inoltre promosso lo sviluppo dell’energia nucleare e delle rinnovabili. Sono in funzione otto centrali nucleari che producono circa l’11% del mix energetico, anche se il governo prevede di ridurre tale quota. Viceversa, le rinnovabili rivestono ancora una piccola quota del mix energetico (6,1%, esclusi il legname e altre biomasse), ma il governo ne sta promuovendo lo sviluppo, in particolare quello dell’energia eolica (la Spagna ha la terza più elevata capacità di generazione al mondo). È stata inoltre avviata una stretta cooperazione con il Portogallo con la creazione del Mercato iberico dell’elettricità, e si sta lavorando a un analogo mercato unico del gas.
Riguardo alla politica ambientale, il paese ha adottato nel 2007 una strategia contro il cambiamento climatico e per produrre energia pulita, che prevede numerose misure per migliorare l’efficienza, stimolare lo sviluppo delle rinnovabili e la ricerca. Inoltre, il governo spagnolo si è impegnato a ridurre le emissioni di CO2 dell’80% entro il 2050, prevedendo di eliminare il consumo di carbone.
La sfida che la Spagna ha affrontato a lungo sul terreno della sicurezza è stata duplice: da un lato, doveva difendersi da attacchi terroristici di gruppi nazionali sul proprio territorio. Dall’altro, pur in assenza di minacce dirette, ha avuto un ruolo importante nelle missioni internazionali. Gli attentati ferroviari avvenuti a Madrid l’11 marzo 2004 hanno in qualche modo modificato lo scenario e fatto passare in secondo piano la minaccia terroristica interna, surclassata dal terrorismo internazionale di matrice islamica. Dalla fine del franchismo la Spagna ha riaffermato a più riprese l’impegno nelle più rilevanti organizzazioni internazionali occidentali: l’Eu e la Nato. Per quanto riguarda quest’ultima, la Spagna è entrata nel 1982, ma solo dal 1999 ha deciso di partecipare alla struttura militare integrata. Oggi il paese ospita cinque quartieri generali Nato. I buoni rapporti con gli Usa sono stati sanciti nel 2001 dall’assenso spagnolo all’allargamento della base militare americana a Rota – che accoglie circa 4000 unità tra soldati e civili statunitensi – e dalla partecipazione di Madrid alle missioni internazionali in Afghanistan e in Iraq. Tuttavia, l’elezione di Zapatero nel 2004, contrario alla guerra in Iraq, ha portato al ritiro del contingente spagnolo in Iraq a un anno esatto dall’inizio della missione e dopo gli attentati di Madrid (aprile 2004). Ciò non ha comportato un minore impegno della Spagna sul fronte internazionale, che è stato ribadito dalla scelta di proseguire la partecipazione alla missione di peacekeeping Unifil in Libano, della quale la Spagna ha assunto il comando nel gennaio 2010.
Sul fronte interno, il terrorismo indipendentista e i rapporti tra il governo e l’ETA continuano a rappresentare un problema irrisolto, nonostante i tentativi degli ultimi anni (in particolare la mediazione del 2006, durante il governo Zapatero) di trovare una soluzione politica. Nell’ottobre 2011 l’organizzazione separatista ha annunciato il suo impegno a superare il confronto armato e ha invitato i governi di Madrid e Parigi ad aprire un dialogo per trovare una soluzione al conflitto durato oltre 40 anni. Allo stesso tempo, i vertici dell’organizzazione hanno invitato i rappresentanti dell’Izquierda abertzale (le correnti della sinistra marxista basca) a rinunciare alla violenza e a entrare nella legalità politica, rafforzando la causa e il sostegno nazionalista all’indipendenza basca.
La questione gibilterriana si è risvegliata dopo anni di relativa tranquillità: Gibilterra è a tutt’oggi un’exclave britannica nel sud della Penisola iberica rivendicata dalla Spagna. I dissapori sono riemersi nel febbraio 2013, quando la nave Tornado, che normalmente trasporta forze speciali e marines spagnoli, ha navigato per oltre venti minuti nelle acque che Gibilterra reclama come proprie, ignorando gli allarmi di varie pattuglie della Royal Navy che volevano allontanarla. L’incidente, classificato dal Foreign Office inglese come un’incursione di «estrema gravità», la più grave dal 1960, ha scatenato una serie di proteste e reazioni a catena che hanno inasprito le già tese relazioni diplomatiche tra i due stati, che da sempre si contendono la giurisdizione territoriale delle acque e la sovranità sulla colonia. Il 24 luglio 2013, Gibilterra ha costruito una barriera corallina artificiale, che per la Spagna danneggerebbe i suoi pescatori. Madrid ha risposto intensificando i controlli di sicurezza lungo la Línea de la Concepción, il comune-frontiera andaluso posto al confine con Gibilterra. Il governo spagnolo ha minacciato anche di imporre una tassa di confine di 50 euro su ogni veicolo in transito e di proibire agli aerei diretti a Gibilterra di utilizzare lo spazio aereo spagnolo. Le iniziative di Madrid hanno provocato le proteste di Londra, che ha definito «gravi» e «provocatorie» le azioni di disturbo e le incursioni nelle acque territoriali gibilterriane delle piccole imbarcazioni spagnole. Qualora la querelle dovesse continuare, la Spagna intende denunciare Gibilterra alla Corte internazionale di giustizia dell’Aia per avere «occupato illegalmente» l’istmo che collega la colonia britannica alla terraferma e che non fa parte degli Accordi di Utrecht del 1713, che concessero a Londra la sovranità sul territorio.
Uno degli obiettivi primari della politica estera spagnola dall’avvento della democrazia è stato aumentare l’influenza in America Latina. Legami storici, linguistici e culturali avvicinano la Spagna ai paesi di prima colonizzazione dell’area, affrancatisi da Madrid nell’Ottocento. Nel 1996 la Spagna diventò il primo investitore estero nella regione latinoamericana (con 6,3 miliardi di dollari). L’anno precedente, per la prima volta in un secolo, le esportazioni spagnole verso l’America Latina superarono quelle verso gli USA. Negli anni Novanta, inoltre, più del 20% delle acquisizioni e fusioni nella regione latinoamericana furono operate da imprese spagnole. Tra le aziende con grandi interessi nella regione figurano il gruppo Telefónica, leader nel settore delle telecomunicazioni, e Sol, la più grande catena di hotel spagnoli. Il trend è rallentato nell’ultima parte degli anni Novanta, per conoscere poi una brusca inversione di tendenza durante la fase più acuta della crisi del debito sovrano in Argentina (2001). Dal 2004, tuttavia, i rapporti economici con la regione sono ripresi. Se, da una parte, il quinquennio 2004-09 è stato caratterizzato da relazioni economiche più tese con i paesi – soprattutto Venezuela, Argentina, Bolivia e Nicaragua – che hanno adottato politiche di ri-nazionalizzazione e protezione delle imprese nazionali e che hanno accresciuto la diffidenza verso gli investimenti esteri, percepiti come tentativi di colonizzazione indiretta, dall’altra l’intensità dei rapporti economici e degli investimenti totali nella regione è giunta, nel 2008, a superare quella degli anni Novanta. Nel maggio 2012, l’espropriazione forzata da parte dell’Argentina della maggioranza delle azioni di Yacimientos Petrolíferos Fiscales (YPF), compagnia petrolifera di proprietà della multinazionale spagnola Repsol, ha aperto una crisi diplomatica tra Madrid e Buenos Aires
Euskadi ta Askatasuna (ETA), letteralmente ‘Paesi Baschi e libertà’, fu fondata il 31 luglio del 1959 da alcuni studenti nazionalisti convinti che il Partido nacionalista vasco (PNV) rappresentasse gli interessi baschi in modo inadeguato all’epoca del franchismo. Il movimento univa l’ideologia antispagnola e ultracattolica del fondatore del PNV, Sabino Arana, all’ispirazione marxista-leninista; il suo obiettivo era l’indipendenza della regione basca dalla Spagna. Considerata un’organizzazione terroristica dal governo spagnolo e, dal 2001, anche dall’EU, l’ETA si è resa responsabile di più di 800 omicidi e di migliaia di rapimenti, le cui vittime appartenevano prevalentemente a polizia ed esercito. Il primo attentato risale al giugno 1968. L’attività terroristica si è però impennata dopo la morte di Franco, nella seconda metà degli anni Settanta, per poi diminuire d’intensità. L’ETA ha rotto le tregue da essa stessa dichiarate ben otto volte. La penultima nel 2006, quando annunciò un cessate il fuoco permanente per poi infrangerlo con gli attacchi all’aeroporto Barajas di Madrid del dicembre 2006, dopo che Zapatero aveva stabilito l’apertura di un canale di dialogo e si era reso disponibile a molte concessioni. L’ETA ha dichiarato un altro cessate il fuoco permanente nel gennaio 2011, che è stato accolto con molto scetticismo dal governo e dall’opinione pubblica, ma anche dal Partito nazionalista basco. Braccio politico dell’ETA è stato il partito radicale di sinistra Batasuna, fondato nel 1978 con il nome di Herri Batasuna (‘Unità del popolo’). In lotta per l’indipendenza dei Paesi Baschi, è stato dichiarato illegale e bandito nel 2003 dal Tribunale supremo spagnolo. Sulla questione si è pronunciata nel 2009 anche la Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha ritenuto la dissoluzione del partito un’esigenza sociale. Nel febbraio 2011 è stato creato il nuovo partito basco, Sortu, che ha dichiarato di rifiutare la violenza. L’aspirazione del movimento era partecipare alle elezioni locali del maggio 2011 nei Paesi Baschi. La richiesta fu respinta dalla Corte suprema spagnola perché il partito fu ritenuto il diretto successore di Batasuna. Solo nel giugno 2012 la Corte suprema ha legalizzato la posizione di Sortu, riconoscendone il diritto di associazione politica.
La natura multinazionale dello stato spagnolo ha creato a più riprese fasi conflittuali. La spinta indipendentista delle regioni lontane da Madrid si è scontrata con il tentativo di unificazione del centro. Nel caso della Catalogna la perifericità territoriale, coniugata con la centralità economica, ha amplificato la sfida autonomista. Distinta dal resto della Spagna da una propria lingua e cultura, la Catalogna aveva avanzato rivendicazioni nazionaliste già durante la Seconda repubblica (1931-36). La centralizzazione perseguita dal regime franchista, che cancellò ogni simbolo dell’identità regionale (inno, bandiera) e vietò l’uso pubblico e privato della lingua, arrivando a distruggere la corrispondenza in catalano, non dissolse il desiderio di autonomia. Al contrario: la transizione dal franchismo alla democrazia fu accompagnata da un processo di decentramento che istituì lo ‘stato delle autonomie’, delineato dalla Costituzione, approvata consensualmente nel 1978. In quanto nazionalità storica, la Catalogna ottenne subito un livello di autogoverno elevato, con competenze su istruzione, sanità, lingua e mezzi di comunicazione. Tuttavia, poiché la Costituzione non stabiliva un elenco fisso delle competenze regionali, ma proponeva piuttosto un menu di scelte possibili su cui Madrid e le autonomie potessero accordarsi, il processo di decentramento restò incompiuto e destinato a rimettersi in moto al variare delle contingenze politiche.
Così, negli anni Novanta l’autonomia di cui godeva la Catalogna fu ampliata, con il sostegno della coalizione nazionalista e conservatrice Convergència i Unió (CIU) ai governi di minoranza del PSOE (1993-96) e del PP (1996-2000). Contrattando il proprio appoggio nel Parlamento di Madrid, la CIU riuscì a ottenere il trasferimento alla Catalogna di nuove risorse, competenze e ambiti di autonomia fiscale e legislativa. Dopo il secondo governo Aznar (2000-04), contrario a ogni ulteriore decentramento, il socialista Zapatero (al governo dal 2004 al 2011) ha aperto una fase di dialogo con le regioni che ha permesso la riforma degli statuti di autonomia. In questo quadro, nel giugno 2006, il nuovo statuto della Catalogna è stato approvato con un referendum dal 74% dei Catalani, dopo un lungo negoziato conflittuale che ha investito sia il Parlamento regionale sia quello nazionale. Contro il nuovo statuto si è pronunciato il PP, che lo ha considerato un attentato all’unità del paese e ha deciso di impugnarlo davanti al Tribunale costituzionale. La risposta al ricorso è arrivata soltanto nel 2010, dopo quattro anni segnati dalla divisione dei giudici, nonché da crescenti tensioni tra la classe politica catalana e il governo spagnolo. Il Tribunale ha dichiarato incostituzionali 14 degli oltre 200 articoli che componevano il documento e ha imposto un’interpretazione restrittiva di altri 27. Tra i punti più importanti che sono stati rigettati: la concezione dello statuto come documento in grado di definire i poteri regionali attraverso l’elenco dettagliato delle competenze della comunidad; la ridefinizione dei rapporti con il governo centrale attraverso relazioni bilaterali; la dignità statutaria assegnata alla politica linguistica, fino a quel momento raccolta in leggi ordinarie. Inoltre il riferimento introdotto dallo statuto alla ‘nazione’ catalana e ai ‘simboli nazionali’ è stato depotenziato. La sentenza è considerata l’elemento scatenante di una nuova fase di rivendicazioni nazionaliste. Tra il 2010 e il 2013 diversi fattori, di natura politica ed economica, hanno avviato una spirale di polarizzazione tra il nazionalismo catalano e quello spagnolo che, a differenza di quanto avvenuto in passato, è stata accompagnata dalla crescita del sentimento indipendentista popolare. La sentenza sullo statuto di autonomia ha sollevato, in particolare, una forte indignazione, esplosa nella oceanica manifestazione di protesta che si è svolta a Barcellona il 10 luglio 2010 con lo slogan «Siamo una nazione. Decidiamo noi». Le elezioni catalane del novembre 2010 hanno poi segnato, dopo sette anni di assenza, il ritorno al governo della CIU che, sotto la guida di Artur Mas, ha adottato un programma incentrato sulla richiesta a Madrid di un sistema di finanziamento più favorevole alla Catalogna. Inoltre, l’alternanza al governo centrale, con il Partido Popular che, dal novembre 2011, ha sostituito il PSOE, si è tradotta in una linea di rigida austerità economica e ri-centralizzazione decisionale. Le richieste fiscali catalane sono state respinte. Contestualmente si è esacerbato il rapporto centro-periferia. Nel luglio 2012 la crisi economica ha obbligato la Catalogna, esclusa dai mercati finanziari internazionali, a chiedere un bailout al governo centrale. La necessità del salvataggio è stata presentata come prova del ‘saccheggio’ cui è stata sottoposta la regione, il cui contributo alle entrate dello stato è superiore ai trasferimenti ricevuti, con una differenza che oscilla tra il 6,4 e l’8,7% del PIL regionale. Nel novembre 2012, CIU ha perso le elezioni anticipate che aveva convocato promettendo un referendum sull’indipendenza. I risultati hanno quindi obbligato Mas a un accordo di legislatura con la formazione indipendentista radicale balzata al secondo posto, Esquerra republicana de Catalunya (ERC). Le richieste di ERC hanno accelerato i tempi, con la convocazione del referendum sull’indipendenza il 9 novembre 2014. Resta da vedere se si terrà, e con quale esito. Da un lato, la Costituzione vieta ai governi regionali di indire referendum, compito che spetta al premier previa autorizzazione del congresso dei deputati. Dall’altro, invece, benché i catalani che sostengono l’indipendenza siano in crescita – dal 25% dell’ottobre 2010 al 48,5% del novembre 2013, secondo i sondaggi della Generalitat –, esiste una ampia maggioranza che, pur insofferente ai limiti imposti da Madrid, ritiene la secessione una scelta troppo rischiosa.