Soggettiva
Per soggettiva si intende un'inquadratura o un insieme di inquadrature che rappresentano sullo schermo ciò che vede un personaggio, come è supposto vederlo quel personaggio, cioè dal suo esatto punto di vista, rispettando distanza e direzione che lo separano da ciò che guarda. Solitamente introdotta da un primo piano del personaggio intento a guardare, conclusa a volte con il ritorno al primo piano di chi guarda, la s. può in realtà articolarsi in varie forme e negli anni ha raggiunto un tale grado di sofisticazione da rappresentare forse la figura più convenzionale, codificata e al tempo stesso essenziale del linguaggio cinematografico. È sufficiente un movimento in avanti di macchina a mano, accompagnato dal rumore fuori campo di passi affrettati, di un respiro affannoso o di un battito cardiaco, perché un'inquadratura qualunque venga interpretata dallo spettatore 'come vista da' un personaggio in fuga; anche se non sa chi sia, se non ha mai veduto il suo volto. Accade spesso, per es., nei film di Brian De Palma, o di Dario Argento, dove basta un movimento brusco, accompagnato dall'amplificazione sonora del respiro, per significare la presenza di qualcuno che guarda al di qua dell'obiettivo: di regola l'assassino, ancora ignoto allo spettatore. Ma basta anche solo un mascherino circolare ‒ o binoculare, a forma di occhiali o di serratura, o una semplice ciocca di capelli mossa dal vento ‒ perché ciò che appare sullo schermo sembri 'visto da' qualcuno attraverso un visore ottico, un binocolo, un paio di occhiali, o ancora il parabrezza di un'automobile in corsa: accade in Notorious (1946; Notorius ‒ L'amante perduta) di Alfred Hitchcock, dove i capelli al vento della protagonista, al volante di un'auto in corsa, ne ostruiscono la visuale.
Ognuno di questi elementi fa ormai parte di un ricco insieme di indizi che lo spettatore riconosce a colpo sicuro come altrettanti segni che simulano la presenza di un personaggio che guarda 'al di qua' della macchina da presa. Come segni della presenza di uno sguardo diegetico ‒ appartenente cioè alla finzione ‒ che condiziona inevitabilmente la sua visione di quel segmento di film. Perché durante una s. lo spettatore si trova appunto a sovrapporre il proprio sguardo a quello di qualcun altro, che vive la scena rappresentata; talvolta ‒ benché non sempre ‒ è chiamato a condividerne la soggettività, comunque a esperirne i limiti e i condizionamenti, le tensioni del momento, le idiosincrasie. È questo che fa della s. una figura così affascinante, che ha spinto registi di ogni tempo e luogo a esplorarne le potenzialità come espediente narrativo, strumento di identificazione, veicolo di partecipazione emotiva, o di fascinazione visiva.
Agli albori del cinema, tuttavia, le prime forme di rappresentazione dello sguardo, apparse intorno al 1900, non assunsero subito l'aspetto e le funzioni che ha oggi la s.: non servivano al racconto, non comportavano implicazioni stilistiche e nulla avevano a che spartire con la soggettività dei personaggi (che all'epoca si esprimeva tramite immagini oniriche o mentali). Non rappresentavano neppure l'esatto punto di vista di chi guarda, poiché non rimandavano allo sguardo di personaggi collocati in uno spazio diegetico strutturato. Anziché lo sguardo dei personaggi, all'inizio della sua storia la s. rappresentava piuttosto lo sguardo dello spettatore, del quale i personaggi sono i vicari sullo schermo.
Il primo caso di s. a tutt'oggi noto compare in Grandma's reading glass, realizzato in Gran Bretagna da George Albert Smith nel settembre del 1900. Vi si alternano inquadrature di un ragazzino intento ad osservare alcuni oggetti attraverso una lente d'ingrandimento (la pagina di un giornale, un canarino in gabbia, il muso di un gattino, il meccanismo di un orologio, l'occhio della nonna) ed altrettante inquadrature dove quegli oggetti compaiono ingranditi e circondati da un mascherino circolare, 'come visti' attraverso la lente. Secondo il costume del tempo il film venne presto imitato; nel 1901 uscì in Francia La loupe de grand-maman di Ferdinand Zecca, mentre l'anno successivo negli Stati Uniti Grandpa's reading glass, dove è di scena un nonno e l'immancabile lente d'ingrandimento, che ritorna in forma di telescopio, binocolo o microscopio in film dove astronomi, scienziati, avventurieri o semplici curiosi ricorrono all'uso di uno strumento ottico per osservare ingrandimenti, panorami, vedute erotiche, corpi celesti inaccessibili a occhio nudo.
Tra il 1900 e il 1906, i film incentrati su un personaggio che guarda 'attraverso qualcosa' divennero così numerosi da costituire una sorta di genere, recentemente etichettato Keyhole films (film a buco di serratura), dalla forma a serratura del mascherino più diffuso, in alternativa a quello circolare o binoculare, attraverso cui guardano curiosi voyeurs (per es. in Ce que l'on voit de mon sixième, 1901; Par le trou de la serrure, 1901 e 1905; Un coup d'œil par étage, 1904; A search for evidence, 1903; The inquisitive boots, 1905).
Se tuttavia si confrontano questi film con una s. odierna, emergono alcune differenze significative. Anzitutto, una s. rappresenta ciò che vede un personaggio dal suo esatto punto di vista, mentre in Grandma's reading glass, per es., gli oggetti osservati oltre la lente occupano una posizione inconciliabile con il punto da cui il ragazzino li osserva e non c'è proporzione tra l'ingrandimento dell'occhio della nonna ingigantito a tutto schermo e il canarino inquadrato insieme con la sua stessa gabbia (eppure il ragazzino impugna la stessa lente, dalla stessa distanza, per osservare sia l'occhio sia il canarino in gabbia). Sul piano narrativo manca qualunque abbozzo di racconto, mentre regna sovrana l'autonomia delle vedute, tutte esibite come un'attrazione spettacolare. Dominano frontalità ed esaustività, due caratteristiche che contravvengono alla regola della distanza e della direzione e che però rispettano un'altra regola, propria del cinema di quel tempo, quella di privilegiare sempre la visuale migliore per lo spettatore. Dominano l'esibizione ostentata del movimento e l'insistenza con cui il ragazzino mostra di servirsi di una protesi ottica: la lente della nonna che dà il titolo al film.
La s., insomma, nasce per celebrare l'avvento di un nuovo spettatore, a ragione definito 'viaggiatore immobile', che vede proiettate le potenzialità del proprio occhio oltre i limiti imposti dalla visione naturale grazie alla mediazione di una protesi. Solo dopo aver esaurito questa carica, parallelamente, non a caso, al passaggio dal cinema delle origini a quello istituzionale, avvenne il passaggio dalla s. che non conosce distanze (perché le ha annullate grazie alla mediazione di una macchina) alla figura dello sguardo che il cinema narrativo vota al servizio del racconto. Nel passaggio dalla spettacolarità alla narrazione si consumò anche quello dalla visione totale alla visione parziale, dal superamento dei limiti dell'occhio al restringimento del campo visivo ai limiti di un personaggio calato nella finzione.
Tra il 1905 e il 1915 sono numerosi i film che testimoniano questo passaggio. Il più rilevante è forse Don Juan heiratet (1909), che racconta le sventure di un Casanova pentito, sequestrato da tre donne intenzionate a impedirgli di sposarsi. Dopo averlo rapito, le tre donne lo chiudono a chiave in una stanza e si chinano a guardare attraverso la serratura. Oltre un mascherino a serratura vedono l'uomo impiccato al lampadario, allarmate si precipitano nella stanza e l'uomo (che fingeva) ne approfitta per fuggire. Qui l'inquadratura dell'impiccato oltre il mascherino non è la miglior visuale possibile per consentire allo spettatore di osservare la scena ‒ che ha già veduto meglio, in campo totale, un paio di inquadrature prima, e sa essere falsa poiché ha veduto anche l'uomo inscenare il suicidio per ingannare le sue carceriere. È invece il miglior 'punto di vista' per il racconto: quello parziale ‒ e parzialmente occultato dal mascherino ‒ delle tre donne che cadono così nel tranello teso loro dal seduttore. L'immagine 'come vista' dalle tre donne, infatti, instaura una relazione di causa-effetto con la successiva, e genera uno scarto importante nella distribuzione del sapere poiché lo spettatore sa ciò che le tre donne non sanno, e sa che non sanno grazie a questa soggettiva.
È in questa direzione che il cinema narrativo istituzionale usa la s., dalla fine del primo decennio del Novecento fino a oggi. Si può dire che la storia della s. segue due percorsi: uno principalmente narrativo, il cui laboratorio più fecondo è stato Hollywood; uno più visionario, il cui fulcro è stato l'Europa, ma non solo.Il primo vede nella s. una forma di raccordo sullo sguardo, quindi una figura di montaggio lineare e narrativa per eccellenza, importantissima nel cinema classico, di cui codifica la variante semisoggettiva, ossia quando il personaggio che guarda è parzialmente in campo, solitamente di schiena, nell'immagine che mostra ciò che vede; o quando la direzione del suo sguardo è lievemente alterata per evitare lo sguardo in macchina, nel caso stia guardando un altro personaggio. Ha un maestro indiscusso in Alfred Hitchcock, la cui filmografia basterebbe a sintetizzarne il percorso dal cuore del muto, in Gran Bretagna ‒ soprattutto in The lodger, noto anche come The lodger ‒ A story of the London fog (1926; Il pensionante), Downhill (1927), Easy virtue (1927), The ring (1927; Vinci per me!), Champagne (1928; Tabarin di lusso) ‒ fino alle soglie degli anni Ottanta, passando per l'avvento del sonoro e l'approdo a Hollywood. Come non ricordare l'apertura delle porte viste in s. dalla protagonista in Spellbound (1945; Io ti salverò), il voyeurismo di Jeff Jefferies (James Stewart) in Rear window (1954; La finestra sul cortile) e di Norman Bates (Anthony Perkins) in Psycho (1960; Psyco), o le aggressioni degli uccelli in The birds (1963; Gli uccelli). Ma tutto il cinema di Hitchcock è costellato di s. ed egli ne sperimenta le potenzialità, sul piano narrativo come formale. Codifica l'alternanza reiterata tra soggetto e oggetto per alimentare suspense e identificazione; e però ribalta lo stereotipo dell'identificazione psicologica con il personaggio che guarda ‒ e con il suo sapere ‒ in s. che trasmettono psicologia e sapere dei personaggi visti; osa l'audacia dello sguardo in macchina quando il conflitto tra due personaggi vede nel diritto allo sguardo (alla s.) di uno solo la gerarchia enunciazionale più efficace; o ancora si cimenta con il suono sin dal suo primo film parlato, Blackmail (1929), dove la protagonista sente ripetere la parola 'knife' e in una sorta di s. sonora la interiorizza, ricordando il coltello con cui ha appena ucciso un uomo.Il secondo percorso vede nella s. anzitutto la fascinazione dello sguardo e la sua bellezza. Per tutti gli anni Venti la sperimentazione delle avanguardie (v. avanguardia cinematografica), in particolare quella francese (v. impressionismo), esplorò il terreno della visione con s. fatte di sfocature, distorsioni prospettiche, giravolte o movimenti oscillanti, supposte rappresentare lo sguardo di personaggi ubriachi, miopi, sconvolti o addirittura folli. S. legate solo in parte al racconto e votate alla suggestione, nonché compromesse con la teorizzazione e la pratica della soggettività d'autore. Esemplare in questo senso L'inhumaine (1924; Futurismo) di Marcel L'Herbier, che contiene sia vere s., sia momenti segnati da marche stilistiche fortemente soggettivizzanti, che rimandano alla visione del mondo del regista.
Se il muto favorì quest'uso estremo dello sguardo, l'avvento del sonoro non ne segnò la fine e anzi nel 1931 Carl Th. Dreyer realizzò in Vampyr la celebre s. di un morto che vede il mondo attraverso un'apertura nella bara: dal basso e in movimento. E se il confine tra i due percorsi non è netto, molte sono le s. che sposano audacia visionaria e vocazione narrativa; si pensi ancora a Hitchcock e al fascino delle s. necrofile di Scottie Ferguson (James Stewart) in Vertigo (1958; La donna che visse due volte); alla riflessione filosofica contenuta in Film (1964) di Samuel Beckett e Alan Schneider; o a The fly (1958; L'esperimento del dottor K) di Kurt Neumann, dove la celebre s. prismatica dell'uomo mosca ‒ visione zoomorfa fra le più suggestive mai realizzate ‒ unisce l'impatto spettacolare dell'immagine 'come vista da' un insetto all'angoscia che coglie lo spettatore nel vedere, con il personaggio, fino a che punto costui si è trasformato in una mosca. O ancora a quel topos incarnato dalle s. poste all'inizio di un film per occultare il volto o l'identità del personaggio, tenuto fuori campo con effetti visivi seducenti per affascinare, affabulare e insieme alimentare l'attesa dello spettatore speculando su un vuoto, un'assenza, uno scambio d'identità, un potenziale doppio: come in Dr Jekyll and Mr Hyde (1932; Il Dr Jekyll ) di Rouben Mamoulian, Mildred Pierce (1945; Il romanzo di Mildred) di Michael Curtiz, Dark passage (1947; La fuga) di Delmer Daves, Executive suite (1954; La sete del potere) di Robert Wise, Halloween (1978; Halloween ‒ La notte delle streghe) di John Carpenter, Strange days (1995) di Kathryn Bigelow. Ma indubbiamente ciò che meglio incarna l'utopia dello sguardo totale è l'idea di un film interamente in soggettiva. Pierre Porte nel 1924 immaginò per primo un film in s., seguito fra gli altri da Orson Welles, che nel 1939 progettò di ridurre per lo schermo Heart of darkness di J. Conrad interamente dal punto di vista del protagonista, di cui si sarebbe vista solo l'ombra a tratti proiettata nell'immagine. Welles aveva previsto anche un prologo teso a smascherare funzionamento ed effetti della s. sul pubblico, così eversivo da bloccare, secondo alcuni, la produzione del film. Certo è che in Lady in the lake (1946; Una donna nel lago) realizzato da Robert Montgomery, l'idea wellesiana che lo ispira appare ridotta a esperimento di cinema alla prima persona romanzesca, per fedeltà al libro di R. Chandler da cui è tratto. Noto a torto come interamente in s., Lady in the lake è in realtà introdotto, concluso e per due volte inframmezzato da lunghe e didascaliche apparizioni 'oggettive' del protagonista, inquadrato frontalmente mentre dialoga con il pubblico; il film possiede comunque un fascino che affiora a tratti e certo ha incoraggiato chi in seguito si è misurato più felicemente con progetti analoghi, come C'est arrivé près de chez vous (1992) di Rémy Belvaux e André Bonzel, o The Blair witch project (1999; The Blair witch project ‒ Il mistero della strega di Blair) di Daniel Myrick ed Eduardo Sanchez, dove più personaggi armati di cinepresa o telecamere si alternano nel ruolo di soggetto dello sguardo, inquadrandosi a turno per mostrarsi sullo schermo; o La femme défendue (1997) di Philippe Harel, dove l'invisibilità del protagonista esalta la sua ossessione per una donna, vista in s. per tutto il film; o ancora Russkij kovčeg (2002; Arca russa) di Aleksandr N. Sokurov.
C'est arrivé près de chez vous, The Blair witch project, Strange days, ma anche La mort en direct (1980; La morte in diretta) di Bertrand Tavernier, o ancor prima Peeping Tom (1960) di Michael Powell, hanno di nuovo in comune il ricorso alla mediazione di una protesi ottica, più o meno sofisticata, per superare l'ultima invisibile frontiera che separa la vita dalla morte. Senza però la cieca fiducia positivista che animava le s. delle origini, mancano l'obiettivo. Nessuna macchina accederà più alla visione totale. E quella parziale, divenuta artificiosa e frustrante, perde la nettezza dei propri confini.
La teoria del cinema ha sempre dedicato grande interesse alla s., in virtù delle sue molteplici implicazioni stilistiche, narratologiche ed enunciazionali, che investono la sfera del linguaggio, della soggettività, della prospettiva narrativa e della distribuzione del sapere. Non sempre però ha saputo coglierne complessità e sfaccettature, a causa dell'eredità di un lontano dibattito da cui deriva lo stesso nome della figura.
È probabilmente Jean Epstein a utilizzare per primo la parola soggettiva, in uno scritto del 1921 dove immagina una scena di danza ripresa "come la vede la coppia dei ballerini", grazie a un montaggio alternato che restituisce la danza "secondo lo spettatore e il ballerino, oggettiva e soggettiva" (trad. it. 1989, pp. 176-77); quindi continua immaginando una scena in cui un personaggio va incontro a un altro e il suo io (di Epstein) ci va con lui, non dietro o di fianco, ma in lui, guardando attraverso i suoi occhi, fino a presagire "degli stacchi in nero che imitano finanche il battito delle palpebre" (p. 177). L'entusiasmo di Epstein deriva dalla convinzione che la rappresentazione dello sguardo di un personaggio comporti necessariamente la soggettivazione dell'immagine (in opposizione alla presunta oggettività di un'immagine che mostri lo stesso personaggio 'dall'esterno') e che tale soggettivazione possa egualmente appartenere all'autore del film. Da qui alla convinzione che la s. equivalga al pronome personale 'io', che debba esprimere soggettività e che possa estendersi alla visione dell'autore il passo è breve. Si trova negli scritti di Pierre Porte e in quelli di Jean Mitry, che riferisce il dibattito occorso nell'ambito delle prime avanguardie, dove si sperimentò la possibilità di connotare soggettivamente l'immagine stravolgendo il dato oggettivo attraverso trucchi ottici e angolazioni insolite. Sopravvisse per tutti gli anni Venti e Trenta, quando il termine soggettiva finì per designare sia inquadrature attribuibili a un personaggio, sia immagini distorte che rimandano alla Weltanschauung dell'autore, al suo 'sguardo sul mondo'. E nel corso degli anni Quaranta e Cinquanta ritornò in coloro che parteciparono, anche indirettamente, al dibattito su Lady in the lake. Considerato un fallimento per aver mancato l'identificazione psicologica con il protagonista, Lady in the lake sembra dimostrare la tesi sostenuta proprio allora dal filosofo M. Merleau-Ponty, secondo cui anche al cinema i sentimenti sono comportamenti e per identificarsi con un personaggio occorre vederne le emozioni dipinte sul volto; quindi occorre vedere il personaggio, non ciò che vede il personaggio. Lady in the lake mostra il volto del protagonista solo saltuariamente ‒ quando si specchia o quando dialoga con il pubblico ‒ perciò, secondo molti, segna il limite ontologico di ogni s. che non sia realizzata 'a piccole dosi', ossia alternando sempre soggetto e oggetto dello sguardo.Ancora per tutti gli anni Sessanta e Settanta l'equazione tra s. e prima persona singolare, associata all'identificazione e alla soggettività del personaggio (nonché alla necessità delle 'piccole dosi') riaffiorò un po' ovunque; anche in Pier Paolo Pasolini, che in un bel saggio sul cinema di poesia assimila la s. al discorso diretto in cui l'autore cede la parola al personaggio "mettendola tra virgolette". Mentre negli anni Ottanta una concezione analoga è riaffiorata negli studi narratologici sulla s. come modalità di focalizzazione del racconto cinematografico, e in quelli sull'enunciazione filmica di impostazione pronominalista che ha dominato il dibattito svoltosi in Italia e in Francia tra Christian Metz e Francesco Casetti (sulle cui posizioni v. linguaggio del cinema e sguardo).
Anche in seguito a questo dibattito, preceduto da studi e verifiche puntuali, è divenuta sempre più ampia e concorde la convinzione che la s. debba considerarsi una figura di linguaggio capace di assumere varie forme e di operare secondo modalità differenti, a prescindere dalla soggettività e dal sapere del personaggio, separandone così lo studio da quello delle marche stilistiche atte a esprimere soggettività.
J. Epstein, Grossissement, in "Promemoir", 1921, 1-2 (trad. it. in G. Grignaffini, Sapere e teorie del cinema, Bologna 1989, pp. 175-80).
P. Porte, Une loi du cinéma, in Cinéa-ciné, 1924, 8.
M. Merleau-Ponty, Le cinéma et la nouvelle psychologie (1945), in Sens et non-sens, Paris 1948, pp. 85-106 (trad. it. Milano 1962).
J. Mitry, Esthétique et psychologie du cinéma, 2° vol., Les formes, Paris 1965.
P.P. Pasolini, Il cinema di poesia (1965) e Osservazioni sul piano-sequenza (1967), in Empirismo eretico, Milano 1972, pp. 171-91 e 241-45.
Ch. Metz, Essai sur la signification au cinéma, Paris 1968 (trad. it. Milano 1975).
E. Branigan, Point of view in the cinema, New York 1984.
F. Casetti, Dentro lo sguardo, Milano 1986.
E. Dagrada, The diegetic look, in "Iris", 1986, 7, pp. 111-24.
F. Jost, L'œil-caméra, Lyon 1987.
Ce que je vois de mon ciné, éd. A. Gaudreault, Paris 1988.
Ch. Metz, L'énonciation impersonnelle ou le site du film, Paris 1991 (trad. it. Napoli 1995).
E. Dagrada, La rappresentazione dello sguardo nel cinema delle origini in Europa. Nascita della soggettiva, Bologna 1998.