Società industriale
Il concetto di società industriale è relativamente recente. Esso ha assunto forma e contenuti soprattutto durante gli anni sessanta, quando da più parti venne avanzata la teoria, detta della convergenza, che postulava un'omogeneità di fondo fra le linee evolutive di tutte le società in cui il processo di industrializzazione aveva raggiunto un grado elevato di sviluppo. A prescindere dall'assetto che caratterizzava i rapporti di proprietà, fossero essi di natura privata, e dunque capitalistica, o di natura statale e collettivista, e quindi di tipo socialista, la crescita industriale e tecnologica avrebbe finito col disporre quelle società lungo un medesimo asse di evoluzione, accentuando i loro tratti di analogia e di similarità. Il termine di paragone usato per distinguere i vari modelli di società veniva coerentemente identificato con la diffusione e l'insediamento della produzione industriale nel sistema sociale. Questo finiva perciò con il costituire il vero discrimine utile alla classificazione delle tipologie di sviluppo dell'organizzazione sociale. Così, Raymond Aron (v., 1962) ha enfatizzato il ruolo del principio della divisione del lavoro come elemento individuante della società industriale. La tendenza alla crescita dimensionale delle imprese manifatturiere e al distacco dai gruppi familiari che ne erano stati all'origine, la concentrazione spaziale dei lavoratori, il criterio del calcolo economico razionale eretto a strumento direttivo per l'accumulazione del capitale, costituirebbero altrettante espressioni della dinamica di un processo di industrializzazione capace di imprimere la sua impronta sull'insieme della società. Ma già in precedenza altri autori (v. Kerr e altri, 1960) avevano creduto di ravvisare una 'logica dell'industrialismo' di valenza universale, centrata in particolare sulla funzione delle élites alla guida del processo di industrializzazione. Essi sostenevano altresì la necessità di sostituire l'uso del termine 'capitalismo' con quello di 'industrializzazione', considerata come il fenomeno più vasto e pervasivo della contemporaneità. Tali autori si dicevano infatti convinti che il mutamento tecnologico procedesse verso l'eliminazione dei lavori ripetitivi e a basso contenuto professionale, sostituiti da occupazioni più qualificate, mentre si ampliava ovunque la fascia del personale tecnico e manageriale. Tali mutamenti si coniugavano con la dilatazione del tempo libero, il declino della protesta operaia e della mobilitazione di classe, la valorizzazione del ruolo dei dirigenti d'impresa, un interventismo sempre più esteso da parte dello Stato. In questa visione l'industrialismo finiva per divenire il comune orizzonte di riferimento per gli amministratori dei paesi sviluppati come per quelli dei paesi in via di sviluppo, per quelli delle nazioni a prevalente economia di mercato come per quelli delle aree a economia pianificata. Del resto, la teoria della convergenza raccoglieva consensi anche fra gli studiosi dell'Est europeo, come il cecoslovacco Rodovan Richta (v., 1968) che da essa traeva lo spunto per ipotizzare una transizione graduale e indolore da modelli socialisti di impianto sovietico a forme di socialismo democratico.
Con la fine degli anni sessanta, periodo che riportava al centro delle società occidentali le forme della protesta collettiva e riaffermava in quelle orientali il dominio di un dispotismo centralistico, la teoria della convergenza decadde rapidamente. Gli elementi di eterogeneità e di differenziazione tornarono a prendere il sopravvento su quelli di omogeneità nella valutazione e nella classificazione delle tipologie sociali, anche in riferimento ai modelli di sviluppo dell'economia, sempre più distinti in base agli assetti organizzativi, gestionali e culturali propri delle varie esperienze. Non di meno, la nozione di società industriale non è caduta in disuso, sebbene sia stata progressivamente impiegata in senso descrittivo, spesso per indicare i paesi a maggior tasso di sviluppo.
Con l'espressione 'società industriale' si indica comunemente un modello di società in cui il processo di produzione della ricchezza risulta attivato e gestito in misura fondamentale dalle imprese industriali, le quali attraggono a sé gran parte delle forze di lavoro. Tuttavia l'immagine di società industriale che si è imposta richiama un assetto più forte e strutturato di quello evocato da indicatori quantitativi che, peraltro, non si sono mai configurati in maniera così netta come un simile modello richiederebbe. Nella rappresentazione della società industriale che si è andata affermando dal XIX secolo in avanti è evidente il riferimento a una forma di organizzazione della società la cui regola interna appare scandita sui tempi e sulle necessità della produzione di fabbrica, e che si plasma a partire dalle identità lavorative da essa forgiate. Non a caso il principale carattere che connota la nozione di società industriale è l'omogeneità della sua struttura sociale, nella quale la massa dei lavoratori salariati adibiti al ciclo produttivo manifatturiero e alle sue funzioni complementari occupa una posizione centrale, essenziale per la determinazione delle identità e delle relazioni di classe. La stessa idea di una divisione della società in classi, pur precedente all'industrializzazione europea, esce grandemente rafforzata e quasi legittimata dalla diffusione del sistema di fabbrica, che sancisce definitivamente l'esistenza di una massa sociale identificata dalla propria omogenea condizione lavorativa. All'origine delle concezioni della società industriale che presero gradualmente forma nel corso dell'Ottocento vi era certamente la convinzione che i progressi del sistema industriale dovessero sfociare in un nuovo ordinamento della società, destinato ad assorbire i criteri di funzionamento e l'etica sociale dell'industrialismo. In fondo, l'ipotesi che la struttura sociale dovesse tendere sempre più a conformarsi allo sviluppo della produzione, man mano che quest'ultima si espandeva, possedeva una forte impronta razionalistica, postulando una drastica semplificazione della stratificazione della società attorno alle sue funzioni economiche più importanti. Era questa l'ispirazione della 'costituzione industriale' mediante cui Saint-Simon avrebbe voluto riformare l'ordinamento sociale, ed essa si rivela in modo ancor più trasparente nella comunità di New Lanark creata in Scozia da Robert Owen, nella quale l'assetto socialista veniva fondato sull'estrapolazione e la generalizzazione di un corpus di regole ricavate dal funzionamento dell'organismo industriale.
È però con Marx che l'immagine di una società animata nel suo nucleo dal processo di produzione industriale raggiunge la sua configurazione completa. L'esilio di Marx nel Regno Unito e, in seguito, l'elaborazione e la pubblicazione del Capitale coincidono temporalmente, d'altro canto, con quella stagione mid-Victorian (1851-1867) in cui la società britannica celebrava per la prima volta, con la grande mostra universale di Crystal Palace, a Londra, le acquisizioni e i fasti dell'industrialismo (v. Briggs, 1959), prendendo atto che il baricentro dell'occupazione veniva a spostarsi verso il settore manifatturiero.
Nella rappresentazione di Marx la dinamica dello sviluppo capitalistico mette inevitabilmente capo a un'organizzazione della società che riflette l'assetto delle strutture della produzione. Ciò che egli descrive come una tendenza verso la "concentrazione del capitale e il dominio esclusivo del sistema di fabbrica" - e cioè "la trasformazione di processi lavorativi dispersi, compiuti su scala minima, in processi lavorativi combinati su scala larga, sociale" - presuppone un generale processo di livellamento alla base della piramide sociale. L'estensione del sistema di fabbrica produce uniformità, regolarità, ordine, oltre all'imposizione di un criterio universale di economicità.
Queste espressioni sono contenute nella quarta sezione del primo libro del Capitale, nel capitolo dedicato a "macchine e grande industria". È qui che Marx attribuisce alle forze della tecnologia e dell'organizzazione un ruolo decisivo nell'indirizzare sia lo sviluppo capitalistico che una trasformazione sociale costretta a ricalcare le linee dell'espansione industriale. Una società dominata dall'industria appare quindi come il prodotto delle spinte convergenti che promanano dal cambiamento tecnologico e dalla regolazione organizzativa richiesta dalla dilatazione incessante dei cicli di lavorazione. Mentre la tecnologia induce, infatti, un rivoluzionamento continuo nelle forze di produzione, che attrae alle fabbriche una parte crescente della popolazione, l'ampiezza del processo di sviluppo della produttività porta a un grado via via maggiore di regolazione del sistema industriale, per garantirgli l'omogeneità di condizioni necessaria alla sopravvivenza del mercato concorrenziale. La fissazione per legge di una giornata lavorativa di uguale durata all'interno dei vari settori della produzione sembra a Marx la manifestazione più visibile della deriva verso l'organizzazione: essa incorpora quella misura di disciplina connaturale alla concentrazione capitalistica.
Tecnologia e organizzazione convergono dunque per rendere sempre più omogenea la struttura sociale, costretta a modellarsi sulla conformazione del sistema produttivo. La radicale semplificazione spesso imputata alla teoria delle classi di Marx ha la sua ragion d'essere nell'ipotesi di una corrispondenza integrale fra industria e società. Il percorso dello sviluppo preconizzato nel Capitale sbocca in una perfetta coincidenza fra l'assetto della produzione manifatturiera e il sistema sociale. A un processo di concentrazione industriale inarrestabile deve così far riscontro la crescita di una popolazione di fabbrica in cui si perdono pressoché completamente i caratteri della qualificazione professionale. L'evoluzione tecnologica sollecita la formazione di una massiccia offerta di lavoro di tipo generico, da adibire all'alimentazione e al controllo delle macchine, mentre restringe le proporzioni delle componenti più tecniche e qualificate della manodopera, cui competono mansioni di supervisione e di sorveglianza.
Non c'è dubbio che la società delineata da Marx, ormai in fase di totale assoggettamento al passo e ai principî della produzione industriale, sia ben lontana dalla commercial society dell'economia politica classica. In essa la dimensione governata dalle transazioni di mercato è certamente limitata rispetto a quella sottoposta all'efficacia organizzativa dei processi di concentrazione. Soprattutto, in quest'immagine della società industriale, prevale un impulso onnipervasivo all'omogeneità, che cancella le articolazioni economiche, sociali e professionali precedenti e assolutizza invece il dominio delle macrorganizzazioni e dei grandi aggregati di classe.
Ciò che rende legittimo far risalire a Marx la prima visione coerente della società industriale, pur se il termine resta inequivocabilmente estraneo al suo lessico, non è quindi il fatto di aver scelto come campo d'osservazione la società inglese al compimento della rivoluzione industriale, e pertanto nel momento in cui l'industrialismo incominciava a essere percepito ovunque come un tratto essenziale della sua identità moderna. È piuttosto l'intento di rintracciare una logica interna all'industrialismo che lo spingerebbe, da un lato, a espandere incessantemente i suoi confini e, dall'altro, a informare di sé l'intero sistema sociale, con la conseguenza di oscurare, fino ad annullarli, i caratteri antecedenti e le preesistenze. Da questo punto di vista, la società industriale non poteva non essere intesa, sin dalle origini, come una realtà universale, tale da suscitare effetti di assimilazione e di omogeneizzazione in tutti i contesti in cui l'industrialismo riuscisse ad acquistare consistenza. Dopo Marx, tutti coloro che hanno sostenuto essere in atto presso le società contemporanee la tendenza a convertirsi in industriali, sovente facendo combaciare l'industrializzazione con la modernizzazione, hanno enfatizzato la dinamica tecnologica e la generalizzazione delle procedure organizzative come fattori destinati ad accentuare il grado di omogeneità e anche la convergenza fra differenti esperienze nazionali e sistemi sociali. Il tentativo più degno di nota in questa direzione resta l'opera di Kerr, Dunlop, Harbison e Myers, Industrialism and industrial man, che nel 1960 si apriva con l'asserzione: "Il mondo sta iniziando una nuova era: l'era dell'industrializzazione totale", e indicava l'elemento comune alla civiltà del momento nel fatto che "i popoli del mondo [erano] dovunque in marcia verso l'industrialismo". Alla fine del Novecento è radicata invece la convinzione che, se la mappa della trasformazione industriale si è allargata sino a comprendere aree e territori molto più vasti rispetto alla base originaria dell'industrializzazione, si è tuttavia alterata in profondità la logica dello sviluppo e soprattutto la dilatazione dello spazio dell'industrialismo non ha affatto universalizzato il modello classico di società industriale.
Tra la fine del XIX secolo e l'inizio del XX la teoria sociale di matrice anglosassone scoprì gradualmente come la diffusione dell'industrialismo stesse modificando il modo di operare di alcune istituzioni essenziali della vita collettiva. Appartengono a questo periodo espressioni che avrebbero avuto in seguito una larga fortuna e una vasta applicazione, come 'democrazia industriale' e 'governo industriale'. La stessa denominazione 'relazioni industriali', usata da principio per designare le relazioni contrattuali fra lavoro e capitale, regolate attraverso la mediazione attiva delle rappresentanze sindacali, va ricondotta a quest'epoca e a quest'orientamento delle scienze sociali. Si esprimeva così la consapevolezza che il processo di industrializzazione stava permeando la società, con la conseguenza di ampliare l'area delle relazioni economiche. Ne derivava che l'equilibrio sociale non poteva essere mantenuto senza che si individuassero procedure atte al governo di tali relazioni, nel rispetto della loro specificità e funzionalità. Di qui il ricorso frequente all'aggettivo 'industriale', esteso anche a istituti come la democrazia, allo scopo di porre in risalto la crescente incidenza dell'attività economica sul sistema sociale.
Industrial democracy era il titolo che Beatrice e Sidney Webb scelsero nel 1897 per il libro in cui presentavano le loro ricerche sul metodo rappresentativo e sulle politiche contrattuali delle Trade Unions inglesi. Secondo i Webb, era possibile ricavare dall'esperienza sindacale indicazioni e linee di prospettiva per il futuro delle istituzioni democratiche, fino al punto di poter prevedere che la democrazia politica avrebbe finito col risolversi in democrazia industriale, cioè economica. La prassi sindacale del negoziato collettivo era già in sé un contrappeso democratico che, bilanciando l'autorità imprenditoriale, ristabiliva una condizione di equilibrio altrimenti pregiudicata dalle asimmetrie del mercato del lavoro. Lungi dal minare l'efficienza dell'impresa, la contrattazione collettiva si rivelava come uno strumento virtualmente capace di innalzare la qualità del lavoro e della produzione. In una certa misura la tutela sindacale poteva essere giudicata come un allargamento dei diritti di cittadinanza anche all'arena economica e ciò giustificava il ricorso al termine 'democrazia'. Ma nell'accezione webbiana altri, più importanti motivi autorizzavano quest'uso: attraverso la selezione di una burocrazia sindacale, cui affidavano la gestione dei loro interessi e il negoziato con gli imprenditori, i lavoratori davano vita a un ceto di rappresentanti permanenti, un'élite paragonabile, per i criteri elettivi con i quali veniva formata e per la funzione cui assolveva, a quella insediata nelle istituzioni politiche.
L'ascesa dell'industrialismo, se non soppiantava, nella visione tipica del gradualismo fabiano dei Webb, l'ordinamento preesistente della società, tuttavia lo integrava e arricchiva sostanzialmente. Laddove nella radicalità della prospettiva marxiana si attuava una vera e propria 'sussunzione' della società al sistema di fabbrica, qui si presentava l'avvento della società industriale nelle forme di una progressiva traslazione della procedura del negoziato dallo spazio specifico delle transazioni di mercato al cuore del sistema di regole che governavano la società. Parallelamente veniva valorizzato il ruolo dei mediatori professionali, in questo caso l'élite dei funzionari sindacali, che assommavano nelle loro mani il potere e le risorse negoziali e agivano come plenipotenziari nelle trattative con gli imprenditori.
In quest'analisi, quindi, la società industriale si differenzia dal passato perché richiede, per il proprio equilibrio interno, l'intervento di istituzioni peculiari sviluppatesi dal suo stesso grembo. Esaminata da questa angolatura, la contrattazione collettiva appare come un'autentica arena istituzionale, nel significato che dà oggi all'espressione un autore neoistituzionalista come Douglass C. North (v., 1990): un sistema di regole e procedure entro il quale inscrivere l'interazione di attori economico-sociali (qui il lavoro e il capitale). L'architettura delle relazioni generate dall'industrialismo esige un autonomo sistema di regolazione, con una rappresentanza distinta, particolare; a essa va demandata l'opera di assicurare la corretta performance (una parola chiave in un linguaggio come quello webbiano, centrato sull'esaltazione dei nodi di efficienza) delle funzioni economico-sociali proprie dell'organismo industriale. Quest'ultimo viene perciò ridotto, nella sua struttura basilare, al gioco interattivo di una serie di funzioni, la cui rete di connessioni va costantemente tenuta aperta attraverso l'efficacia degli scambi contrattuali.In Industrial democracy è già presente l'ipotesi, più volte ripresa dagli schemi corporatisti in voga nel corso del Novecento, che il sistema sociale possa essere riportato a un'essenziale nervatura funzionale e che il modo migliore per garantirne il governo consista nel farvi corrispondere una rappresentanza ad hoc. Poiché in sé medesime le funzioni economico-sociali corrispondenti alle grandi classi sociali sono forze possenti ma cieche, ecco allora che il problema di fondo diviene quello di conferire loro una rappresentanza adeguata attraverso la scelta di un personale di alta specializzazione tecnica. L'élite sindacale raffigurata dai Webb alla testa delle Trade Unions è di fatto un nucleo tecnocratico, che gode di una delega assai ampia per negoziare al meglio in favore dei rappresentati e che fa della propria abilità contrattuale e della conoscenza delle questioni industriali lo strumento di legittimazione per discutere con l'altra élite, quella imprenditoriale, circa gli assetti più idonei di inquadramento del lavoro. Per un paradosso soltanto apparente, il modello democratico che emerge dalle strutture dell'industrialismo è caratterizzato in senso elitario, sebbene si proponga di guadagnare la condizione di cittadinanza per il mondo del lavoro in quanto tale. Quanto alla profezia, posta in chiusura dell'indagine webbiana, sul destino della democrazia spontaneamente indotta a evolversi in democrazia industriale, essa non lascia dubbi sul fatto che, di pari passo con il consolidarsi del fondamento economico-produttivo della società, l'interazione delle forze sprigionate dall'industrialismo e il combinarsi delle funzioni a esse connaturate finiranno col sopravanzare i compiti esercitati dalle istituzioni politiche classiche. Temi, questi, che si riaffacceranno periodicamente nei disegni e nelle suggestioni di una ricostruzione corporativa della società europea, in specie all'indomani della prima guerra mondiale.
Anche il padre fondatore dell'istituzionalismo americano, John R. Commons, parlerà agli inizi del Novecento di un "governo costituzionale dell'industria", scorgendo in esso "un nuovo metodo per regolare i conflitti di lavoro". Ma, in polemica indiretta con i Webb e con l'intelligencjia socialista europea, egli non accetterà mai di vedere nella contrattazione collettiva un mezzo di mutamento sociale, preferendo pensare, a suo dire più pragmaticamente, che essa sia la concrezione dell'"equilibrio organizzato dell'eguaglianza" (v. Commons, 1934, p. 73). Per questo inviterà a diffidare dell'espressione 'democrazia industriale', ritenendo più appropriato discorrere di 'forme di governo' nelle quali sono condensabili le esperienze contrattuali del movimento sindacale statunitense (v. Commons, 1921, p. VIII). Al di là delle differenze lessicali, che tuttavia mettono bene in luce una sostanziale ostilità verso moduli ideologici e stilemi di matrice socialista, anche Commons, che giudicava la società americana come quella in cui poteva dispiegarsi più pienamente la spinta verso l'industrialismo, ravvisava nel conflitto di interessi e nelle procedure sempre più sofisticate per disciplinarlo e amministrarlo l'elemento discriminante dell'età contemporanea. In contrasto con l'organicismo webbiano, però, egli non considerava né la contrattazione collettiva né l'azione sindacale come i meccanismi più adatti per pilotare scientemente il mutamento sociale verso i grandi orizzonti dell'interesse pubblico; gli interessava piuttosto l'elemento di reciprocità, presente pure nei momenti di conflitto, che andava restaurato soprattutto quando lavoro e capitale erano impegnati in un confronto. Commons era consapevole della natura dicotomica e conflittuale della società industriale, così come dell'insopprimibilità del contrasto di interessi, ma riteneva che ciò non potesse militare contro le ragioni che dovevano indurre a recuperare costantemente la sua coesione. Per sottolineare questa esigenza egli inventò l'espressione, difficilmente traducibile, di industrial goodwill (v. Commons, 1919), a indicare come la questione della reciprocità stesse al cuore della ricerca dell'equilibrio sociale. E la reciprocità non era un problema di 'governo' né di ingegneria istituzionale, né qualcosa di raggiungibile attraverso gli istituti arbitrali, ma era invece una condizione che poteva essere ottenuta soltanto attraverso una mutua concessione, un'intesa liberamente perseguita, un contratto che superasse le cause di conflitto e restituisse al sistema industriale un 'carattere corporato', una logica funzionale. Diversamente dall'organicismo webbiano, l'istituzionalismo di Commons approdava a una rappresentazione della società industriale che, mentre ne rilevava l'intrinseca conflittualità, ne segnalava nel contempo la razionalità sistemica, la tendenza a ristabilire i rapporti di complementarità, la stretta interdipendenza funzionale che univa le sue componenti al di là delle cause di contrasto.
Fin qui ci si è soffermati su interpretazioni della società industriale che riportano la sua genesi a una sorta di invasione del sistema sociale da parte dell'industria. Tuttavia anche Marx, il più strenuo sostenitore dell'ipotesi del piegarsi della società alle esigenze della produzione industriale, non mostra mai come questo processo avvenga, limitandosi a parlare della 'concentrazione' che incrementa progressivamente l'insediamento dell'industria nel sistema sociale. È soltanto con l'esperienza organizzativa e imprenditoriale del fordismo che diviene palese il legame fra industria e società, fondato su una ratio economica e organizzativa. Nel tentativo di teorizzazione della sua prassi che fece Henry Ford (v., 1922) attraverso il rendiconto della sua autobiografia imprenditoriale - in un libro-testimonianza a mezzo fra la riflessione sul cammino percorso, l'esortazione morale e la messa a punto di criteri industriali universalmente validi - vengono esplicitati i nessi a cui è demandata la congiunzione fra il processo di produzione e l'organizzazione sociale, in modo che si configuri un circolo virtuoso. In questa prassi viene oggi individuato il paradigma storico e organizzativo del fordismo, identificato come il fenomeno che rappresenta la fase dello sviluppo più intenso e della maturità della società industriale. Così il fordismo viene proiettato oltre i limiti della concreta attività di Henry Ford per potervi ricomprendere la politica industriale e organizzativa delle grandi imprese, soprattutto occidentali, nel periodo che va dagli anni dieci (almeno per gli Stati Uniti, giacché l'esperienza industriale europea sfugge a questi parametri) fino agli anni settanta di questo secolo.I cardini su cui poggiano le teorie di Henry Ford sono, da un lato, il massimo sviluppo della produzione attraverso la standardizzazione delle lavorazioni e delle parti componenti del prodotto e, dall'altro, una politica salariale mirante a perseguire la stabilizzazione della manodopera mediante livelli di retribuzione relativamente alti, o quanto meno più elevati di quelli medi dell'industria. La standardizzazione è conseguita con una tipologia del prodotto ridotta all'essenziale, grazie al minor numero di varianti possibili e a un'assoluta intercambiabilità delle sue singole parti. La resa produttiva viene ricercata non esclusivamente attraverso una divisione del lavoro sempre più accentuata e la scomposizione delle mansioni operaie, ma anche attraverso una movimentazione complessiva delle operazioni di montaggio. In questo modo viene invertito il rapporto tra il lavoratore e le operazioni che deve compiere, giacché il ritmo non è più impresso dall'attività umana, bensì dal movimento meccanico che conduce all'operaio i componenti che deve lavorare, così da obbligarlo a seguire il ritmo di avanzamento della linea di montaggio, presto divenuta il simbolo della fabbrica fordista. Quanto agli alti salari, essi sono erogati come un sistema di incentivi, con lo scopo di rendere immediatamente visibili ai dipendenti i benefici arrecati dall'accrescimento della produttività. In origine, nel contesto industriale americano, essi erano stati pensati anche come un mezzo per accentuare la stabilità di una manodopera che la composizione etnica, a causa del susseguirsi delle ondate migratorie, rendeva variegata e instabile. Ma, per l'effetto combinato dello sviluppo della produttività e della dinamica retributiva, i lavoratori si trasformavano in acquirenti potenziali del bene che producevano, mentre nella prima fase della produzione automobilistica gli autoveicoli avevano rappresentato un bene di lusso assolutamente al di fuori della capacità di acquisto di un lavoratore manuale. Per la prima volta veniva così infranto il diaframma, su cui aveva insistito Marx, che impediva a un imprenditore di considerare i suoi dipendenti non soltanto come lavoratori (dunque fonte di costo), ma anche come consumatori (e motivo di maggior utile).
L'impresa fordista si configura pertanto come un circuito chiuso, che tenta di coniugare indissolubilmente il processo produttivo con l'inquadramento e la remunerazione dei lavoratori. Commons (v., 1921, p. 24) ritenne che lo schema di governo industriale inaugurato da Ford non avesse nulla a che spartire con l'unionismo sindacale né con la contrattazione collettiva, né tantomeno con la democrazia industriale. Era soltanto, concluse, "un'autocrazia industriale della vecchia maniera, temperata dalla fede nella natura umana". La novità del sistema aziendale creato da Ford non stava certo nelle relazioni industriali, vista la politica di esclusione delle rappresentanze sindacali, bensì nell'apparato di servizi e di strutture formative, sanitarie e culturali grazie al quale si tenevano i dipendenti sotto un controllo capillare. Fra il tempo di lavoro e il tempo libero si delineava un regime di rigorosa complementarità che, almeno nella fase di avvio degli esperimenti sociali di Ford, doveva condurre a una sintonia forzosa fra fabbrica e società all'insegna - come avrebbero osservato numerosi intellettuali europei, colpiti e stupiti dal vigore del modello fordista - di un'egemonia della fabbrica, secondo quanto annotò Gramsci in un celebre passo dei Quaderni del carcere.
Da questo lato, in particolare, della politica aziendale di Ford ha tratto origine la categoria del fordismo inteso come un modo di configurarsi della condizione di dominanza delle strutture della produzione sull'ambiente sociale, che a molti è parso caratterizzante dell'epoca di maggiore sviluppo della società industriale. In realtà, l'esperienza di Henry Ford si allontana per molti aspetti dal fordismo come formula organizzativa: anzitutto, per la pregiudiziale antisindacale, poi per l'orizzonte univocamente aziendale che veniva assegnato alla politica sociale, infine per i non pochi punti contraddittori che possono essere ritrovati nelle idee e nell'ideologia di Ford, un imprenditore che guardava con diffidenza all'attività finanziaria, che non smentì mai una certa propensione per l'ambiente agricolo, che non rinunciava a una visione del mondo spesso brutalmente semplificata. Di questi dati storici dell'attività di Ford la categoria del fordismo non ha tenuto conto, preferendo focalizzarsi sugli elementi della produzione di massa - che ebbe in Ford un assertore convinto -, della politica retributiva e del sistema di garanzie e provvidenze ideato per stabilizzare una manodopera poco caratterizzata sotto il profilo professionale e ormai legata alla mansione e al posto invece che al mestiere e alla professionalità.
Per molti versi, l'industrialismo del Novecento ha finito per essere identificato con il fordismo, in ciò favorito dal fatto che il settore automobilistico è diventato la realtà di punta dello sviluppo industriale. I fattori della tecnologia e dell'organizzazione, che abbiamo individuato come costitutivi della civiltà industriale, risultano ingigantiti dalla cornice fordista, che li ha dilatati fino a esasperarli. La standardizzazione attuata dalla produzione di massa ha imposto il primato di un paradigma tecnologico, mentre la realtà aziendale è divenuta, all'interno della struttura organizzativa, un valore centrale, in una fase che attribuiva grande importanza alla stabilità dell'occupazione industriale. In effetti il modello fordista ha trovato applicazione, soprattutto nell'ambito della produzione automobilistica, in sistemi industriali al di fuori degli Stati Uniti: non a caso si è parlato di 'ibridazione' del fordismo nei sistemi industriali europeo e giapponese (v. Shiomi e Wada, 1995), durante il ciclo di sviluppo dei trent'anni compresi tra la fine della seconda guerra mondiale e la crisi petrolifera del 1973-1974.
Più perplessità ingenera l'estensione del fordismo anche ad aspetti delle politiche economiche e sociali situati ben oltre la portata delle grandi imprese, tanto che è diffusa la consuetudine di riferirsi a un ciclo di sviluppo fordista in cui i caratteri industriali appena ricordati sarebbero accompagnati e sorretti dalle politiche espansive keynesiane, in varia misura adottate da numerosi governi dalla metà degli anni cinquanta in avanti, e da politiche sociali orientate in misura crescente al welfare. Così è divenuto corrente il riferimento al binomio fordismo-keynesismo, sbrigativamente considerato riassuntivo della civiltà industriale del secondo dopoguerra. Pare invece utile mantenere distinte le due dimensioni - quella industriale e quella connessa all'operatore pubblico - giacché vi è il rischio di assimilare fra di loro realtà contraddistinte da tempi e logiche di sviluppo che è bene evitare di confondere.
Le analisi e gli interrogativi sulla rappresentanza funzionale che si erano registrati tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento avevano preparato la strada alla ricerca delle soluzioni di governo più idonee per far fronte ai problemi associati all'ascesa della società industriale. Il dibattito si accentuò negli anni a cavallo della prima guerra mondiale, quando l'incremento della capacità produttiva dell'industria e, in parallelo, il dilagare della conflittualità del lavoro intensificarono l'esplorazione di nuove forme istituzionali congegnate per rispondere alle sollecitazioni provenienti dall'industrialismo. Già prima della guerra, durante la cosiddetta progressive era, gli Stati Uniti avevano sperimentato forme di corporate liberalism, fondate sul dialogo diretto fra le rappresentanze della comunità degli affari e del mondo del lavoro e incoraggiate dalla classe politica, la cui ispirazione non era distante dalla traccia indicata negli scritti di J.R. Commons. La guerra doveva invece consolidare, sulla sponda europea dell'Atlantico, il coinvolgimento dello Stato nell'opera di regolazione del sistema produttivo. La mobilitazione industriale, che riguardò i maggiori paesi belligeranti, mentre creava le condizioni per il rafforzamento delle basi dell'industria chiamata a sostenere l'enorme dispendio di mezzi materiali cui costringeva la guerra, si concretizzava in procedure di controllo statale sulla produzione destinate ad aprire il dibattito sulla trasformazione corporativa che avrebbe segnato il dopoguerra europeo (v. Maier, 1975). Ancor prima che il conflitto terminasse, nel Regno Unito si sarebbe avuto il tentativo di partecipazione dei Whitley councils, e in Germania W. Rathenau, a capo di un grande gruppo privato come l'AEG e tra i massimi responsabili della politica degli approvvigionamenti bellici, avrebbe formulato le idee in seguito esposte in Die neue Wirtschaft (1918), che sarebbe stato oggetto di largo interesse in tutta Europa, in cui proponeva una riorganizzazione funzionale del sistema economico. Erano i primi segnali che indicavano la fortuna della questione del corporativismo (o corporatismo), in cui molti intravedevano la via d'uscita dalle difficoltà postbelliche.
La crescita dell'apparato e dell'occupazione industriali era tale da far credere che la complessità dell'economia e della società, in cui il potenziale produttivo aveva assunto dimensioni imponenti, non potesse essere affrontata con le pratiche usuali della politica. Secondo un'opinione diffusa, la tradizionale rappresentanza parlamentare doveva essere integrata con una rappresentanza funzionale, così da rispecchiare gli interessi dei produttori (v. Lippmann, 1922). Per le ali rivoluzionarie e intransigenti del movimento operaio, questo secondo tipo di rappresentanza era da considerarsi propedeutico a un rovesciamento complessivo degli assetti del potere nella società; le componenti socialdemocratiche e riformiste lo intendevano invece come uno strumento correttivo e integratore della democrazia politica. Correva poi un discrimine fra la soluzione corporativa caldeggiata dalle nuove destre radicali (come il nazionalismo e il fascismo italiani), che la concepivano come un mezzo di conciliazione autoritaria e statalista dei dissidi fra capitale e lavoro, e quella a base pluralista, che voleva preservare una dialettica fra le autonome rappresentanze degli interessi organizzati e le istituzioni dello Stato.
Gli esperimenti corporativi degli anni venti erano in varia misura condannati al fallimento, più netto per quelli che avevano un disegno riformista, ufficialmente - ma solo ufficialmente - meno evidente per quelli d'impronta autoritaria. La deriva corporativa doveva tuttavia riemergere durante la grande crisi economica degli anni trenta, soprattutto per merito delle innovazioni nella prassi di governo introdotte dalla presidenza Roosevelt durante il New Deal. Negli Stati Uniti vennero prese, in particolare, delle misure per costituire un reticolo di garanzie istituzionali e giuridiche alla contrattazione collettiva nell'industria, nella persuasione che l'azione sindacale potesse per questa via indurre una crescita salariale e, conseguentemente, rilanciare la domanda aggregata indispensabile per una ripresa dei livelli di consumo e di produzione. Il New Deal può essere inteso, nelle sue linee guida, come un'anticipazione di esperimenti più organici per comporre un sistema di relazioni triangolari fra un governo rafforzato nei suoi poteri di intervento nell'economia e solide rappresentanze degli interessi organizzati del lavoro e del capitale, anche se la comunità degli affari avversò con asprezza la politica rooseveltiana (v. Vaudagna, 1981). Appare significativo che l'azione di governo prendesse per la prima volta esplicitamente come referente la situazione delle grandi classi sociali e imperniasse su di essa le sue strategie di ricostruzione economica. Risulta più nitida, in termini di assetto neocorporativo (v. Sassoon, 1996), l'azione di governo inaugurata dalle socialdemocrazie scandinave nel medesimo periodo. Esecutivi a maggioranza socialdemocratica, come - primo fra tutti - quello svedese, assunsero il ruolo di garanti dei patti di contenimento salariale stipulati tra le rappresentanze sindacali e imprenditoriali, che si prefiggevano la realizzazione di un ampio sistema di tutela sociale - il Welfare State - assicurando nel contempo condizioni di stabilità delle grandezze economiche fondamentali tali da favorire alti tassi di crescita.
Sotto molteplici riguardi la politica neocorporativa e, più in generale, l'orientamento keynesiano nella spesa pubblica, con la connessa opzione per il Welfare State, sono congiuntamente descritti come i cardini del quadro istituzionale più adeguato per governare le società industriali dalla grande crisi agli anni settanta. Con essi, infatti, si contemperavano le ragioni dell'espansione dell'economia, soprattutto attraverso il raggiungimento di livelli di consumo più elevati, con un sistema di garanzie sociali in sintonia con l'obiettivo di stabilizzare l'occupazione industriale. Nel caso del neocorporativismo socialdemocratico, gli scopi economici erano controbilanciati dalle finalità di riforma sociale; ma anche nel caso di nazioni industriali non governate nel dopoguerra da forze di ispirazione socialista, come per esempio la Germania Occidentale, alla grande estensione dell'industrializzazione si è unita una rilevante dotazione di strutture di welfare, segno che si perseguivano obiettivi non del tutto discordanti. La tesi della convergenza delle società industriali, emersa negli anni sessanta, si è d'altronde largamente alimentata di questi riscontri. Nel secondo dopoguerra le politiche keynesiane e quelle dedicate alla costruzione del welfare pubblico entrarono in sintonia con l'idea fordista a cui si stava uniformando la dinamica dell'industrialismo. Non certo nel senso che esse costituissero una sorta di naturale prosecuzione del fordismo, giacché non c'è stato tra loro alcun rapporto di filiazione diretta (non si dimentichi che Henry Ford fu uno dei nemici del New Deal), ma perché formavano una cornice che si accordava bene con i programmi di espansione delle grandi imprese. Anche le politiche pubbliche miravano al conseguimento di un grado maggiore di omogeneità sociale (nell'istruzione scolastica, nell'assistenza sanitaria, nel campo pensionistico), commisurate com'erano a società la cui vita civile era scandita dalla presenza organizzata di vaste masse di cittadini omologati dal lavoro, dai modelli di consumo, dalle stesse consuetudini private. La società industriale del dopoguerra, in Occidente ma anche in una grande nazione orientale come il Giappone, appariva convincentemente definibile attraverso la regolarità e la continuità che, come notavano gli autori di Industrialism and industrial man (v. Kerr e altri, 1960), testimoniavano di un livello comune di maturità. Persino i conflitti di lavoro, a lungo causa di instabilità per l'industrialismo, sembravano inserirsi in un alveo che li rendeva circoscrivibili e governabili, mentre pareva attutirsi l'eco del contrasto ideologico. Restava peraltro sottaciuto, in queste visioni di una società industriale che si andava riconciliando con se stessa, il postulato di una capacità illimitata di assorbimento di un mercato completamente sottomesso alla produzione e dominato da imprese product oriented. Una situazione, questa, che avrebbe cominciato a ribaltarsi dagli anni settanta in poi.
Di recente (v. Accornero, 1994, p. 331) è stata sollevata la questione se la società industriale stia attraversando una fase di crisi temporanea o se il suo non sia invece un declino inarrestabile. Certo, sarebbe difficile definire industriali le odierne società sviluppate dell'Occidente, anche se continuiamo a denominare industriali le nazioni contrassegnate dai più alti standard di ricchezza. L'ultimo tratto del Novecento rivela una costante perdita di incidenza quantitativa del sistema industriale nelle aree del mondo che per prime hanno conosciuto la crescita manifatturiera, mentre invece l'insediamento dell'industria si è ampliato nei paesi, soprattutto asiatici, che oggi si distinguono per gli elevati tassi di sviluppo. Tuttavia il contesto istituzionale in cui si afferma l'industrializzazione in Oriente ha enfatizzato le differenze rispetto al modello occidentale, contribuendo ad animare una vasta discussione sulla varietà dei capitalismi e sulle specificità culturali degli itinerari di sviluppo asiatici (v. in particolare Dore, 1987; v. Bonazzi, 1996). L'analisi comparativa ha valorizzato le difformità (per esempio interrogandosi sulle matrici collettiviste che innervano l'industrialismo orientale), confutando decisamente le teorie, ormai del tutto obsolete, relative alla necessaria convergenza fra i sistemi sociali coinvolti nello sviluppo industriale.
Il declino della presenza e del radicamento sociale del sistema industriale all'interno delle realtà per le quali era stata concepita l'espressione 'società industriale' è innegabile. Esso è stato provocato da una serie di cause concatenate, legate principalmente: a) alla rivincita del mercato nei confronti dei produttori, cui ha imposto i suoi termini e la sua soggettività, obbligandoli a passare da strategie product oriented ad altre market oriented; b) ai limiti ambientali sempre più visibili che frenano l'espansione illimitata della produzione; c) alla rivoluzione organizzativa portata dalle tecnologie dell'informazione e delle telecomunicazioni; d) all'aumento del peso delle attività finanziarie nell'economia mondiale che, combinandosi con le nuove opportunità di contenimento delle strutture di costo e con i vantaggi della delocalizzazione produttiva, ne ha esaltato il carattere globale; e) allo spostamento del baricentro dell'occupazione dal secondario al terziario, conseguente alle dimensioni progressivamente più cospicue acquisite dalla produzione di servizi. Il confluire di questi fenomeni ha fatto sì che il sistema industriale, già di per sé impegnato in un'opera di snellimento delle proprie strutture operative, abbia finito con l'apparire drasticamente ridimensionato. Si è ristretto notevolmente lo spazio sociale occupato dalle grandi imprese, da sempre considerate le artefici della società industriale e i soggetti più attivi nello stimolare la capacità dell'industrialismo di attirare verso lo sviluppo manifatturiero le migliori risorse sociali. In luogo della concentrazione di grandi masse di lavoratori in impianti produttivi tesi allo sfruttamento delle massime economie di scala, sono subentrate una elasticità e una flessibilità organizzative che hanno fatto parlare (v. Rifkin, 1995; v. Accornero, 1997) di "imprese virtuali", il cui nucleo stabile è limitato a un gruppo di operatori aziendali specializzati ai quali si collega la fascia variabile dei lavoratori a bassa specializzazione, tenuti a prestare una collaborazione a termine. Ne deriva l'accentuazione della funzione elastica di coordinamento dell'impresa, piuttosto che del suo carattere di struttura di manufacturing, volta a incrementare la sua capacità di sintonia con la rete delle transazioni di mercato.
Ancor prima che questi cambiamenti si manifestassero compiutamente, l'avvento imminente della società postindustriale fu annunciato da quanti (v. Touraine, 1969; v. Bell, 1973) presagivano già la scomparsa per esaurimento della società industriale. Le ipotesi su cui si basano le interpretazioni correnti della società postindustriale sono principalmente due: la prima mette in risalto il passaggio da un'economia centrata sulla produzione di beni a un'economia che produce prevalentemente servizi, una transizione simile a quella che vide l'industria sostituire l'agricoltura come attività predominante; la seconda privilegia invece il ruolo della tecnologia, con l'informatica come deus ex machina della trasformazione. In questa versione la transizione sarebbe ancora più radicale, giacché l'umanità starebbe affrontando un tornante paragonabile, per intensità e qualità, a quello che portò nel Neolitico alla nascita dell'agricoltura e alla fine del nomadismo. Il declino dell'industrialismo indurrebbe addirittura la "fine del lavoro" (v. Rifkin, 1995), soppiantato da una serie, articolata all'infinito, di attività ben distinte dalla densa compagine occupazionale propria della civiltà industriale.
A queste tesi è stato obiettato che "siamo dentro un passaggio, una transizione, nel modo industriale di lavorare e di produrre, non già dentro la crisi del modo industriale di pensare, e tanto meno del modo di organizzare il futuro". Infatti, "il vasto mondo dei servizi, o del terziario, è trainante per l'occupazione ma non [...] per il reddito", poiché i servizi non riescono a eguagliare la produttività dell'industria. D'altro canto, l'Occidente che si deindustrializza "continua a utilizzare e a sfruttare i vantaggi" della produzione industriale, ed esporta i suoi criteri di calcolo e di valutazione in altri settori e attività. La presa della logica industriale sulla società non si sarebbe dunque allentata; quel che essa avrebbe effettivamente perso è, in fondo, "il fascino della trasformazione", mentre all'industrialismo sarebbe venuto meno "il carisma del progresso" (v. Accornero, 1994, pp. 322-327).
Repliche come questa, che distingue accuratamente l'industria dall'industrialismo (cioè il sistema produttivo reale dal movimento di consenso che, per buona parte di questo secolo e del precedente, ha agito per ampliare il radicamento dell'industria nella società), sono efficaci nel criticare gli argomenti dei fautori dell'esistenza di una società postindustriale dai contorni altrettanto precisi di quella che avrebbe scalzato, ma eludono in buona misura la questione della continuità o meno della società industriale. Né può soccorrere il richiamo alla tradizione del marxismo che, utilizzando una locuzione come quella di 'modo di produzione', si limita a rilevare la continuità del capitalismo, una categoria ampia a sufficienza per abbracciare realtà caratterizzate da fenomeni assai contraddittori.
Se la società industriale è definita dai processi che qui sono stati ricordati - subordinazione del sistema sociale all'organizzazione manifatturiera; struttura funzionale delle relazioni fra grandi aggregati sociali coesi e omogenei; tecnologie monovalenti e rigide, come la catena di montaggio fordista, per un'illimitata produzione di massa; politiche neocorporative incardinate sul principio ridistributivo - allora è indiscutibile che le attuali società sviluppate si situano al di fuori di questi parametri. Il rapporto fra industria e lavoro si è modificato man mano che il fabbisogno occupazionale del sistema produttivo diventava sempre più qualitativo, con una parallela riduzione del numero complessivo degli addetti; la tecnologia e le nuove imprese sono quanto mai lontane, negli assetti variabili che configurano, dall'assolutismo dell'one best way del taylorismo e del fordismo; le politiche sociali puntano anch'esse alla varietà e alla differenziazione, rifuggendo da quell'uniformità di interventi che costituiva quasi un valore per il vecchio welfare e per le misure a sostegno del mondo della produzione. È insomma venuta meno la trama di densità e di compattezza che rappresentava il tessuto connettivo della società industriale, così come è tramontato l'industrialismo - almeno in Occidente, giacché in Oriente resta assai forte l'imperativo sociale dello sviluppo - in quanto strumento di mobilitazione e di consenso. Non per questo occorre sposare la tesi dell'inevitabilità del postindustriale, ove lo si intenda come un capovolgimento di sistema e di valori. L'enclave sociale dell'industria è destinata a permanere e a esercitare un influsso durevole sulla società a motivo del suo carattere organizzato e sistemico, senza perciò ambire a egemonie che anche nel passato sono state più brevi, contrastate e incerte di quanto abbiano riconosciuto le teorie. (V. anche Borghesia; Capitalismo; Industria; Industrializzazione; Modernizzazione; Operai; Proletariato; Sviluppo economico; Tecnica e tecnologia).
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