Semiologia del cinema
La s. del c. costituisce uno degli approcci teorici all'arte cinematografica più conosciuti a livello internazionale (v. estetica del cinema). Il termine semiologia significa etimologicamente "scienza dei segni". Decisiva per lo sviluppo della disciplina fu la pubblicazione dei Saggi di linguistica generale di Roman Jakobson (scelti e tradotti in francese nel 1963 da N. Ruwet, Essais de linguistique générale, e quindi in italiano, nel 1966, a cura di L. Heilmann), mentre di rilievo fu anche la pubblicazione nel 1964 dell'articolo di Roland Barthes Éléments de sémiologie (in "Communications", 4), in cui il filosofo propose di applicare alla teoria letteraria e, più in generale, all'insieme delle manifestazioni simboliche della società, i principali concetti della linguistica strutturale (come, per esempio, quelli di significante/significato, denotazione/connotazione, sintagma/paradigma ecc.). Nello stesso numero di "Communications" compariva l'articolo di uno dei suoi allievi, Christian Metz, dal titolo Le cinéma, langue ou langage?, che si chiude con la seguente frase: "Occorre fare la semiologia del cinema".
Questo approccio conobbe una diffusione internazionale molto rapida, poiché si affermò in un periodo particolarmente favorevole alla circolazione delle tesi strutturaliste. Esso suscitò in Francia, in Italia e nei Paesi anglosassoni numerose reazioni polemiche, che contribuirono a estendere la sua sfera d'influenza, soprattutto tra i critici cinematografici. Inoltre, la semiologia si sviluppò in un periodo in cui le università iniziavano ad aprirsi a corsi di studio dedicati al cinema.
Come tutti i settori delle scienze umane, la s. del c. non durò che lo spazio di una generazione per poi cedere il passo ad approcci nuovi e molto diversificati, come, per es., la filosofia delle immagini in movimento, le scienze cognitive, le teorie della 'decostruzione' ispirate da Jacques Derrida o la critica genetica o storica.
Fu il linguista svizzero di lingua francese Ferdinand de Saussure che, nel suo celebre Cours de linguistique générale (1916), progettò la costituzione di una scienza volta allo studio dei "segni nel quadro della vita sociale", come parte della psicologia sociale e generale, e quindi con un campo di applicazione molto più vasto di quello della linguistica. All'inizio degli anni Sessanta Barthes, nel riprendere il termine usato da Saussure nei suoi Éléments de sémiologie, volle sottolineare come tutte le culture siano suscettibili di essere studiate come sistemi di segni intenzionali e artificiali, dalle lingue storico-naturali alla letteratura, dai sistemi di oggetti d'uso (come la moda, i prodotti alimentari ecc.) ai diversi linguaggi artistici, sino a comprendere anche il cinema.
Nel contesto anglosassone, parallelamente a Saussure, il filosofo statunitense Charles S. Peirce nell'ambito delle sue indagini sulla logica costruì una teoria dei segni o semiotica che, come la semiologia di Saussure, aveva il compito di studiare tutti i sistemi di segni creati dall'uomo. Peirce, tuttavia, sviluppò le sue nozioni indipendentemente dal modello linguistico. La sua semiotica si fonda in primo luogo sulla divisione dei segni in tre categorie fondamentali: le icone, gli indici e i simboli. Questa tripartizione è stata frequentemente ripresa nel campo della critica cinematografica, in particolare dall'inglese Peter Wollen (Signs and meaning in the cinema, 1969) che ha posto l'accento sull'importanza degli aspetti indessicali e iconici del film, insistendo, al tempo stesso, sulla possibilità di conferire una vera "dimensione concettuale" al cinema, attraverso il ricorso alla retorica e a tutte le forme del simbolismo. Tutti gli autori ostili al modello linguistico, da Pier Paolo Pasolini a Jean Mitry e a Gilles Deleuze hanno rifiutato la semiologia strutturale basandosi soprattutto sulle categorie concettuali stabilite da Peirce.
Negli anni Sessanta, il termine semiologia (di area culturale francofona) venne usato per designare le ricerche influenzate da Saussure e dalla linguistica e il termine semiotica (di origine anglofona) per indicare le analisi che si richiamavano al modello di Peirce. In seguito, la semiotica ha finito per inglobare la semiologia, a partire dal momento in cui quest'ultima ha iniziato a interessarsi ai rapporti che legano i segni e i simboli all'inconscio e quindi alla produzione letteraria e poi artistica, nel senso più ampio dell'espressione.
La s. del c. ha conosciuto molte fasi diverse. In un primo periodo essa si interessò della nozione stessa di 'linguaggio cinematografico', basandosi sugli sviluppi della linguistica strutturale divulgata da Barthes e, in particolare, sui concetti enunciati dal linguista danese Louis T. Hjelmslev. Metz nei suoi studi si basò in primo luogo proprio su una critica delle posizioni formaliste (v. formalismo) sottolineando come, poiché nel cinema non si possono trovare le unità di prima e seconda articolazione e il paradigma su base morfologica, il cinema non può essere considerato una lingua bensì un linguaggio. Questa prima fase di riflessione di Metz giunse a compimento con la pubblicazione, nel 1968, del suo Langage et cinéma. Qualche anno più tardi, la s. del c. iniziò a subire l'influenza dei lavori dello psicoanalista Jacques Lacan fondati sul presupposto che "l'inconscio è strutturato come un linguaggio". Questa 'seconda semiologia' si richiama dunque alla psicoanalisi freudiana riletta alla luce dell'interpretazione lacaniana. Il principale concetto emerso in questo periodo è quello di 'significante immaginario'. La situazione dello spettatore del cinema di fiction è così paragonata a quella del sognatore.
Dalla prima s. del c. è nata la narratologia del cinema, vale a dire lo studio del racconto, dei personaggi, della temporalità ecc. e l'analisi strutturale o testuale del film, che studia metodicamente le più piccole unità sequenziali del film, i raccordi, i parametri di composizione dell'immagine.
La seconda s. del c., quella d'ispirazione lacaniana, si è invece interessata allo spettatore, ai diversi fenomeni che portano quest'ultimo a identificarsi con i personaggi, così come con il racconto stesso (v. dispositivo cinematografico e psicoanalisi e cinema).
La terza fase ha incentrato le sue indagini sulla problematica dell'enunciazione e ha inteso comprendere se quest'ultima svolga o no un ruolo nella produzione di senso all'interno dei film e, soprattutto, se il rapporto tra lo spettatore e il film, così come tra il presunto autore e quest'ultimo, sia determinato dalla modalità d'enunciazione. La teoria dell'enunciazione studia l'atto stesso attraverso cui il locutore di una lingua fa sue le possibilità di quest'ultima di realizzare un discorso. Si tratta della trasformazione delle virtualità offerte da una lingua in manifestazioni concrete. Trasposta in ambito cinematografico, l'enunciazione è ciò che permette a un film, a partire dalle potenzialità inerenti al cinema, di prendere corpo e di manifestarsi. Ma l'idea linguistica di enunciazione si basa sul fatto che un testo è sempre scritto da qualcuno per qualcun altro, in un dato momento e in un dato luogo, mentre queste caratteristiche sono ben lungi dall'essere evidenti per l'enunciazione filmica. In quest'ambito, le teorie dell'enunciazione hanno consentito di prendere in considerazione la maniera in cui il testo filmico si delinea, fa presa e si avvolge su sé stesso e quindi a porre l'accento su tre momenti della sua produzione: il momento della sua costituzione, ossia la genesi, quello della sua destinazione e il suo carattere autoreferenziale (l'esempio classico è quello di 8 ¹/₂, 1963, di Federico Fellini). Di qui l'importanza, per il film, della nozione di sguardo. Interessarsi all'enunciazione filmica, significa interessarsi al momento in cui si è inquadrata un'immagine e a quello in cui lo spettatore percepisce questa inquadratura. Ma l'enunciazione è, per Metz, "impersonale"; essa si manifesta attraverso una serie di procedimenti autoriflessivi: appelli allo spettatore (una pratica frequente in Jean-Luc Godard e Woody Allen), sguardi rivolti verso la macchina da presa (come nei film di Nanni Moretti), commenti pronunciati da un personaggio nel campo o da un osservatore invisibile (come in Orson Welles), esibizione del dispositivo attraverso la presenza nel campo della macchina da presa o dei microfoni, citazioni da altri film ecc. e, beninteso, le iscrizioni con informazioni supplementari, i titoli di testa e di coda.
Infine, dal momento che la presenza di tracce di enunciazione nell'enunciato minaccia il regime d'adesione alla fiction, alcuni teorici, come Noël Burch e David Bordwell, hanno opposto il film narrativo classico, che privilegia l'effetto di illusione e la trasparenza sforzandosi di cancellare proprio le tracce dell'enunciazione, a tutte le categorie moderne di film che, al contrario, esibiscono apertamente i loro dispositivi enunciativi (per es. i film di Alain Robbe-Grillet).A partire dagli anni Novanta, le teorie del cinema hanno subito l'influenza più massiccia delle scienze cognitive, come, per es., la psicologia cognitiva, la linguistica e le ricerche nel campo dell'intelligenza artificiale che pongono l'accento sulla 'cognizione', intesa come insieme delle strutture e delle attività psicologiche dell'uomo aventi per oggetto la conoscenza. Nell'ambito della teoria del cinema, i cognitivisti si sono così interessati all'attività mentale dello spettatore, ai procedimenti innati e acquisiti che gli consentono di costruire un film e dunque di poterlo comprendere (di qui le ricerche di Bordwell, Edward Branigan, Noël Carroll e Laurent Jullier).
Ch. Metz, Essais sur la signification au cinéma, Paris 1968 (trad. it. Semiologia del cinema, Milano 1972).
Énonciation et cinéma, in "Communications", 1983, 38.
F. Casetti, Teorie del cinema 1945-1990, Milano 1993, in partic. pp. 143-70.