Scrittura
Forse nessuno come François Truffaut ha saputo rappresentare al cinema l'atto dello scrivere. Si pensi, in particolare, a due film interpretati dallo stesso regista: L'enfant sauvage (1970; Il ragazzo selvaggio), in cui il dottor Itard redige con amorevole cura le sue relazioni scientifiche e La chambre verte (1978; La camera verde) in cui Julien Davenne si dedica con febbrile solerzia alla s. dei necrologi per il giornale dove lavora. Un primo campo di osservazione della relazione tra s. e cinema può riguardare la rappresentazione dell'atto dello scrivere, che non si direbbe particolarmente cinematografico, data la difficoltà che i registi hanno sempre incontrato nel raffigurare in modo credibile scrittori al lavoro: molto meglio sono andate le cose con scrittori affetti da impotenza creativa, come Jack Torrance (Jack Nicholson) in The shining (1980; Shining) di Stanley Kubrick. Truffaut, grazie al particolare valore che la s. acquista nel suo universo simbolico, in cui è strettamente legata al fuoco e al sentimento della perdita (Collet 1977), ha saputo esprimere attraverso questo atto, privo di valenze spettacolari, le atmosfere chiuse, raccolte, spesso ossessive, nelle quali vivono i suoi personaggi: si pensi anche a L'histoire d'Adèle H. (1975; Adèle H., una storia d'amore), in cui la protagonista, interpretata da Isabelle Adjani, coltiva la sua follia amorosa attraverso la s. (cifrata) di un diario.
Un secondo aspetto di questa relazione riguarda l'inserimento della s. ‒ didascalie, intertitoli, dettagli di lettere, pagine di libri, citazioni ‒ nell'ambito di un film. Occorre fare una distinzione tra il cinema muto e quello sonoro. Nel cinema muto la didascalia supplisce alla mancanza della parola detta (battute dei personaggi, interventi del narratore). Alla parola scritta, su pergamena o in libri a stampa, è a volte affidata una particolare funzione nell'incipit, quasi a voler attribuire risonanze arcane o quantomeno il prestigio della narrativa scritta alla vicenda cui si sta per assistere. Ma non va sottovalutata la funzione di accorciare le distanze tra la natura iconica della messa in scena filmica e quella grafica di didascalie e intertitoli; funzione che può essere assolta anche dagli elementi iconici utilizzati nel quadro stesso di didascalie e intertitoli (disegni che possono richiamare schematicamente personaggi o oggetti dell'azione, motivi ornamentali oppure scenografici: Immagine e scrittura, 1998, pp. 199-210). Si pensi, per es., all'incipit di Malombra (1917) di Carmine Gallone, primo adattamento cinematografico del romanzo di A. Fogazzaro: in questo caso sono mostrate le pagine di un libro che hanno in intestazione il titolo del film e la casa di produzione (Cines) e riportano, dapprima, i nomi dei personaggi e degli interpreti (tra questi Lyda Borelli nel ruolo della protagonista), poi una didascalia introduttiva ("I Parte/Il castello di Malombra, con le sue strane leggende, accendeva la fantasia dei pescatori, la notte"). È significativo che un artificio visivo dello stesso tipo (le pagine di un libro) sia utilizzato in Præsidenten (1918, Il presidente), primo lungometraggio di Carl Theodor Dreyer, un autore che fin dalla sua prima opera afferma una sorta di primato della parola (la s. e il libro), primato che è addirittura tematizzato nel titolo e nell'incipit di Blade af Satans Bog (Pagine dal libro di Satana) del 1921 (Drouzy 1982, p. 170).Nel cinema sonoro il ricorso a scritte di vario tipo non è più una necessità legata all'assenza della parola detta, ma una scelta di tipo narrativo o stilistico. Il cinema classico fa spesso uso di scritte per introdurre, nell'incipit, lo svolgimento dell'azione o per dare, nell'epilogo, informazioni sul destino dei personaggi. E a volte le accompagna con la contestuale lettura da parte di una voce narrante fuori campo. In Letter from an unknown woman (1948; Lettera da una sconosciuta), uno dei grandi melodrammi hollywoodiani di Max Ophuls, la dimensione grafica della s. (la lettera di una donna amata e dimenticata) introduce nella vita frivola e dissipata del protagonista l'inconciliabile alterità del punto di vista femminile e della voce del passato (quando l'uomo legge la lettera la donna è già morta).
Didascalie e intertitoli si ritrovano in un determinato cinema moderno, per es. in Jean-Luc Godard e in gran parte del cinema politico degli anni Sessanta e Settanta, con funzioni pressoché analoghe a quelle dei 'cartelli' del teatro epico di B. Brecht (da cui questo procedimento deriva). Più complesso è l'uso delle scritte nell'ultimo Godard, come per es. in Histoire(s) du cinéma (1988-1998), un testo audiovisivo in cui la parola scritta convive con le immagini e i suoni, in un flusso ininterrotto di combinazioni e manipolazioni di tutti i tipi (effetti di montaggio, missaggio, sovrimpressioni, dissolvenze).
C'è un momento, che potrebbe essere definito istituzionale, di compresenza di immagine e di parola scritta in tutti i film che si vedono abitualmente: in quella che è chiamata la sequenza dei titoli di testa (de Mourgues 1994). Sempre più spesso nel cinema contemporaneo tale sequenza ha cessato di essere un elemento esterno al film vero e proprio ed è diventata tutt'uno con l'inizio di essa: esemplare è la sequenza che dà avvio alla narrazione e mostra i titoli di testa di The player (1992; I protagonisti) di Robert Altman: un vero e proprio tour de force grazie al quale, con un unico e virtuosistico piano sequenza, vengono forniti cast & credits e messi in campo il protagonista con i personaggi di contorno, il suo ambiente di lavoro (uno studio hollywoodiano), una sbalorditiva serie di riferimenti alla storia del cinema e l'elemento che dà l'avvio all'intrigo, l'arrivo di una cartolina con un minaccioso messaggio (ancora la scrittura). In altri casi le distanze tra la natura iconica della messa in scena filmica e quella simbolica della s. vengono accorciate attraverso l'uso della grafica animata oppure altre forme di ibridazione tra s. e immagine (secondo procedimenti di iconizzazione della scrittura in uso sia nei fumetti sia nei film d'animazione).Il cinema presuppone la s. in varie fasi e a vari livelli del processo di produzione e di fruizione. Dalla fase dello script, come lo chiamano negli Stati Uniti, vale a dire dell'elaborazione del soggetto e della sceneggiatura, a quella delle recensioni o dei servizi giornalistici che valutano il prodotto o registrano il suo impatto sul costume e sulla società. È pur vero che la sceneggiatura, come la ha definita Pier Paolo Pasolini (1972, pp. 192-201), è una "struttura che vuole essere altra struttura": essa non ha valore autonomo e le sue procedure sono finalizzate alla realizzazione di qualcosa che trascende la dimensione della pagina scritta. Tuttavia le varie fasi di progettazione di un film (dall'elaborazione del soggetto in forma narrativa al découpage tecnico) costituiscono fonti scritte di importanza essenziale, non solo per lo studio della genesi di un'opera, ma anche per avere un'idea precisa di quei film che, come purtroppo è accaduto in vari periodi della storia del cinema, sono andati perduti oppure sono stati mutilati dalla censura. Lo stesso si può dire per le fonti giornalistiche che registrano le varie fasi di ricezione di un film. Pertanto, la scrittura da un lato risulta decisamente implicata nel processo di ideazione del visivo cinematografico e dall'altro costituisce una traccia del ruolo che esso acquista nell'immaginario di un'epoca.Assai più complesse diventano queste relazioni se dal piano dell'osservazione empirica si passa a quello delle teorie della letteratura e del cinema. Una concezione del cinema come s., in particolare come s. ideogrammatica che fissa in forma visibile le idee allo stesso modo in cui quella fonografica fissa in forma visibile i suoni, si manifesta a partire dalle prime riflessioni teoriche. Fu probabilmente lo statunitense Vachel Lindsay il primo a stabilire una relazione tra cinema e ideogrammi: secondo Lindsay (1915), che introdusse il concetto di s. iconica (writing-picture), l'invenzione del cinema va paragonata per importanza all'introduzione della s. ideogrammatica. Nella stessa direzione, ma con maggior spessore teorico, si sviluppa il pensiero di Sergej M. Ejzenštejn (1929) nell'ambito delle sue riflessioni sul montaggio, peraltro ancora fortemente ancorate all'esperienza del cinema muto. Mentre lo scrittore e regista francese Marcel Pagnol arriva a definire la rivoluzione del sonoro come l'acquisizione pressoché perfetta e definitiva di una s. ideografica, in quanto sintesi di s. ideografica nella sua forma filmica (ovvero il cinema muto) e s. fonetica nella sua forma fonografica (fonografo e cinema sonoro: cfr. Pagnol 1965, pp. 38-55).
Del tutto particolare è il significato che l'espressione scrittura filmica acquista nella riflessione teorica di ispirazione semiologica. La s. filmica, concetto elaborato in aerea francese a partire dagli studi letterari, filosofici e linguistici di Roland Barthes, Jacques Derrida e Julia Kristeva, è al centro della cosiddetta svolta testuale della semiologia del cinema negli anni Settanta (Marie 1977; Casetti 1993, pp. 156-70). Si può anzi affermare che l'uso di questo concetto, una volta importato in campo cinematografico, oltre a costituire un fecondo momento di interazione tra differenti settori disciplinari, ha rappresentato anche un momento di scambio tra differenti aree linguistico-culturali, tanto è vero che anche in ambito anglosassone è stato adottato il termine écriture per designare tale problematica (Stam, Burgoyne, Flitterman-Lewis 1992). Esaurita la prima fase degli studi semiotici (1964-1971) in cui l'oggetto centrale è stato il linguaggio cinematografico e, di conseguenza, si sono analizzati soprattutto i codici (codici specifici e non specifici), l'attenzione si è spostata sul film come testo, al fine di comprendere i meccanismi e le dinamiche che definiscono i singoli film o gruppi di film (Metz 1971). È in questo ambito che si è sviluppata la problematica della s. filmica, intesa come principio dinamico di funzionamento del testo filmico, che vive e si sviluppa attraverso un gioco complesso di conformità e di opposizione ai codici del linguaggio del film. Decisivo nella definizione del concetto di s. filmica è stato l'influsso esercitato da Derrida, che nei suoi scritti ha sviluppato una critica radicale al logocentrismo e al fonocentrismo della linguistica strutturale e ha messo in primo piano la dimensione propriamente grafica della s.: in una prospettiva del genere si collocano i lavori di Marie-Claire Ropars (Ropars-Wuilleumier, 1981; 1990), in cui il concetto di s. filmica è implicato più negli aspetti dinamici e instabili di traccia che in quelli sistematici e statici di segno linguistico. Ma l'idea derridiana di s. come traccia, come luogo in cui si manifestano tensioni colte a superare la linearità della catena fonematica della linguistica, ha trovato applicazione anche in studi letterari: è necessario citare almeno, per il modo esemplare in cui intreccia s. e cinema, un saggio di G. Celati (1975, pp. 53-80) sulla prosa di S. Beckett. Qui Celati chiama in causa il principio di costruzione delle gag della slapstick comedy per definire il tentativo della s. beckettiana di fuoriuscire dalla meccanica ripetitività (linearizza-zione) e dalla chiusura della rappresentazione (monumentalizzazione) del testo letterario e di aprirsi al movimento, alla corporeità, al gesto. Il richiamo al cinema e alla grande stagione dei comici statunitensi (Buster Keaton, Stan Laurel e Oliver Hardy, i fratelli Marx) acquista un particolare significato in rapporto a uno scrittore come Beckett, approdato ‒ fatalmente si direbbe ‒ alla realizzazione di un'opera cinematografica (Film, 1965, di Alan Schneider) che rappresenta l'estremo omaggio alla maschera Buster Keaton(protagonista del film) ma anche il punto di approdo di una scrittura programmaticamente tesa alla fuoriuscita dai limiti del testo (Beckett 1972).Lo stesso Derrida, che in seguito alla sua partecipazione al film D'ailleurs, Derrida (1999) di Safaa Fathy ha pubblicato un testo su questa sua esperienza (Derrida, Fathy 2000), ha ammesso che si possono stabilire rapporti tra il concetto di decostruzione, centrale nel suo pensiero filosofico, e quello di montaggio (Jacques Derrida. Le cinéma et ses fantômes, 2001, p. 82). Secondo Derrida, soprattutto in seguito all'introduzione e allo sviluppo delle nuove tecnologie informatiche, vi è stato un ravvicinamento tra s., o meglio discorsività, e montaggio cinematografico (e viceversa). A suo giudizio, inoltre, "la scrittura, da un po' di tempo, partecipa di una certa visione cinematografica del mondo" (p. 82).In realtà, l'idea di un'interazione tra s. e visione ha nutrito un'intera stagione di studi narratologici (v. narratologia), nel cui ambito il concetto di focalizzazione (ovvero di gestione del punto di vista narrativo, cioè del vedere e del sapere del narratore e dei personaggi) denuncia, fin dalla scelta del termine esplicitamente derivato dall'ottica, la sua origine visiva, se non direttamente cinematografica. Tanto è vero che in questo ambito si registrano vari tentativi di elaborare una narratologia comparata (Jost 1987; Chatman 1990). Indubbiamente dall'avvento del cinema in poi, la letteratura ha subito l'influsso del modello cinematografico, della narrazione per immagini in movimento. Può anche capitare che determinati procedimenti descrittivi e narrativi siano definiti da critici o teorici della letteratura attraverso metafore cinematografiche: si può citare, al proposito, un'analisi di U. Eco dell'incipit di I promessi sposi di A. Manzoni in cui la famosa descrizione di "quel ramo del lago di Como" viene definita nei termini di un complesso movimento di zoom (1985, p. 253); oppure una curiosa espressione di G. Genette che, a proposito di H. de Balzac, parla del "procedimento della carrellata in avanti" (1983; trad. it. 1987, p. 59); e del resto proprio allo scrittore francese è stato dedicato un pregevole studio dal titolo Balzac cinéaste (Baron 1990). Ciò non significa ovviamente che gli autori citati intendano attribuire a romanzieri ottocenteschi l'invenzione dello zoom, del travelling o di altre tecniche cinematografiche. Significa solo che la metafora cinematografica può servire perfettamente a visualizzare un rapporto tra personaggio, narratore e mondo circostante, secondo un procedimento che mette in funzione quelle che Eco (1979, p. 81) ha chiamato "sceneggiature intertestuali visive" e che è riscontrabile sia nella prosa di un narratore sia in quella di un critico, non meno che nell'attività di cooperazione testuale del lettore. Il cinema eredita dalle grandi macchine narrative dell'Ottocento tutto un insieme di strategie visive e visionarie e le mette all'opera grazie alle nuove possibilità tecniche. Del resto nella narrativa ottocentesca non mancano esempi di prefigurazione del dispositivo cinematografico: da ricordare L'Ève future (1886) di Ph.-A.-M. Villiers de l'Isle-Adam, in cui uno dei personaggi è addirittura Thomas A. Edison, inventore del cinetoscopio e del fonografo; oppure Le château de Carpathes (1892) di J. Verne, il cui protagonista rievoca l'immagine e la voce della donna amata attraverso un dispositivo che combina la fantasmagoria di É.-G. Robert detto Robertson con il fonografo di Edison (Milner 1982).
C'è tuttavia un altro piano in cui il cinema in quanto modo di rappresentazione e in quanto istituzione si trova implicato nella scrittura. Sono i casi in cui si verifica una dinamica di scambi tra modello cinematografico e modello letterario. Nel segno del film, titolo del capitolo conclusivo della Sozialgeschichte der Kunst und Literatur (1951) di A. Hauser, è una formula che sintetizza perfettamente l'idea di un'interazione forte tra il modello delle tecniche cinematografiche (soprattutto del montaggio) e procedimenti tipici dell'arte e della letteratura del primo Novecento, dal Cubismo al Futurismo e al Surrealismo, dalla poesia di T.S. Eliot al romanzo di J. Joyce. E nel segno del film possono essere interpretate varie fasi della s. letteraria novecentesca. Innanzi tutto va citata la grande stagione del romanzo statunitense tra le due guerre in cui, come ha dimostrato C.-E. Magny (1948) in uno studio che tra l'altro anticipa varie problematiche della moderna narratologia, la s. letteraria risulta ampiamente debitrice nei riguardi dei modelli filmici. C'è da ricordare poi, in tutt'altro contesto, la scuola francese del Nouveau roman degli anni Sessanta, che ha tra i suoi protagonisti Alain Robbe-Grillet, uno scrittore che è stato anche un lucido teorico (1963), non a caso fortemente attratto dal cinema in cui ha operato come sceneggiatore (L'année dernière à Marienbad, 1961, L'anno scorso a Marienbad, di Alain Resnais) e come regista di film che presentano affinità tematiche e stilistiche con la sua attività letteraria (L'immortelle, 1963, L'immortale; Trans-Europ-Express, 1967, Trans-Europ-Express ‒ A pelle nuda; L'homme qui ment, 1968, L'uomo che mente ecc.). Infine, va notato che in tutto il romanzo dell'ultimo quarto del Novecento e dei primi anni del nuovo millennio vi è una forte presenza del modello cinematografico. Ciò vale sia per opere che, pur appartenendo ad aree geografico-culturali diverse, vengono accomunate sotto la definizione di postmoderno (Ropars-Wuilleumier 1990), sia per autori come l'ultimo I. Calvino, il cui Palomar (1983) non solo privilegia l'aspetto puramente visivo della relazione soggetto-mondo, ma può essere visto in filigrana come una sorta di inventario degli strumenti ‒ tra i quali primeggia il cinema ‒ con i quali l'umanità ha affinato le sue capacità di scrutare e fissare la mutevole varietà dell'universo (Costa 1993, pp. 45-61). Contestualmente, si può registrare una vivace presenza di narrazioni basate su descrizioni di materiali che si trovano già allo stadio della rappresentazione cinematografica o comunque visiva: da Tripty-que (1973) di C. Simon a Cinéma (1999) di T. Viel. Difficile distinguere nettamente, in questi e in altri casi, tra romanzi che fanno proprie tematiche cinematografiche e romanzi la cui s. si rifà esplicitamente al modello della percezione filmica, soprattutto per quanto riguarda la definizione dei rapporti spaziali e il trattamento del tempo (J.-M. Clerc 1993). In effetti, è l'insieme della letteratura novecentesca ad aver introiettato modalità di visione che il cinema ha reso familiari e, nello stesso tempo, ad aver mutuato dal cinema tematiche fortemente connesse con un nuovo statuto del visibile e con le nuove configurazioni dell'immaginario collettivo. Sono infinite le suggestioni che lo stesso mondo del cinema ha fornito agli scrittori fin dalle origini della narrativa novecentesca, come dimostra egregiamente il romanzo di L. Pirandello Quaderni di Serafino Gubbio operatore (1925; originariamente apparso nel 1915 con il titolo Si gira), nel quale l'ambientazione nel mondo della produzione cinematografica non è meno importante dell'insistenza sull'atto meccanico del 'girare la manovella' che diventa la forma simbolica della relazione tra il protagonista e il mondo.
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