Restauro e conservazione
La disciplina del restauro cinematografico è un territorio dai confini incerti, ancora privo di regole codificate, di metodologie condivise, di luoghi di formazione in grado di creare nuove figure professionali capaci di agire in un settore che vive un'epoca di profonde trasformazioni. Anche il restauro delle opere figurative è un'esigenza nata solo in epoca moderna, nella seconda metà del 18° secolo. La tradizione del restauro delle arti maggiori solo in epoca recente ha individuato il senso del rapporto di studio, di ricerca e di conoscenza profonda dell'opera che ogni intervento conservativo impone. Fondamentale, in questo senso, la riflessione di Cesare Brandi, che ebbe modo di maturare nei lunghi anni della sua attività all'Istituto centrale del restauro (progettato con G.C. Argan nel 1938) e attraverso una serie di pubblicazioni che costituiscono un punto di riferimento per quanti lavorano nel settore. Il cinema ha certamente caratteristiche proprie, ma non è la prima arte seriale che necessita di interventi di restauro. Tante sono le opere d'arte seriali: i libri, le stampe, le incisioni, ma anche le statue in bronzo che da un modello unico consentono di trarre vari calchi. C'è quindi da attendersi che si faccia strada anche nel campo del restauro cinematografico un atteggiamento scientifico rigoroso e condiviso.
L'idea del restauro cinematografico è contraria a quanto il senso comune ha immaginato per lungo tempo sulla natura del cinema. Basta ripensare a quanto André Bazin, nume tutelare dei "Cahiers du cinéma" e della Nouvelle vague, ha dedicato all'ontologia cinematografica, laddove indica il cinema come punto d'arrivo dell'arte che, dai primi graffiti, passando per i sarcofagi egizi, vuole essere il rimedio alla morte, alla finitezza umana. Il cinema, secondo Bazin, risolve il desiderio dell'eternità congelando, per sempre, volti, attimi di vita, pensieri. L'intuizione ricca di fascino di Bazin ignora però due aspetti essenziali del film: la brevità della sua vita commerciale e la sua estrema caducità dal punto di vista chimico-fisico. Fin dalle origini della fotografia, uno scatto serviva a preservare un attimo, a renderlo duraturo nella memoria. Non c'era chi, scattando una fotografia, pensava che anch'essa avrebbe subito le ingiurie del tempo, perdendo i colori fino a trasfigurarsi e a richiedere, per poterla conservare e quindi osservare, un restauro. Il senso comune assegna alle immagini rubate alla realtà una vita eterna, nonostante l'erroneità di questa credenza sia nell'esperienza di tutti. Tale credenza è stata così forte da permeare per moltissimi anni le scelte e i comportamenti anche degli addetti ai lavori, cioè di quanti avrebbero dovuto preoccuparsi di assicurare ai film prodotti un'adeguata conservazione: gli organi competenti, gli studiosi, le cineteche. Anche nei Paesi più attenti alle politiche relative al patrimonio culturale, il riconoscimento che il passato del cinema fosse un bene da custodire non codificò affatto la necessità di dover intervenire per conservarlo, duplicarlo e restaurarlo.
I cinéphiles fondatori della Cinémathèque française guardavano già al passato del cinema e volevano intervenire in quello che si stava per fare. Henri Langlois e Georges Franju sono stati, nella loro attività cinetecaria, degli archivisti/critici, atteggiamento che hanno instillato nei giovani frequentatori della Cinémathèque: Jean-Luc Godard, François Truffaut, Eric Rohmer, i quali erano nella loro attività di critici già dei cineasti.Non è casuale che l'ossessione per la conservazione abbia colpito, nel corso degli anni Trenta, giovani intellettuali di diversa matrice in tutto il mondo. Ha giocato un ruolo fondamentale il meccanismo della nostalgia, intesa come sentimento del distacco e della perdita di un mondo che ha cessato di vivere. Langlois e Franju, ma anche negli stessi anni, a Milano, i fondatori della Cineteca italiana lottavano solitari, contro la scomparsa del mondo del cinema muto. Questa nostalgia, generata nei primi anni Trenta dalla fine del cinema muto, visse un secondo slancio immediatamente dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Come osserva lo studioso francese Pierre Nora (1997), il timore di perdere la memoria è stato un sentimento che ha ossessionato tutto l'Occidente dall'immediato dopoguerra. I regimi totalitari del 20° secolo hanno rivelato l'esistenza di un pericolo prima insospettato: quello della cancellazione della memoria.
La natura del cinema è diversa da quella delle altre arti e vede convivere in sé tre istanze che influenzano in maniera contraddittoria e determinante ogni intervento di restauro.
Il cinema come industria. - "S'intende per restauro ‒ ricorda Brandi (1977, p. 3) ‒ qualsiasi intervento volto a rimettere in efficienza un prodotto dell'attività umana. […] Ma allorché si tratti invece di opera d'arte, anche se tra le opere d'arte se ne trovano che posseggono strutturalmente uno scopo funzionale […], risulterà chiaramente che il ristabilimento della funzionalità, se pure rientra nell'intervento di restauro, non ne rappresenta in definitiva che un lato secondario o concomitante, mai quello primario e fondamentale che ha riguardo all'opera d'arte in quanto opera d'arte".
Per molti anni le majors, soprattutto statunitensi, hanno ripristinato il valore d'uso dei film in loro possesso. La Metro Goldwyn Mayer ha distribuito nelle sale di tutto il mondo, dagli anni Cinquanta ai Settanta, successive riedizioni di Gone with the wind (1939; Via col vento) di Victor Fleming. Ogni volta i negativi nitrati originali venivano duplicati con tecniche sempre più sofisticate, cercando di adattare i cromatismi originali ai gusti del pubblico contemporaneo. Nel corso degli anni, i rossi e i blu saturi del Technicolor sono stati sostituiti da tenui colori pastello. Erano pochissimi, tuttavia, i film oggetto di ristampe e riedizioni. Fino all'inizio degli anni Settanta un film, esaurita la distribuzione nelle sale, perdeva il suo potenziale economico. In seguito, grazie ai passaggi televisivi, poi ai diritti home video e ai diversi canali di sfruttamento, la vita commerciale di un film si è notevolmente allungata ed è divenuta potenzialmente infinita. Questo ha fatto sì che dopo decenni di quasi totale incuria gli aventi diritto abbiano iniziato a occuparsi della conservazione e del restauro di un film. Gli aventi diritto sono tutti coloro che vantano diritti di sfruttamento su un'opera cinematografica, per es. i primi produttori del film, ma non sempre, perché nel corso degli anni questi possono aver ceduto a terzi i diritti dell'opera da loro realizzata. Se un vecchio film viene presentato nelle sale, in videocassetta o in DVD in una versione annunciata come 'restaurata', il valore commerciale dell'operazione aumenta considerevolmente. Da alcuni decenni il restauro dei film è quindi realizzato, in percentuale sempre più significativa, da privati che investono denaro, per recuperarlo poi con le vendite nelle sale e nell'home video. Sempre più spesso i restauri degli aventi diritto sono realizzati con criteri di serietà, approfittando dei migliori materiali a disposizione e di rilevanti mezzi economici, anche se non mancano i casi meno felici, in cui interventi, presentati con grande rilievo sui media e nelle manifestazioni internazionali, nascondono pesanti alterazioni dell'opera (frequenti sono soprattutto le modifiche del mascherino, dei colori originali, del suono dell'epoca).
Il cinema come arte. - Se il cinema sia arte o industria, è discussione che si protrae dalle origini del cinema. Ci sono voluti molti decenni e infiniti sforzi per far accettare l'idea che un film sia un bene culturale. L'autorevolezza della critica, della storiografia, degli autori del cinema francese, la forza con cui anche quello Stato ha sostenuto il proprio cinema, hanno giocato certamente un ruolo determinante in questa battaglia. John Dewey (Art as experience, 1934, trad.; it. Arte come esperienza, 1951, p. 130) ha osservato come un'opera d'arte è ricreata ogni volta che viene sperimentata esteticamente, altrimenti rimane materia inerte, un quadro nel magazzino di un museo, la scatola che contiene un film in una cineteca. Il restauro è quindi da intendere come un momento essenziale per la vita di un'opera, cui è unito da un legame inscindibile. Nello stesso tempo è il fatto che si lavori su un'opera d'arte a qualificare il restauro; anzi, come ricorda Brandi, l'opera d'arte condiziona il restauro e non già l'opposto. Purtroppo nei pochi decenni che costituiscono la storia del restauro non è sempre stato così. Spesso anche le istituzioni cinetecarie, per realizzare un restauro hanno compromesso, intervenendo sulle matrici, l'integrità di un'opera filmica. Fino agli anni Ottanta era prassi comune distruggere i nitrati una volta duplicati. Di molti grandi capolavori sono così state distrutte le matrici originarie che avrebbero consentito in seguito di ottenere duplicati di qualità migliore.
Il cinema come documento. - Secondo P. Nora, dal momento che il passato vi ha lasciato le proprie tracce ogni oggetto può divenire oggetto di valore. Negli ultimi trent'anni l'idea di patrimonio si è andata fortemente modificando, i suoi confini non sono più così stabili, ma tendono ad allargarsi fino a comprendere tutto ciò che è stato prodotto. Negli anni Settanta pochi critici avrebbero ammesso i film interpretati da Totò tra le opere da restaurare, mentre trent'anni dopo un numero altrettanto esiguo avrebbe osato non farlo. Il criterio del canone sembra ormai sempre meno difendibile: difficile cioè affermare quali siano le opere di riferimento riconosciute dalla storia.
Per sua stessa natura il cinema è documentario, cattura brandelli di realtà, attimi che raccontano meglio di qualsiasi altra descrizione il clima, il gusto, il sapore di un'epoca, di un luogo. Guerre, distruzioni, trasformazioni del Novecento sono raccontate con ricchezza di dettagli dal patrimonio cinematografico. Come dichiarava Jacques Ledoux, per trent'anni conservatore della Cinémathèque de Belgique (1960-1988), ogni film deve essere conservato, secondo un principio di non selezione per il quale tutto, prima o poi, può risultare interessante. È bene ricordare che una delle prime cineteche nacque dall'intuizione di Albert Khan, banchiere che, divenuto miliardario, decise di filmare la vita dei popoli del mondo, creando uno dei primi archivi cinematografici, gli Archives de la Planète, 140 chilometri di pellicola, memoria del mondo dal 1910 (v. cineteca).
Risultano di notevole complessità le questioni relative al tempo del film e al tempo del restauro: analisi necessaria per un'arte come quella cinematografica nella quale, grazie ai nuovi media e alle nuove tecnologie, lo spettatore può concedersi (o subire) un consumo simultaneo e quotidiano di film appartenenti a epoche diverse, producendo sulle opere uno schiacciamento temporale che non ha precedenti nel consumo d'arte.
Esistono diversi tempi per un film. C'è il tempo della produzione, quasi sempre precisamente collocato in una certa epoca. C'è il tempo del film, che vive invece una perenne attualità e che può subire molte modifiche; c'è il tempo della visione, che è sempre al presente; c'è il tempo della tecnica, che modifica le sue tecnologie, e c'è infine il tempo del restauro, che si realizza in un determinato momento e che spesso deve fare i conti con le possibilità limitate della riproduzione.
Il tempo della produzione. - Nel 1914 Charlie Chaplin, all'inizio della sua carriera, realizzava con la Keystone Film Company una comica di una o due bobine ogni settimana; dopo il 1930 il tempo medio di produzione di un suo film andava dai cinque ai sette anni. In ventotto anni, dal 1971 al 1999, Stanley Kubrick realizzò cinque film. Il tempo di produzione spesso non può dirsi concluso con la prima presentazione pubblica. Chaplin, per es., dagli anni Cinquanta intervenne su molti suoi film muti per 'attualizzarne' la fruizione, modificando il montaggio e le didascalie, e scrivendo nuovi accompagnamenti musicali per film che aveva realizzato trenta o più anni prima. David W. Griffith non terminò mai di rimontare Intolerance (1916). Gli esempi di autori che modificano ‒ o vorrebbero farlo ‒ il montaggio di un proprio film sono davvero infiniti e arrivano sino a Steven Spielberg o a Ridley Scott.
Il tempo del film. - Un'opera cinematografica può avere diversi percorsi possibili. Un film viene concepito e realizzato; ma se insorgono problemi tra cineasta e produttore ne possono essere montate due differenti versioni (buona parte dell'opera di Eric von Stroheim o di Orson Welles ha subito questa sorte). È possibile anche che un autore decida di reintervenire su un film dopo la prima presentazione: la versione di un film presentato a un festival spesso è diversa da quella che poi uscirà nelle sale. Federico Fellini per es., sotto la pressione del produttore Goffredo Lombardo ridusse Il bidone (1955) di venti minuti dopo la presentazione alla Mostra del cinema di Venezia, e, per motivi ancora non chiariti, sostituì l'ultima sequenza di 8 1/2 (1963). Nel caso in cui del film esista una sola edizione, questa viene presentata alla Commissione di censura per ottenere il 'nulla osta'. Qui una percentuale abbastanza rilevante delle opere subisce qualche intervento: il taglio di alcune immagini, la soppressione di varie sequenze, l'eliminazione di interi episodi. Se il film supera anche questa barriera, dovrà fare i conti con la distribuzione, che potrà anche essere internazionale e che per ogni Paese dovrà prevedere singoli passaggi censori. In un'opera prodotta all'epoca del muto, le versioni nazionali differivano per le diverse didascalie e spesso anche per l'ordine delle inquadrature. Con l'avvento del sonoro, in alcuni Paesi si è instaurata la pratica di sostituire le voci degli attori al doppiaggio; in altri, sotto l'immagine compaiono i sottotitoli. Dopo un primo sfruttamento in sala poi un film può avere un'uscita televisiva e successive riedizioni, subendo ulteriori modifiche.Vi sono poi anche questioni di carattere tecnico. Nel periodo del cinema muto esistevano vari negativi dello stesso film, con scene girate da macchine da presa diverse; inoltre tutte le copie positive, anche quelle stampate dallo stesso laboratorio, avevano colori e qualità fotografiche differenti. Con l'avvento dello home video e dei DVD il numero di versioni in cui lo stesso film circola è ancora aumentato, senza nessuna garanzia per l'integrità dell'opera e per quello che l'utente sta per acquistare. Si può affermare quindi che di ogni film esistono diverse versioni.
Il tempo della visione. - È un tempo presente: per lo spettatore l'opera vive nel momento della proiezione anche se, sempre più, il consumo di cinema del passato avviene all'interno di tentativi di storicizzazione che modificano la percezione temporale dello spettacolo cinematografico. Inoltre le possibilità fornite dagli home video ‒ e ancor più dal DVD ‒ di spezzare l'unità della visione, saltando da una scena all'altra, modificano profondamente l'unità del film.
Il tempo della tecnica. - Nel suo sviluppo l'industria cinematografica ha modificato tutti i materiali, tutte le tecnologie. Molti film sono stati pensati per una tecnologia poi obsoleta. Una parte dei prodotti degli anni Cinquanta sono stati distribuiti in duplice versione, una stereofonica e una mono, o una in 3D e una normale. Si pensi per es. a Dial M for murder (1954; Il delitto perfetto) di Alfred Hitchcock, in cui l'uso della profondità di campo è momento essenziale della messinscena: questo film è noto ormai soltanto nella versione a due dimensioni. Ogni volta che una certa tecnologia viene abbandonata tutti i film girati con quel sistema devono essere duplicati in un altro sistema, che naturalmente permetterà di salvarli ma non potrà conservare integralmente qualità né difetti del sistema precedente. Per es. dopo la chiusura, nel 1978, dell'ultimo stabilimento che utilizzava il Technicolor, i colori di quello straordinario sistema sono irrimediabilmente perduti.
Il tempo del restauro. - Il tempo influisce sull'azione del restauratore: si modificano le tecnologie a sua disposizione ‒ la frontiera del digitale è aperta ed è enormemente utilizzata per il restauro del suono e ancora in via sperimentale per quello dell'immagine ‒ ma come ricorda N. Mazzanti (2001, p. 65) "si lavora sempre e comunque con materiali inadatti. Allo stato attuale della tecnologia e della tecnica, non esistono strumenti (pellicole, materiale da duplicazione, bagni di sviluppo, procedimenti di duplicazione, ecc.) concepiti per il restauro. L'industria cinematografica, e di conseguenza le società produttrici di materiale sensibile, non sente il restauro come una necessità; l'attività di duplicazione di un negativo originale o di un positivo, è presa in considerazione solo ed esclusivamente per materiali recenti. In termini produttivi, la duplicazione è (ed è sempre stata) finalizzata esclusivamente alla produzione di duplicati negativi destinati a permettere la stampa di un elevato numero di copie positive nel minor tempo possibile al fine di saturare il mercato: mai, a nessuna condizione, la conservazione a lungo termine rientra fra le finalità immediate". Ne consegue che nessun restauro potrà mai essere neutro ma tradirà sempre l'epoca in cui è stato realizzato.
"Il restauro ‒ insegna Brandi (1977, p. 26) ‒ per rappresentare un'operazione legittima, non dovrà presumere né il tempo come reversibile, né l'abolizione della storia. L'azione di restauro per la medesima esigenza che impone il rispetto della complessa storicità che compete all'opera d'arte, non dovrà porsi come segreta e quasi fuori dal tempo, ma dare modo di essere puntualizzata come evento storico quale essa è, per il fatto di essere azione umana, e di inserirsi nel processo di trasmissione dell'opera d'arte al futuro".
Quindi, in primo luogo dovrà essere identificata la versione del film che si vuole restaurare, si dovranno raccogliere su di essa tutti gli elementi, filmici ed extra- filmici, e successivamente si dovranno dare allo spettatore tutte le informazioni che consentano di comprendere l'intervento che è stato compiuto.
Le cineteche costituiscono un universo eterogeneo di archivi che si possono identificare con l'unica associazione internazionale, la FIAF (Fédération Internationale des Archives du Film), che ai primi del Duemila conta più di 120 aderenti in rappresentanza di 65 Paesi. Tra queste cineteche molte sono le differenze, le finalità, le strutture, i finanziamenti.
Nei due livelli di adesione alla FIAF (membri a pieno titolo e associati), archivi che consacrano larga parte del loro bilancio alla conservazione e al restauro del patrimonio convivono con istituti che si dedicano quasi esclusivamente alla diffusione della cultura cinematografica, come pure con i musei e le biblioteche specializzati. Se si aggregano gli oltre 120 archivi in gruppi omogenei si possono identificare quattro sottoinsiemi. I grandi archivi nazionali, che espletano in modo esclusivo un'attività di conservazione e restauro: tutti i grandi Paesi occidentali e tutti i Paesi dell'ex area socialista hanno archivi di questo tipo, diversi per la dimensione della collezione, la rilevanza del bilancio, il numero degli impiegati, la data d'entrata nella FIAF, ma identici per finalità e struttura. In generale, tutti i grandi archivi nazionali di questo tipo soffrono delle stesse limitazioni. La profonda separazione tra l'attività di conservazione e quella di presentazione fa mancare a queste strutture, spesso elefantiache e afflitte da una pesante burocratizzazione, il confronto con il pubblico di una sala cinematografica. Tutta l'attività di questi archivi rischia di compiersi al loro interno. Un film viene scelto e restaurato non per essere mostrato, non per confrontarsi con un dato pubblico, ma per essere conservato. Se qualche programmatore esterno lo sceglierà il film restaurato verrà mostrato, ma ciò esula completamente dall'attività dell'archivio, che dunque lavora per un futuro astratto. Questa logica, che per molti versi appare mostruosa, ha nel campo del restauro un'implicazione molto grave: rende queste strutture impermeabili agli stimoli che vengono dal confronto con il lavoro degli altri archivi, con il risultato che le competenze del personale di questi istituti restano seriamente penalizzate, problema molto serio in un settore giovane come quello del restauro che sta vivendo anni di grande trasformazione tecnologica e metodologica. Per tutti questi archivi, comunque, la parte più rilevante del bilancio è dedicata alla conservazione più che al restauro. La vastità delle collezioni impone enormi investimenti nella costruzione di depositi climatizzati e nel lavoro di movimentazione, catalogazione, gestione degli elementi filmici. Normalmente questi archivi dispongono di un laboratorio interno equipaggiato per la duplicazione analogica; affidano però la gran parte degli interventi di restauro a laboratori privati esterni. Il personale addetto al controllo della qualità verifica sia le duplicazioni e i restauri compiuti internamente sia quelli esterni, rinviando ai laboratori i risultati giudicati insoddisfacenti.Secondo sottoinsieme sono quegli archivi (cineteche e filmmuseum) che affiancano all'attività di conservazione del cinema (attività che non riguarda i soli film, ma anche fotografie, affissi, libri, riviste) un'attività stabile di presentazione, curando la programmazione di almeno una sala che è solitamente di loro proprietà. Questi archivi, anche quando non dipendono direttamente dalle strutture di Stato, come nel caso della Cinémathèque française, ne ricevono comunque finanziamenti rilevanti. Le loro collezioni comprendono film nazionali e stranieri, quindi la loro attività di restauro non guarda solo al patrimonio nazionale ma dà priorità alle necessità della collezione. Queste cineteche possono avere laboratori interni, come la Cinémathèque de Belgique, ma per lo più realizzano gli interventi di duplicazione e restauro presso laboratori privati i quali collaborano strettamente per ottenere miglioramenti qualitativi, realizzando così una dialettica cliente-fornitore ricca e complessa. Per es. la collaborazione tra Nederlands Filmmuseum, l'Archivio di Stato olandese, e il laboratorio privato Haghefilm ha consentito negli anni Ottanta e Novanta di ottenere risultati così interessanti da influenzare l'attività di restauro di molti altri archivi.Esistono poi, e sono in forte crescita, gli archivi locali che, a fianco di un'attività di presentazione, si occupano anche della conservazione del patrimonio di una comunità regionale o locale. Negli ultimi decenni del Novecento sono nati archivi baschi, catalani, corsi, sardi, scozzesi, gallesi, valloni, macedoni. Queste istituzioni sono una sorta di archivi di Stato in miniatura. La quarta categoria è composta dai musei e dalle collezioni non film. Per molti dei soci fondatori della FIAF era già chiaro che lo scopo di una cineteca doveva essere quello di conservare la memoria del cinema: non soltanto le pellicole quindi, ma anche tutto quel sistema di supporti cartacei e tecnologici che precede, segue e accompagna la realizzazione di un film. Sceneggiature, diari di lavorazione, fotografie, manifesti, bozzetti, brochures, riviste, libri, costumi, scenografie, macchinari degli studi e dei cinematografi, vengono così conservati negli appositi dipartimenti di molti archivi. La rilevanza di questi giacimenti ha talvolta dato a questi fondi la statura di istituti autonomi. È il caso, per esempio, della BiFi, la grande biblioteca francese voluta dal ministro della Cultura J. Lang che ha unito i principali fondi e patrimoni cinematografici cartacei parigini, ma anche dell'archivio dell'Academy Awards a Beverly Hills, che raccoglie i fondi cartacei dell'Academy of Motion Picture Artsand Sciences che assegna annualmente i premi Oscar.Discorso a parte meritano i musei che collezionano ed espongono gli apparati tecnologici, come per es., il Museo nazionale del cinema di Torino (v. museo) che vanta, probabilmente, la più grande collezione precinematografica esistente.
Al di fuori della FIAF esistono infine due grandi categorie di archivi per le immagini in movimento: gli archivi televisivi e gli archivi degli aventi diritto. I primi hanno spesso notevoli collezioni di film e, soprattutto dagli anni Settanta, sono divenuti produttori di una quota rilevante del cinema di qualità, specialmente in Europa. Si pensi in particolare al ruolo che negli anni Novanta ha assunto la francese Canal Plus nello sviluppo del cinema di qualità europeo. I secondi sono presenti in Europa e negli Stati Uniti e a partire dagli anni Novanta hanno iniziato, con diversa intensità, a realizzare in forma autonoma progetti di restauro. Dalla Gaumont all'Istituto Luce, dalla Murnau Stiftung alla Sony Columbia Picture, ormai tutti gli archivi che gestiscono diritti di sfruttamento hanno al loro interno dipartimenti che si occupano specificatamente del restauro. Figure importanti ma abbastanza isolate nella loro unicità sono quelle della Lobster Film, piccola e dinamica compagnia privata francese che grazie alle vendite alle televisioni ogni anno riesce a restaurare un certo numero di film soprattutto muti, e della Film Foundation che, sotto la prestigiosa direzione di Martin Scorsese, ha riunito alcuni dei più noti registi americani per salvare i film che più di altri rischiavano di andare perduti. Scorsese, che è anche uno dei maggiori collezio-nisti di film statunitensi, ha restituito a nuova vita film che amava e le cui condizioni preoccupavano i cinefili. In particolare si segnalano i restauri di Johnny Guitar (1954) di Nicholas Ray e di Pursued (1947; Notte senza fine) di Raoul Walsh, grazie ai quali è stato possibile rivedere nelle sale cinematografiche di tutto il mondo due film ormai relegati alla sola fruizione televisiva.
Tra la fine del Novecento e gli inizi del Duemila si sono affacciate al restauro anche alcune televisioni europee, tra cui l'inglese Thames Television, che ha aperto una lunga e purtroppo conclusa collaborazione con Kevin Brownlow e David Gill. Il lavoro dei due storici ha permesso ai cinefili di gran parte del mondo di rivedere dei classici del cinema muto in versioni sfavillanti. Nel panorama televisivo europeo un ruolo di primo piano per la diffusione di tale cinema attraverso versioni accuratamente restaurate è stato assunto dal canale franco-tedesco Arte, che ogni mese programma in seconda serata un film muto restaurato e accompagnato da musiche composte per l'occasione. Sono poi apparsi nuovi attori nel settore del restauro: gli editori di DVD, che svolgono una funzione assai importante rendendo disponibili a un ampio pubblico classici della storia del cinema nelle versioni originali. Molte edizioni DVD statunitensi si distinguono per l'eccellenza del prodotto (dalla qualità dell'immagine al packaging, dal sonoro ai bonus track ecc.) e stimolano l'esigenza del pubblico contemporaneo rispetto alla fruizione del cinema del passato. Grazie al lavoro di Criterion, Ripley's Home Video, Kino International, nessun cinefilo accetterebbe ormai di considerare le vecchie copie 16 mm come fonte d'accesso privilegiata o unica ai film della storia del cinema (cosa che inevitabilmente accadeva fino agli anni Ottanta). È bene ricordare che le televisioni e gli editori di DVD, come buona parte degli aventi diritto, non fanno il lavoro di preservazione, cioè di norma non si occupano, come invece fanno le cineteche, di investire danaro nello stabilire, per ogni film, nuove matrici in 35 mm destinate alla conservazione nel tempo. Quel che si realizza è un master digitale sul quale si eseguono tutte le lavorazioni: ciò significa che il futuro non è assicurato, perché il supporto che assicura al film una maggiore durata nel tempo e soprattutto una continuità con i materiali originali è fino ai primi anni del Duemila la pellicola 35 mm. C'è un altro elemento introdotto da televisioni ed editori DVD: l'esigenza di una qualità dell'immagine che rispetti gli standard televisivi. Chi si occupa di messa in onda televisiva è convinto che il pubblico non accetti i segni del tempo presenti in un film. Quindi ogni traccia di decadimento (righe, spuntinature, cali di definizione nell'immagine e/o nel sonoro) deve essere ripulita e corretta, in vista di un'immagine omogenea e perfetta che elimini il tempo dal film. Questa filosofia della pulizia dell'immagine rischia di imporre uno standard anche al restauro delle cineteche le quali, se vogliono coprire una parte dei loro costi, non possono prescindere dal passaggio televisivo dei loro restauri. D'altra parte è evidente che l'integrità estetica dei film del passato implichi caratteristiche tecnologiche diverse da quelle dello standard moderno. Non c'è alcun dubbio che la fragile presa diretta di alcuni film neorealisti, che non potevano essere doppiati perché non erano in funzione gli studi di doppiaggio fermati dal conflitto mondiale, sia ancora un elemento essenziale per la veridicità di quei film.
Non esistono leggi internazionali che obblighino al deposito i produttori, mentre quelle esistenti riguardano solo alcuni Paesi, non sono retroattive e normalmente si limitano a prescrivere il deposito di una copia positiva. I film hanno una vita commerciale potenzialmente infinita soltanto da pochi anni, ma per oltre settant'anni della conservazione delle opere e del futuro del cinema si sono occupate quasi esclusivamente le cineteche. Ogni volta che si mostra un film, se ne accelera la morte. Ogni proiezione incide il suo corpo modificandolo. Lo spettacolo che è la vita di quest'arte ne determina anche la dissoluzione. Quante volte i responsabili di un archivio si sono chiesti se fosse opportuno mostrare una copia unica con il rischio di danneggiarla, e non piuttosto conservarla chiusa in una scatola fino al momento in cui si rendessero disponibili i mezzi per restaurarla; restando consci che, comunque, anche conservandola al meglio, il decadimento della pellicola sarebbe avanzato. Le cause della distruzione possono essere individuate in dettaglio.
Proiezioni. - L'invenzione dei Lumière prevede un momento di grande fragilità meccanica, la proiezione. È il momento nel quale si possono accumulare sulla pellicola sporcizia e grasso, che aumentano e approfondiscono le righe su supporto ed emulsione. Le perforazioni possono essere forzate fino a rendere improiettabile la copia ormai piena di tagli e fratture, quindi di riparazioni che a loro volta aumentano il rischio di rotture e la perdita di fotogrammi. Il numero dei passaggi che una copia positiva può sopportare è quindi limitato.
Decadimento chimico e fisico. - Tale decadimento incide in primo luogo sui supporti. Il nitrato di cellulosa, supporto sul quale è stato ripreso gran parte del cinema prodotto da Thomas A. Edison fino al 1951, è un materiale di grande instabilità: il suo decadimento inizia nel momento in cui viene prodotto. Già nell'epoca del muto ci si accorse dei problemi che il supporto nitrato determinava. Tutti i laboratori dovevano fare i conti, già negli anni Dieci, con questo materiale che, cedendo umidità, tende a restringersi e a perdere il suo passo originale. Il suo decadimento è inarrestabile: lo si può rallentare ma non fermare. Prima o poi tutto il cinema in nitrato si trasformerà in una polvere giallastra altamente infiammabile. La storia del cinema è costellata di incendi che hanno distrutto centinaia di migliaia di bobine. Dall'incendio al Bazar de la Charité nel maggio del 1896, nel quale perirono centoquaranta persone, al fuoco del 1980 di Pontel, durante il quale andarono perdute 200.000 scatole raccolte da Henri Langlois. Tra questi due episodi esistono decine di altri incendi di laboratori e archivi: da Roma (l'ultimo incendio alla Cineteca nazionale nel 1985) a San Paolo del Brasile (i depositi della Cinemateca bruciarono in due occasioni, nel 1957 e nel 1969, distruggendo il 40% del materiale conservato). Da Buenos Aires (i depositi di quasi tutti i laboratori argentini sono stati colpiti dalle fiamme) a Stoccolma (1941, devastati i depositi della Svensk Filmindustri). Da Tokyo (1984, Japan Film Center, 300 titoli) a Città del Messico (1982, centinaia di film conservati dalla Cineteca Nacional). Nel 1951 i principali produttori di pellicola cinematografica immisero sul mercato il supporto triacetato, la cosiddetta pellicola di sicurezza perché non è infiammabile ed è, secondo i suoi produttori, stabile. Dopo una trentina d'anni, nei depositi di tutto il mondo iniziò a presentarsi un nuovo pericolo, la Vinegar syndrome: il triacetato decade per la perdita di un suo componente, l'acido acetico. Molti film, anche recenti e importanti, sono stati già attaccati dalla terribile sindrome. In secondo luogo il decadimento attacca il colore. Il cinema ha avuto molti sistemi 'a colori' fin dalle sue origini. Tutti i sistemi di ripresa utilizzati fino al 1952 avevano una forte stabilità dei coloranti. Il sistema Eastmancolor immesso sul mercato in quell'anno sostituì, grazie alla sua estrema semplicità d'utilizzo, tutti i precedenti. Dal 1982, per merito della campagna promossa da Scorsese, si rese evidente quello che da anni era sotto gli occhi di tutti: il sistema Eastmancolor è soggetto a un forte decadimento che trasforma le copie positive in monocromi rossi. Il problema è meno drammatico sui materiali negativi, dotati di copulanti più stabili, che però, in misura diversa a seconda di come sono stati lavorati e conservati, perdono i colori originali. La memoria ricorda con particolare forza e precisione i colori. Quando si vede un film con Marilyn Monroe, la diva del Technicolor, in cui i colori sono pallidi e non hanno più la saturazione squillante degli anni Cinquanta, si tende a fare il confronto con quello che si ricorda o si crede di ricordare. Questa interpretazione, questo 'confronto naturale', non avviene sempre con le immagini. È infatti più difficilmente si realizza quando si vede la versione di un film in cui mancano intere sequenze, esperienza cui la televisione italiana (RAI e Mediaset incluse) sottopone continuamente il pubblico senza che gli organismi competenti sentano il dovere di impedirlo.
Nel momento in cui un film non viene più distribuito nelle sale, esso perde il suo interesse produttivo e scompare in quanto film, pellicola cinematografica, iniziando la sua nuova vita, televisiva, magnetica, digitale. Non esistono, come già detto, all'infuori del deposito legale (non presente in tutti i Paesi), leggi internazionali che obblighino i produttori a depositare i loro film in un archivio. Tutto dipende dalle leggi emanate dai singoli Stati. La situazione globale pare piuttosto sconfortante, basata più su accordi locali tra un archivio e un avente diritto che su vere politiche nazionali rivolte alla salvaguardia del patrimonio cinematografico.
L'opera di un maestro della letteratura si può facilmente trovare in una libreria o in una biblioteca; molto più difficile è vedere le opere di Abel Gance o di Ernst Lubitsch, di John Ford o di King Vidor: se ci si accontenta delle videocassette e dei DVD se ne possono trovare solo alcune. Se si ha la fortuna di imbattersi in una rassegna organizzata con attenzione si può scoprire che una parte delle loro opere è andata perduta, che di quelle sopravvissute alcune sono reperibili solo in versioni 16 mm o comunque lontane dallo splendore originale, che alcuni materiali sono nelle mani di aventi diritto che non concederanno mai la loro copia per una proiezione in una sala. Il patrimonio cinematografico appare così un continente inaccessibile, che, lentamente, si sta staccando dai suoi spettatori.
Le ere della distruzione. - Se si cerca di suddividere la storia del cinema in ere che corrispondano alle diverse epoche della distruzione del suo patrimonio non si può non fare riferimento al lavoro di R. Borde il quale, per primo, ha raccolto nel suo Les cinémathèques (1983) il lavoro di anni, intuendo le ragioni e i tempi delle perdite. È possibile aggiornare questo lavoro essenziale grazie a studi più recenti, dai quali emergono cinque periodi ben distinti.
Le origini. Di questo periodo, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, si conserva una parte molto rilevante ed esemplificativa. In particolare la politica avviata dalla fine degli anni Ottanta in Francia ha permesso, grazie all'attività degli archivi francesi, il quasi completo restauro delle opere conservate. Perfino di un autore maledetto come Georges Méliès (attivo nel periodo tra il 1896 e il 1912), costretto, nel 1923, per mancanza di mezzi, a distruggere i negativi di parte dei suoi film, è sopravvissuto oltre il 30% delle opere.Dal 1900 al 1913. È l'era delle grandi perdite. In termini mondiali si calcola che il 75% del patrimonio sia andato perduto. Il panorama risulta però molto frastagliato e diverso da Paese a Paese e soprattutto tra una casa di produzione e l'altra. Sopravvive una quantità rilevante dei cataloghi delle grandi case che distribuivano i loro titoli in tutto il mondo: film della Gaumont, della Pathé Frères, della Cines e della Vitagraph, e in percentuale più ridotta della Ambrosio Film e dell'Eclair, dell'Itala Film e della Messter, della Nordisk e della American Biograph sono conservati in tutti gli archivi del mondo. Se è possibile avere un'idea più chiara sulla produzione di quegli anni, è grazie al fatto che sono sopravvissute collezioni raccolte nell'epoca del muto in Paesi geograficamente lontani tra loro. Su tutte, la collezione Desmet, che prende nome dal distributore ed esercente olandese che la raccolse e i cui eredi la donarono nel 1959 al Nederlands Filmmuseum. Una collezione ricchissima, contenente le migliori produzioni francesi, tedesche, danesi, americane e italiane realizzate tra il 1910 e il 1916; la collezione consta altresì di fotografie, manifesti, pubblicazioni, programmi e, soprattutto, lettere che permettono di ricostruire globalmente l'attività di quel distributore.
Dal 1913 all'introduzione del sonoro. - Le perdite di questo periodo si calcolano in una misura attorno al 65%. L'avvento del lungometraggio ridusse la quantità di titoli realizzati e costrinse la struttura produttiva cinematografica a darsi un impianto industriale. Apparvero sul mercato, conquistandolo rapidamente, le majors statunitensi sopravvissute fino i nostri tempi, conservando buona parte di ciò che hanno prodotto. Tuttavia la prima linea delle perdite è occupata anche da nomi eccellenti: film di Fritz Lang, Ernst Lubitsch, Friedrich W. Murnau, Paul Leni, Joe May, Mario Camerini, Alessandro Blasetti, Louis Delluc, Germaine Dulac, Jacques Feyder, Julien Duvivier, Jean Epstein, Abel Gance, Mauritz Stiller, Victor Sjöstrom, Benjamin Christensen, Alfred Hitchcok, David W. Griffith, Josef von Sternberg, Erick von Stroheim.Dal 1930 al 1950.
Le perdite di questi decenni si riducono drasticamente: attorno al 20% dal 1930 al 1939, al 10% tra il 1940 e il 1949. - La creazione delle cineteche a partire dalla metà degli anni Trenta limitò il numero delle distruzioni. Del pari, il formarsi di una coscienza della validità artistica del cinema, una questione prima dibattuta solo in cerchie elitarie ma divenuta poi patrimonio di sempre più vaste proporzioni, ha fatto sì che soltanto in casi dovuti a fattori esterni, avvenimenti bellici in primo luogo, ma talvolta anche alle difficili condizioni di conservazione, si avessero a lamentare perdite considerevoli di film. A parte la perdita di una lunga lista di film realizzati in Inghilterra tra il 1931 e il 1936 da Michael Powell ed Emeric Pressburger, motivi bellici sono alla base della distruzione dei film realizzati durante la guerra civile spagnola, come pure negli ultimi anni del fascismo italiano e nel periodo di Vichy in Francia, mentre la debolezza chimico-fisica della pellicola e i già citati, spaventosi incendi che hanno devastato molti archivi e laboratori pubblici e privati hanno causato ulteriori erosioni del patrimonio filmico. In sostanza però sono soprattutto i film realizzati da piccole produzioni indipendenti quelli che rischiano più di ogni altro la scomparsa.
Dal 1952 al 2004. - Con l'avvento della televisione si è modificata la vita commerciale dei film. Ormai pochi produttori distruggerebbero un loro negativo o smarrirebbero tutte le copie di un film di cui sono proprietari. Eppure i rischi di perdite restano ancora gravi. Dall'avvento del sonoro in poi, dai primi Vitaphone l'industria cinematografica ha subito tali e tante trasformazioni tecniche da cancellare dal mercato decine di invenzioni.
Un discorso a parte meritano due grandi produzioni nazionali, quella giapponese e quella indiana, che hanno perduto quasi tutta la loro attività fino alla Seconda guerra mondiale: soltanto il 5% della produzione pare essere sopravvissuto.
Per operare il restauro di un film, una delle prime azioni che occorre intraprendere è una ricerca accurata e ad ampio raggio dei migliori materiali: il cinema è stato immediatamente un'arte internazionale, la migliore copia sopravvissuta di un'opera potrebbe anche trovarsi molto lontano da dove il film è stato prodotto. Molti film muti italiani, considerati perduti, sono stati ritrovati in Brasile, dove esisteva una grande comunità italiana che amava vedere i film prodotti in patria. Le copie migliori di molti classici del muto sono state ritrovate a Montevideo, dove un poeta amava raccogliere il meglio di quanto veniva prodotto in Europa. La copia più completa della prima comica di Chaplin è stata ritrovata a Belgrado. Spesso poi si può trovare un elemento parziale che contiene informazioni o qualità mancanti al materiale noto: una scena censurata, un montaggio diverso, un migliore stato del sonoro o del colore.
Queste ricerche possono durare anni, anche perché i cataloghi delle cineteche e degli aventi diritto sono molto incompleti (quasi nessuno ha catalogato tutto quello che conserva) e contengono descrizioni imprecise, poche informazioni e così vaghe da non far capire la ricchezza del materiale conservato. Il modo migliore per conoscere un materiale diviene così quello di andarlo a vedere o di farselo spedire, con un aumento dei costi e un allungamento dei tempi.
Il problema è sempre quello finanziario. Il costo del restauro di un lungometraggio varia dai 15.000 ai 75.000 euro: una cifra ben alta, sia per le istituzioni pubbliche sia per quelle private, che devono quindi scegliere alcuni titoli tra le loro vastissime collezioni.
I criteri in base ai quali un archivio sceglie un film da restaurare variano a seconda della tipologia dell'istituzione: un archivio regionale restaurerà un film appartenente al suo patrimonio, un archivio privato cercherà il film che può assicurare i maggiori proventi. Da molto tempo le cineteche aderenti alla FIAF cercano di trovare dei principi comuni che regolino a livello mondiale la selezione dei titoli da restaurare. L'unico criterio largamente diffuso e abbastanza riconosciuto a livello internazionale, è che ogni archivio debba restaurare i film del proprio Paese. Questo ha consentito di concentrare gli sforzi, ma non di risolvere alcune questioni che rendono problematica una divisione così semplicistica del lavoro di restauro: gli archivi accumulano collezioni che hanno una loro logica interna, e quindi se al fondo di un dato archivio appartengono film di nazionalità diversa da quella dell'archivio stesso, e dunque già conservati in altri Paesi, è in ogni caso sensato e opportuno restaurarli per poter poi studiare la collezione nella sua integrità. Inoltre, non va dimenticato che spesso due copie dello stesso film sono profondamente diverse tra loro. Il principio che una collezione debba essere ristampata e studiata nella sua integrità transnazionale è comunque ormai quasi unanimemente accolto. Soltanto gli archivi di Stato, anche per ragioni dettate dalle politiche e dai regolamenti degli organi di competenza, continuano a restaurare unicamente film nazionali, ma questo principio viene sempre più spesso superato.
Oltre la nazionalità, altri criteri. - Aumentando le collezioni conservate e la quantità di film da duplicare, gli archivi hanno tentato di trovare una serie di principi oggettivi che consentissero di stabilire, automaticamente, delle priorità di restauro. Due criteri, a fianco delle priorità nazionali, hanno finito per assumere un rilievo particolare: lo stato di conservazione e l'unicità dei materiali. Un film che si sta decomponendo e che probabilmente è una copia unica deve essere ristampato immediatamente; se l'archivio che lo detiene non è in grado di farlo, può lanciare un appello ad altre cineteche aderenti alla FIAF.
Altri criteri hanno piuttosto origini storico-estetiche. La celebrità di un titolo, il fatto di essere riconosciuto come un classico della storia del cinema, rendono più probabile il suo restauro. All'opposto un film non identificato, di cui non si conosca nemmeno l'autore, raramente diviene oggetto di ristampa. I programmi di compilazione (bits and pieces) realizzati dal Nederlands Filmmuseum hanno segnato un momento di rottura importante rispetto a questo atteggiamento, dimostrando il valore estetico che anche i film non identificati e i frammenti possono avere. Un ruolo decisivo nel modificare le priorità di restauro degli archivi l'hanno giocato anche i festival specializzati come 'Le giornate del cinema muto' di Pordenone e 'Il cinema ritrovato' di Bologna (v. festival). L'attenzione di queste manifestazioni verso le parti meno esplorate della storia del cinema ha suggerito a molti archivi l'intervento su materiali che altrimenti mai sarebbero stati ristampati. Una categoria spesso utilizzata per motivare una scelta di restauro è quella di 'collezione'. All'interno di un archivio spesso esistono fondi che hanno una loro logica intrinseca: i film raccolti da un collezionista secondo certi criteri, i film depositati da un produttore, un cineasta, un attore o un'attrice. Ecco allora che una cineteca sceglie di ristampare vari titoli che assumono un interesse maggiore proprio se presentati unitamente. Caso esemplare è la politica della Cinémathèque française, che dopo una lunga battaglia con il Centre national de la cinématographie ha visto, in parte, riconosciute le proprie ragioni: ristampare non solo i film francesi, ma tutti i film raccolti da Langlois; il fatto che si tratti di opere riunite in Francia le rende patrimonio nazionale che come tale va salvaguardato.
A fianco di questi criteri vi sono anche, evidentemen-te, criteri economici. Un archivio che ha un consistente bilancio potrà far convivere svariate ragioni di restauro, mentre un altro più povero dovrà selezionare al massimo i suoi interventi. Ugualmente, progetti di restauro particolarmente onerosi saranno impossibili in certi archivi: per es. la ristampa di un film a partire dalle tre matrici Technicolor è un lusso che poche cineteche al mondo possono permettersi.
Infine bisogna sottolineare quello che sempre più è il motivo principale per il quale una cineteca lancia un progetto di restauro: la possibilità di stringere un accordo con un avente diritto che partecipi alle spese o che comunque conceda a quella cineteca la possibilità di utilizzare il film una volta restaurato. Sempre più spesso editori di DVD partecipano a progetti di restauro, finanziandoli in parte, in cambio dell'accesso ai materiali per realizzare master di alta qualità.
All'inizio, negli anni Cinquanta, l'idea di restauro coincideva con le operazioni che permettevano di ripristinare la funzionalità di un'opera, soprattutto dei film muti. Langlois ristampava i film di cui possedeva solo negativi nitrati per poterli mostrare, senza preoccuparsi del fatto che i negativi nell'epoca del cinema muto solitamente non avevano le didascalie, che venivano poi giuntate direttamente sulle copie positive, e non presentavano le imbibizioni e i viraggi (anch'essi effettuati sui positivi). Ben presto però all'esigenza di mostrare le copie rare di film del passato si affiancò la consapevolezza che lo scopo delle cineteche è anche e soprattutto quello di conservare le opere, creare cioè degli elementi di conservazione che possano essere trasmessi al futuro. In seno alla FIAF si svolse in quegli anni un accesissimo dibattito che vide scontrarsi due politiche cinetecarie opposte: Langlois, che insisteva sulla necessità di mostrare il patrimonio a ogni costo, perché l'epifania del cinema è nella proiezione; Ernst Lindgren, che sottolineava lo scopo primario delle cineteche nella conservazione delle immagini in movimento (se di un film esiste per es. una sola copia questa non deve venire proiettata). Si pensi al lavoro del critico e storico del cinema Joseph-Marie Lo Duca, cofondatore e redattore fino al 1954 dei "Cahiers du cinéma" (il suo posto venne preso successivamente da Eric Rohmer), su La passion de Jeanne d'Arc (1927; La passione di Giovanna d'Arco) di Carl Theodor Dreyer, film mitico e considerato fino agli anni Ottanta perduto nella versione originale. Lo Duca decise di rimaneggiare arbitrariamente il film nel 1952, modificando radicalmente il montaggio del regista danese (il quale protestò vivacemente) e inserendo didascalie e musiche posticce. Più recentemente uno dei molteplici restauri operati su L'Atalante (1934) di Jean Vigo è stato eseguito montando nella versione restaurata le inquadrature scartate dallo stesso regista, tradendo così il rispetto delle scelte dell'autore dell'opera.
Con il passare del tempo ha iniziato a svilupparsi una maggiore coscienza critica nei confronti del patrimonio cinematografico e si sono intrapresi, sin dagli anni Settanta, lavori di ricostruzione che hanno permesso di riflettere in modo più complesso sul senso del restauro applicato al cinema. I leggendari restauri del Napoléon (1927; Napoleone) di Abel Gance e di Metropolis (1927) di Fritz Lang hanno contribuito in maniera cruciale allo sviluppo della disciplina del restauro. Si tratta di restauri indissolubilmente legati a due storici del cinema, Kevin Brownlow ed Enno Patalas, che hanno dedicato la loro intera vita alla ricostruzione dei due film. La ricostruzione del Napoléon, a opera di Brownlow, ha implicato ricerche lunghissime presso cineteche e collezionisti di tutto il mondo e lo studio di copie sopravvissute in ogni formato (35 mm, 16 mm, 9,5 mm, 8 mm), un lavoro culminato nel ritrovamento dell'episodio dell'infanzia di Napoleone a Brienne e nel ripristino dei tre schermi per le sequenze finali. Patalas, per anni direttore della cineteca municipale di Monaco di Baviera, che ha rivestito un ruolo di primo piano nella riscoperta del cinema muto tedesco, ha avuto il grande merito di dimostrare l'importanza dello studio delle fonti extra-filmiche nel processo di restauro (il visto di censura, la partitura originale, la sceneggiatura originale, le foto di scena ecc.), e le ricerche condotte per la ricostruzione di Metropolis hanno aperto la via a un nuovo modo di intraprendere i restauri. Di grande rilevanza è stato altresì il monumentale lavoro di ricostruzione di Intolerance di Griffith, eseguito dal Museum of Modern Art di New York alla fine degli anni Ottanta. Dal 5 settembre 1916, data della presentazione al Liberty Theater di New York, fino alla morte, Griffith non rinunciò mai a intervenire sul proprio film, modificandolo a ogni proiezione. Il lavoro (ipotetico) di ricostruzione dell'editio princeps, ovvero della prima versione montata da Griffith, si è basato principalmente, oltre che sulle copie già conosciute, sullo studio dei 2203 fotogrammi contenenti ogni inquadratura e didascalia depositati dal regista presso la Library of Congress pochi mesi prima della presentazione (una specie di deposito legale per tutelarsi dalle contraffazioni), su una lista delle didascalie depositata alla University of California at Los Angeles (UCLA) dall'assistente al montaggio, sulla partitura per orchestra e per piano e sul ritrovamento, presso il Danske Film Institut di Copenaghen, di una copia d'epoca di cui si era fino ad allora ignorata l'esistenza. La ricostruzione del film ha implicato lunghi confronti tra i vari materiali (eterogenei tra loro); laddove mancavano le inquadrature si è ricorso all'uso dei freeze-frames, ovvero si è mantenuta fissa l'immagine dei singoli fotogrammi depositati presso la Library of Congress per il tempo previsto dalla partitura musicale. Secondo gli stessi curatori del restauro (Peter Williamson, Gillian B. Anderson, Paul C. Spehr ed Eileen Bowser), la versione ricostruita di Intolerance è ipotetica, c'è cioè il rischio che non sia mai esistita (essendo il film di Griffith un'opera che non si è mai 'cristallizzata' in un'unica forma), ma era l'unica che si potesse ottenere partendo dai materiali a disposizione, secondo un metodo filologico e storiografico coerente.
L'epoca dei 'pionieri del restauro' ha in maniera del tutto naturale permesso la nascita all'interno di varie cineteche di vere e proprie attività di restauro e la creazione di laboratori (o di strette collaborazioni con essi). I laboratori sono di due tipi: commerciali con un settore dedicato alle lavorazioni speciali (Haghefilm, CentreImage, StudioCine ecc.) oppure esclusivamente dedicati a lavori di restauro. Tra questi ultimi particolare attenzione meritano, in ambito europeo, l'Immagine ritrovata di Bologna e i laboratori della Cinémathèque de Belgique e del National Film and Television Archive (Londra), che hanno saputo trovare nuovi metodi (DesmetColor) e sviluppare pratiche di restauro che si adat-tassero ai molteplici formati del cinema (per es. il 28 mm) e alle varie tecniche usate in più di cento anni di storia (il Kinemacolor). Il processo di restauro non si esaurisce nello stabilire materiali più resistenti alle ingiurie del tempo, ma diviene un processo che consente di conoscere meglio l'opera che si sta restaurando. Compito del restauratore è quello di 'consegnare' agli studiosi e ai ricercatori i film nelle loro versioni corrette. Lo studio delle colorazioni del cinema muto (a mano, pochoir, imbibizione, viraggi) ha costituito forse la più grande battaglia condotta dalle cineteche di tutto il mondo per dimostrare che il cinema muto non era in bianco e nero. Un ruolo pionieristico in questo campo è stato svolto negli anni Ottanta dal Filmmuseum di Amsterdam, che si è impegnato a restaurare la propria collezione, unica al mondo, di film di inizio secolo conservando le colorazioni originali e allo stesso tempo conducendo una campagna di sensibilizzazione verso questo aspetto dimenticato del cinema muto. Parallelamente sono state svolte approfondite ricerche, in vari centri europei, per comprendere come, a distanza di molti anni, si potessero ripristinare e restaurare le colorazioni dell'epoca con tecnologie, metodologie e pellicole moderne. Il lavoro scientifico di Luciano Berriatúa condotto sui film diretti da Murnau ha consentito di vedere in copie complete e filologicamente corrette i film del grande maestro tedesco. Si credeva infatti che Nosferatu ‒ Eine Symphonie des Grauens (1922) fosse un film in bianco e nero; le ricerche condotte presso le cineteche di tutto il mondo hanno permesso di scoprire che il film era in realtà colorato per imbibizione e viraggi. Il restauro condotto ha così potuto ripristinare le corrette colorazioni e il corretto montaggio (dimostrando tra l'altro che non sempre la 'versione più lunga' è quella più corretta). Il restauro di Faust ‒ Eine deutsche Volkssage (1926; Faust) testimonia dei risultati positivi ai quali un restauro, se eseguito con metodo scientifico, può giungere. Del Faust si conoscevano solo copie molto lontane dall'originale per completezza del montaggio e per qualità fotografiche. Le ricerche, durate anni, di Berriatúa hanno permesso di scoprire che del film vennero montate più edizioni nel corso degli anni: la versione dell'anteprima all'UFA Palace di Berlino nell'agosto del 1926 e tre edizioni per il mercato tedesco la prima dell'ottobre 1926, la seconda della fine degli anni Venti e la terza dell'inizio degli anni Trenta. Parallelamente alle tre edizioni per il mercato tedesco, Berriatúa ha individuato l'esistenza di una versione per il mercato americano montata nel 1926 dallo stesso Murnau. Naturalmente non restava nessun elemento della prima presentazione a Berlino del 1926, ma grazie al ritrovamento del negativo della versione americana, del negativo della terza edizione tedesca, di una copia positiva d'epoca destinata al mercato danese, del negativo della versione francese (che conservava i flash titles originali tedeschi) e di una cospicua serie di informazioni derivanti dal ritrovamento di sceneggiature, appunti di montaggio, partiture, visti di censure, liste di didascalie nonché di altre informazioni derivanti da fonti secondarie (riviste di cinema dell'epoca) è stato possibile restaurare e ricostruire il Faust così come venne mostrato per la prima volta in pubblico nell'agosto del 1926. Il progetto intrapreso da Berriatúa prevede anche il restauro delle altre edizioni e versioni del film.
Sempre più spesso alla diffusione televisiva dei film restaurati gli aventi diritto (Canal Plus, Gaumont ecc.) affiancano anche l'uscita del film in DVD. Recentemente la società di produzione e distribuzione francese MK2, contemporaneamente all'uscita nelle sale cinematografiche delle versioni restaurate, ha editato in DVD i film diretti da Chaplin. La situazione del mercato statunitense dei DVD, rispetto a quella europea, è più sviluppata e si assiste a un regolare aggiornamento dei cataloghi di vendita. Negli Stati Uniti si è assistito nei primi anni del Duemila a importanti operazioni di restauro promosse dalle majors. Compagnie come la Sony Columbia Picture eseguono lavorazioni estremamente complesse: vale la pena citare il caso del restauro di un film del 1969 come Easy rider (Easy rider ‒ Libertà e paura) di Dennis Hopper. Il negativo originale del film era distrutto e il colore seriamente compromesso. Il restauro, condotto in collaborazione con Lázló Kovács, direttore della fotografia del film, ha quindi implicato l'utilizzo di vari elementi derivanti da copie positive diverse e il ricorso a tecnologie digitali (sul 25% del negativo) per ripristinare l'opera nel miglior modo possibile. Un altro esempio viene offerto dall'UCLA Film and Television Archive di Los Angeles, che collabora con le principali case di produzione di Hollywood; il restauro di The night of the hunt-er (1955; La morte corre sul fiume) di Charles Laughton, condotto in collaborazione con la MGM, rappresenta un caso di recupero completo ed esemplare, perché parallelamente al lavoro svolto sul film sono stati restaurati da Bob Gitt (figura eminente tra i restauratori americani) anche gli out-takes del film, che contenevano tutti i giornalieri, i tagli e gli scarti, per un totale di circa otto ore: un ricco materiale che consente di dare una lettura più complessa del lavoro di Laughton.
Nel campo delle arti figurative una stessa opera può avere la qualifica di originale, copia d'autore, copia di bottega, copia di altro artista, replica d'autore, replica di bottega, replica fedele, replica con varianti. Nel campo del cinema esistono per ogni film diverse versioni e/o edizioni, spesso contraddittorie tra loro ma tutte legittime e con una loro storia interna. Il processo stesso di produzione di un film implica l'esistenza di una moltitudine di materiali eterogenei: negativi camera, giornalieri, copie lavoro, elementi intermedi immagine e suono (controtipi e lavander), copie positive (in lingua originale, doppiate, sottotitolate ecc.), copie per i passaggi televisivi (a volte con montaggi diversi), scarti, scene censurate. Dall'analisi di tutti questi materiali e delle fonti cartacee (visti di censura, documenti di produzione, riviste di cinema ecc.) è normalmente possibile stabilire l'esistenza di diverse versioni di un film. Non si parla quindi più di originale ma di autentico. È l'autenticità che va indagata e ricercata, in quanto termine più complesso che contiene in sé il tempo dell'opera. Ogni versione è autentica perché testimonia di un'intenzione o di una situazione. Il rispetto dell'autenticità dell'opera non può non comportare anche la valutazione della sua molteplice e stratificata storicità, e obbliga a una massima attenzione nei confronti del contesto in cui l'opera è stata tramandata, così come all'autentica lezione del suo testo nella misura in cui esso è recuperabile.
Negli anni Novanta si tendeva a classificare i restauri delle possibili versioni di un film secondo la seguente divisione (stabilita da E. Bowser proprio nel 1990): il film così come è stato ritrovato, il film come risultava alla prima presentazione pubblica, il film come era stato pensato originariamente dal regista (prima che intervenissero per es. la censura o problemi con la produzione), il film presentato in una versione che tenga conto dell'esistenza di un pubblico moderno e del suo diverso modo di percepire lo spettacolo cinematografico, il film reinterpretato da un artista contemporaneo. La deontologia legata al restauro si è poi sviluppata ulteriormente e si è arrivati ormai alla consapevolezza che ogni singolo film pone una serie di problematiche specifiche, di una difficoltà certamente maggiore di quelle analizzate dalla Bowser, legate all'esistenza all'epoca dell'uscita del film e alla loro sopravvivenza di più versioni e/o edizioni. Questo nodo metodologico è fondamentale per comprendere il lavoro di restauro: occorre fare una netta separazione tra le versioni che sono esistite in quel momento anche successivamente (importanza della ricerca extra-filmica), e gli elementi che di quelle versioni sono sopravvissuti (ricerca delle copie, censimento). La decisione di quale versione restaurare è legata in modo indissolubile a questo complesso di problemi.
Processo di ricerche preliminari e diagnosi dei materiali. - L'iter del restauro di un film è un'operazione che prevede diverse fasi e che si distribuisce su un arco di tempo piuttosto lungo. La fase preliminare di ogni restauro è la ricerca presso tutti gli archivi del mondo dell'esistenza di copie del film che si vuole restaurare (censimento). Questa fase viene svolta parallelamente alle ricerche di materiali cartacei (extra-filmici) che forniscano indicazioni sulla storia del film e che possano anche dare informazioni utili al lavoro di restauro (per es. il ritrovamento del visto di censura con la lista delle didascalie o del metraggio originale). Una volta recensite tutte le copie del film da restaurare, su qualsiasi supporto e di qualsiasi formato, e raggruppate le informazioni provenienti dai fondi cartacei, possono cominciare le operazioni vere e proprie di restauro. La valutazione e lo studio delle copie recensite aprono la prima fase e permettono di stabilire i rapporti di parentela dei vari testimoni, la copia più antica, la più completa ecc. Grazie allo studio delle fonti extra-filmiche sarà possibile individuare a quali versioni e/o edizioni appartengono le copie ritrovate. L'esame dettagliato di una serie di informazioni contenute fisicamente sulla pellicola permetterà invece di capire se si è in presenza di una copia di prima generazione o di successive ristampe, il metodo con il quale è stata stampata e montata, i vari tipi di colorazioni, lo stock della pellicola, se negli anni sono stati effettuati interventi, cambiamenti, interpolazioni ecc. Parallelamente all'analisi delle copie viene redatta una valutazione approfondita dello stato di conservazione (fisico e chimico) di ogni elemento e vengono eventualmente eseguiti dei test di stampa. Esistono problematiche uguali per ogni supporto (rotture, strappi, lacerazioni ecc.), ma anche singoli problemi legati al supporto usato e strettamente connessi alle condizioni in cui è stato conservato. Il tipo di pellicola e il relativo procedimento fotografico (bianco e nero o a colori, Technicolor o Eastmancolor ecc.) influiscono sullo stato di conservazione. Il nitrato di cellulosa tende a restringersi, a diventare estremamente fragile e l'immagine può dissolversi anche completamente; i film su supporto di sicurezza possono essere colpiti dalla Vinegar syndrome (v. sopra), la cosiddetta sindrome dell'aceto.
Processo di progettazione e modalità d'intervento. - Completato il processo di diagnosi viene redatto un rapporto contenente l'esame dei materiali e il conseguente progetto di restauro. In questa fase si decidono quale versione del film e/o edizione restaurare e le modalità dell'intervento. La casistica è pressoché infinita e, prendendo spunto dalla filologia letteraria, anche nel campo del restauro cinematografico vige il principio formulato da Michele Barbi secondo il quale ogni testo ha la sua soluzione critica. Il primo scopo di ogni intervento di restauro è quindi quello di definire quale versione e/o edizione restaurare. Esiste una ragione di ordine etico che impone l'onestà di rendere trasparente il lavoro di restauro e il dovere di informare lo spettatore su che cosa esattamente vedrà; questo concetto mira a rispettare il principio esposto da Brandi, secondo cui ogni intervento di restauro non deve rendere impossibili, ma anzi facilitare gli eventuali interventi futuri.
In tutte le altre arti conta la corretta conservazione, che per il cinema non è sufficiente, poiché una copia positiva di un film restaurato si danneggerà ogni volta che sarà proiettata; è quindi necessario, attraverso il processo di restauro, creare dei nuovi elementi destinati unicamente alla conservazione (controtipi, lavander, duplicati negativi).
La tecnica analogica (restauro fotochimico). - Stabilito l'iter, le pellicole sulle quali bisognerà operare il restauro vengono sottoposte a vari interventi. La prima fase consiste nelle riparazioni dei danni fisici: perforazioni rotte o asportate, giunte aperte o difettose, strappi e lacerazioni. Questo intervento può richiedere, a seconda delle condizioni fisiche delle copie e della loro lunghezza, da poche ore a parecchi giorni di lavoro. Ripristinata così la funzionalità, la pellicola viene lavata in macchine speciali (rigenerazione) con solventi che non attaccano l'emulsione, al fine di asportare dal supporto e dall'emulsione la sporcizia, la polvere, l'olio dei proiettori ecc. La copia è pronta per generare un primo elemento di conservazione tramite stampa. Il restauratore dispone di più tipi di stampatrici: a contatto e ottiche. L'avanzamento della pellicola nella stampatrice, qualunque essa sia, può essere continuo o intermittente. Si può affermare che nella maggioranza dei casi, quando cioè si restaurano film antichi partendo da copie in stato di conservazione critico, viene usata la stampatrice ottica sotto liquido con avanzamento intermittente (regolabile). La stampa sotto liquido permette di eliminare o almeno ridurre gran parte dei graffi presenti sul lato supporto ed emulsione grazie all'impiego di un liquido con un indice di rifrazione simile a quello della pellicola il quale consente alla luce che la attraversa di venire rifratta in maniera corretta sulla pellicola vergine. Eventuali problemi chimici legati all'immagine (come per es. l'inizio del decadimento chimico) possono venire corretti o ridotti modificando lo sviluppo della pellicola. Se il restauro viene eseguito partendo da una copia positiva si avrà quindi un controtipo o un internegativo, se invece l'elemento di partenza è un negativo la stampa avrà generato un controtipo positivo (lavander) oppure un intermediato positivo. Se il film oggetto del restauro è sonoro la scena e la colonna vengono trattate e restaurate separatamente fino alla stampa della copia positiva finale combinata. Questa operazione verrà ripetuta con tutte le copie usate per effettuare il restauro di un film. I nuovi elementi creati (matrici) possono venire integrati l'uno con l'altro oppure montati a seconda degli interventi previsti dal piano di restauro. Possono inoltre venire sostituite o integrate (in parte o completamente) le didascalie, corretti gli errori di montaggio, montate le parti mancanti provenienti da un'altra copia ecc. Terminata l'operazione di montaggio e revisione dei nuovi elementi creati, si può infine procedere alla stampa di nuovi elementi di conservazione e delle copie positive da proiezione.
La tecnica digitale. - Se il restauro digitale del suono è una pratica comunemente utilizzata dalla maggioranza dei laboratori dalla metà degli anni Novanta, il restauro digitale dell'immagine è ancora in fase sperimentale e sono molto rare le opere interamente restaurate con tecniche digitali. Più frequente, e anche più accessibile economicamente, è il caso in cui all'interno di restauri analogici vengano effettuati interventi in digitale su piccole parti che presentano gravi problemi: così è accaduto, per es., per i restauri dei film di Chaplin The kid (1921; Il monello) e The circus (1928; Il circo), curati dalla Cineteca di Bologna nel 1999 e nel 2003. Rispetto al procedimento analogico (fotochimico), le tecnologie digitali consentono di registrare e duplicare senza la perdita di alcuna informazione. Naturalmente l'iter di restauro e i macchinari cambiano rispetto alle normali procedure usate in ambito analogico. Le immagini contenute nella pellicola vengono acquisite su supporto digitale (data files) tramite diretta scansione (film scanner) oppure tramite telecinema (telecine unit). Si trasferiscono così le immagini dalla pellicola a supporti digitali (D5, D6, D7, Digibeta, DVC PRO ecc.), leggibili dai software che permetteranno di intervenire sull'immagine. Parte degli interventi, come per es. l'eliminazione dei graffi e la stabilità del quadro, possono essere eseguite anche in automatico dalle moderne workstations. Su un nuovo file viene registrata passo dopo passo la versione restaurata del film, che verrà infine 'scaricata' su un nuovo negativo 35 mm dal quale verranno successivamente stampate, tramite processo fotochimico, le copie positive destinate alla proiezione. Questo è l'iter corretto per il restauro digitale del film, poiché genera alla fine del processo restaurativo un negativo su pellicola 35 mm. Il 'ritorno' finale all'analogico è fondamentale in quanto permette di disporre di elementi in 35 mm da destinare alla conservazione. Infatti, mentre si conoscono i metodi di conservazione delle pellicole, le ricerche e le sperimentazioni per l'archiviazione, la conservazione e il trasferimento su nuove tipologie di supporti sono ancora in corso. Il restauro deve implicare la corretta conservazione nel tempo, e il supporto più sicuro rimane ancora la pellicola cinematografica a 35 mm.
Il processo di restauro, analogico e digitale, prevede non solo fasi di riparazione e duplicazione, ma anche momenti in cui si agisce direttamente sulla pellicola modificando e/o integrando parti di essa. Ogni intervento che viene operato deve essere documentato e deve poter essere reversibile (v. sopra). La documentazione relativa al restauro di un film è di due tipi: il primo, fondamentale, consiste nell'inserire all'inizio o alla fine del film restaurato una breve spiegazione che denunci i materiali di partenza e delinei a grandi linee il tipo di intervento eseguito. Il secondo consiste nella creazione di un dossier di restauro che testimoni l'iter delle scelte e delle lavorazioni.
L'unità dell'opera cinematografica non esiste senza la proiezione in sala. Dopo aver salvato i film, esiste un'altra priorità ugualmente urgente: salvare il cinema nella sua integrità di esperienza collettiva. Il Novecento ha visto modificarsi enormemente lo spettacolo cinematografico, poiché il tempo non agisce solo sul decadimento chimico e fisico del film. Dal 1895 la tecnica e le modalità di fruizione del cinema sono talmente cambiate che sarebbe ormai impossibile mostrare in una sala moderna una pellicola originale dei primi anni del secolo.
L'arte muta è stata cancellata dall'arrivo del sonoro, prima su disco poi inciso sulla pellicola in infiniti modi diversi. Citizen Kane (1941; Quarto potere) di Orson Welles è stato immaginato con un suono rivoluzionario di un'ampiezza straordinaria. The man who knew too much (1956; L'uomo che sapeva troppo) e Vertigo (1958; La donna che visse due volte) di Hitchcock furono girati in Perspecta Sound, un sistema che permetteva una prima stereofonia ottica. Lola Montès (1955) di Max Ophuls, così come gran parte del cinema spettacolare prodotto tra gli anni Cinquanta e i Settanta, utilizzava le quattro piste magnetiche al fine di ottenere una stereofonia praticamente perfetta.
Le sale cinematografiche si sono trasformate radicalmente dagli anni Dieci per accogliere questi profondi cambiamenti. Lo schermo si è modificato in ampiezza e proporzioni. La sala cinematografica si è trasformata dal Grand Café della prima proiezione Lumière ai multiplex, passando per decine di modelli che hanno segnato le epoche del consumo cinematografico. Mostrare correttamente il cinema del passato significa anche ricostruire le condizioni tecniche più vicine a quelle in cui il film è stato concepito. Un film in Cinemascope non può essere visto solo attraverso uno schermo televisivo, così come un'opera lirica non può essere fruita solo attraverso registrazioni. Il cinema è nato ed è stato concepito per essere mostrato in sale buie, davanti a un pubblico di spettatori, su grandi schermi bianchi sui quali brillavano la lucentezza e la trasparenza della pellicola. Parte essenziale del restauro è il ritorno di un film in sala, in luoghi che possano consentire la corretta e completa visione dell'opera cinematografica.
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