POSTPRODUZIONE.
– Arte. Bourriaud e il concetto di postproduzione. Bibliografia
Arte. – Bourriaud e il concetto di postproduzione. – L’uso del termine postproduzione è stato introdotto all’interno del contesto artistico dall’omonimo libro di Nicolas Bourriaud (v.) uscito nel 2002, contemporaneamente in Francia e negli Stati Uniti, e preceduto dalla mostra Post production. Sampling, programming & displaying, tenutasi dal 2 giugno al 9 settembre 2001 alla Galleria Continua di San Gimignano (il cui catalogo, tuttavia, è uscito soltanto nel 2003). Tale termine si riferisce alle pratiche artistiche, sviluppa-tesi soprattutto a partire dai tardi anni del 20° sec., che si appropriano del repertorio esistente di immagini e le usano dopo averle selezionate, modificate, ricombinate e riproposte al pubblico al fine di alterarne il significato originale e di costruire tramite esse nuove narrazioni.
Postproduction, il breve libro di Bourriaud (96 pagine nell’edizione italiana del 2004), è per esplicita ammissione dello stesso autore da mettere in rapporto con la sua precedente fatica editoriale, Esthétique relationelle (1998; trad. it. 2010, v. estetica relazionale), della quale si può considerare una sorta di ideale continuazione in cui l’autore riesce ad articolare in modo più ampio alcuni degli aspetti specifici di una generazione artistica composta per la maggior parte da interpreti europei e che si afferma sulla scena internazionale a partire dall’inizio degli anni Novanta.
Il termine, come si può ben intuire, è mutuato dal linguaggio audiovisivo. In tale ambito, con p. ci si riferisce a tutte le operazioni (montaggio audio e video del girato, assemblaggio di ulteriori materiali visivi e sonori, aggiunta di effetti speciali, sottotitolazione ecc.) che si effettuano sul materiale già registrato e che, quindi, vengono realizzate al termine del lavoro di ripresa. Un processo che, in effetti, permette all’audiovisivo (al film, al documentario o al videoracconto giornalistico) di costruire una narrazione, dotarsi di un ritmo, assumere la forma definitiva nella quale il prodotto viene proposto al pubblico. Tali processi sono indagati da Bourriaud sia per la loro concreta importanza all’interno delle fasi di elaborazione del mondo delle immagini che ci circonda, sia perché rappresentano un’illuminante metafora utile a capire come sia cambiata la produzione artistica recente, anch’essa caratterizzata – come le immagini televisive e i brani musicali – dal massiccio riuso di materiale preesistente, di immagini (il materiale già registrato) che gli artisti si ‘limitano’ a riutilizzare, trasformare, rieditare (la p.).
La lettura del critico e teorico francese evidenzia come alcune caratteristiche del Novecento, soprattutto i concetti di originalità e di creazione, perdono la loro centralità nei lavori degli artisti della p. a favore di una rielaborazione del già noto che diventa la comune prassi esecutiva. Tale processo risulta analogo a quanto avviene nella pratica dei deejay e del programmatore, nuove figure apparse nel panorama del lavoro culturale cui possiamo fare riferimento anche come chiavi di comprensione della contemporaneità nel suo complesso.
Un altro degli aspetti su cui il critico francese concentra le sue riflessioni ritenendolo basilare nella produzione artistica recente, è l’uso, sempre più massiccio, dell’archiviazione dei dati, prassi atta non solo alla realizzazione di un oggetto estetico, da esporre autonomamente, ma anche (nella maggior parte dei casi) come fonte primaria per una rielaborazione e per la successiva moltiplicazione come cover. Gli oggetti artistici prodotti con tali premesse naturalmente mettono in crisi il concetto stesso di autore e di autorialità, tanto che Bourriaud ha specificato che «uno shareware non ha autori, solo un nome appropriato. Anche le pratiche musicali conosciute come sampling hanno contribuito a distruggere realmente la figura dell’autore, al di là delle famose decostruzioni teoriche quali la ‘morte dell’autore’ di Roland Barthes e Micheal Foucault» (2002; trad. it. 2004, p. 81). Anche in questa circostanza, così come l’autore aveva già evinto analizzando le pratiche legate all’estetica relazionale, il singolo autore e l’oggetto/opera d’arte si trovano a ricoprire un ruolo sempre meno importante, mentre al contempo acquisiscono una sempre maggiore centralità la creazione di luoghi in cui poter condividere esperienze. Tuttavia, va sottolineato che nel breve lasso di tempo che separa la pubblicazione dei due volumi – Esthétique relationnelle esce nel 1998, Post production nel 2002 – nella società è cresciuta la consapevolezza della funzione primaria assunta dalla rete informatica e, soprattutto, delle conseguenze che comporta la massiccia condivisione del sapere e delle informazioni. La facilità di accesso alla rete e la possibilità di usufruire e di immettere on-line dati e immagini sono elementi che non devono essere sottovalutati e che risultano evidenti dalla comparazione delle due pubblicazioni.
Gli artisti della p. sembrano, dunque, cercare possibili risposte alla globalizzazione della cultura e dell’informazione, nonché alla caoticità che ne consegue, attraverso una libera reinterpretazione di immagini e forme che precedentemente erano ignorate o lette in modo univoco. In altre parole, a un mondo ricco di forme già inventate, di storie già scritte, di architetture già costruite, l’arte non risponde più citando o superando in termini avanguardistici le opere esistenti, ma tende piuttosto a rimettere in gioco elementi già esistenti, a mescolare i vissuti, a «riprogrammare il mondo», come recita il sottotitolo del libro.
Nel volume si delineano tre categorie di possibilità nello sviluppo della p. – che lo scrittore approfondisce in altrettanti capitoli – riferite rispettivamente all’uso degli oggetti, all’uso delle forme e all’uso del mondo. La prima partizione, l’uso degli oggetti, fa riferimento alla tradizione del readymade, sviluppatasi nel corso del 20° sec. a partire dalle prime sperimentazioni delle avanguardie e, soprattutto, da Marcel Duchamp. Tale percorso si è consolidato poi nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta, e su entrambe le sponde dell’Oceano si affermarono correnti artistiche (da una parte new dada e pop art, dall’altra il Nouveau réalisme) che costruivano immagini bi- e tridimensionali a partire da oggetti e immagini esistenti. Tale tradizione, che include artisti affermatisi negli anni Ottanta, come Jeff Koons o Haim Steinbach, è stata successivamente ripresa e sviluppata anche nel 21° secolo. Bourriaud individua come seguaci di tale sperimentazione, tra gli altri, Rirkrit Tiravanija, Jason Rhoades, Thomas Hirschhorn, Miltos Manetas, Georges Adéagbo o Surasi Kusolwong. Questi artisti utilizzano in modi diversi il riciclaggio quale metodo di lavoro preferenziale e la disposizione caotica come propria principale forma estetica.
L’uso delle forme ha come precedente diretto l’Internazionale lettrista confluita successivamente nell’Internazionale situazionista, soprattutto per l’invenzione della pratica del détournement artistico che Bourriaud legge come una trasformazione in chiave politica del readymade reciproco duchampiano e, in un certo senso, come anticipazione delle pratiche cui ricorrono i deejay. Tale «uso delle forme» è stato ripreso da artisti visivi quali Douglas Gordon, Candice Breitz, Angela Bulloch, Mike Kelley, Liam Gillick, Tiravanija, Pierre Huyghe, Dominique Gonzalez-Foerster, Jorge Pardo, Philippe Parreno, Pierre Joseph, nonché dall’artista italiano Maurizio Cattelan.
La terza categoria, usare il mondo, prende le mosse direttamente dall’arte concettuale degli anni Sessanta e dagli artisti concettuali e postconcettuali cui generalmente viene ascritta l’etichetta di Institutional critique, ovvero la messa in questione della forma mostra e delle istituzioni che la organizzano. Bourriaud specifica, infatti, che «mettendo alla prova le forme accademiche dell’esposizione, gli artisti degli anni Novanta considerano il luogo di esposizione come spazio della coabitazione, una scena a metà strada tra la scenografia, il set cinematografico e un centro d’informazione» (Bourriaud 2002; trad. it. 2004, p. 65). Numerosi sono, anche in questo caso, gli artisti citati come testimoni di questa categoria della p. e tra questi sono da segnalare Andrea Zittel, Carsten Höller, Vanessa Beecroft, Daniel Pflumm, Gillian Wearing, Elmgreen & Dragset, Matthieu Laurette, Wang Du o Heger & Dejanov.
Il libro procede parallelamente sul binario critico e si occupa della descrizione di lavori artistici, virando così verso il sempre più diffuso format del catalogo di mostre, dall’autore molto frequentato e dunque a lui congeniale. Rivestono in tal senso un ruolo cruciale e particolarmente efficace alcune descrizioni delle opere degli artisti sopra citati che chiariscono in modo emblematico un atteggiamento e una pratica artistici condivisi da gran parte della produzione attuale. Ne è un chiaro esempio il lavoro 24 hours Psycho, realizzato dallo scozzese Gordon nel 1993, che consiste nella proiezione rallentata del celeberrimo film di Alfred Hitchcock (opera che peraltro viene minuziosamente descritta anche nel romanzo di Don DeLillo Point Omega, 2010). Tale versione alterata del film, che necessita di 24 ore per un ideale completamento, assume contorni totalmente diversi rispetto all’originale. Anche The third memory (1999) di Pierre Huyghe in cui John Wojtowicz, il rapinatore di banche che ha ispirato la sceneggiatura del film di Sidney Lumet Dog day afternoon(1975) viene chiamato a recitare se stesso in una riproposizione della realtà che si va a sovrapporre al nostro immaginario cinematografico.
Le tesi proposte all’interno di Postproduction, come pure quelle prospettate in Esthétique relationnelle, risentono sia degli sviluppi dell’arte a partire dal primo Novecento, sia di una serie di letture di teoria artistica, o di testi provenienti da campi attigui quali la filosofia, la sociologia o la politica. Più o meno esplicitamente vengono infatti chiamati in causa i lavori di Guy Debord, Gilles Deleuze, Roland Barthes, Michel Foucault, Michel de Certeau, Pierre Levy. Sono soprattutto gli ultimi due pensatori francesi citati ad assumere un ruolo fondamentale per l’elaborazione di Postproduction: il primo per i suoi studi sulla capacità di rielaborazione della realtà, L’invention du quotidien (1980; trad. it. 2001), che qualunque individuo attua giornalmente; il secondo per l’idea di intelligenza diffusa, L’intelligence collective (1994; trad. it. 1996), valorizzata soprattutto attraverso la comunicazione e la rete. La sintesi di Bourriaud ha, tuttavia, il merito di riuscire a condensare in formule, a volte riduttive, ma sicuramente operative, alcune emergenze dell’arte attuale, a partire dal ruolo attivo affidato allo spettatore il quale deve cercare le relazioni che si instaurano tra l’opera e l’ambiente sociale in cui è posto e che deve «giudicare le opere d’arte in funzione dei rapporti che producono all’interno del contesto specifico nel quale si manifestano. Perché l’arte è un’attività che consiste nel produrre rapporti con il mondo, e materializzare – in una forma o nell’altra – le sue relazioni con lo spazio e col tempo» (Bourriaud 2002; trad. it. 2004, p. 89).
Bibliografia: H. Foster, The return of the real. The avantgarde at the end of the century, Cambridge (Mass.) 1996 (trad. it. Milano 2006); N. Bourriaud, Formes de vie. L’art moderne et l’invention de soi, Paris 1999 (trad. it. Milano 2015); N. Bourriaud, Post production. La culture comme scénario: comment l’art reprogramme le monde contemporain, Dijon 2002 (trad. it. Milano 2004); N. Bourriaud, Radicant. Pour une esthétique de la globalisation, Paris 2009 (trad. it. Milano 2014); C. Bishop, Artificial hells. Participatory art and the politics of spectatorship, New York-London 2012.