Pittura
Das Cabinet des Dr. Caligari (1920; Dott. Calligari, noto anche come Il gabinetto del dottor Caligari) di Robert Wiene è forse il più celebre e citato tra i film di derivazione pittorica: in esso elementi scenografici (si tratta di scene per lo più ricostruite in studio), plastici (il trucco degli attori, i costumi, l'illuminazione), stilistici (gestualità degli interpreti, angolazioni delle riprese) si rifanno esplicitamente a un modello pittorico (abitualmente fatto coincidere con l'espressionismo, anche se la definizione non è del tutto esatta). L'effetto pittorico delle soluzioni scenografiche ed espressive adottate, anziché 'nascosto' e assorbito nel realismo fotografico (come tende quasi sempre a fare il cinema quando usa scenografie di tipo teatrale), è esibito ed enfatizzato. Il principio stilistico della deformazione è presente già nel profilmico, in vari elementi dell'arredo e nel trucco degli attori (in particolare Conrad Veidt nel ruolo di Cesare). Emerge quindi la volontà di annullare gli effetti realistici della fotografia e di sovraccaricare la singola inquadratura di elementi espressivi grafico-linearistici. In modo ancor più radicale, Karheinz Martin in Von morgens bis mitternachts (1920) intacca la coesione e la continuità plastica della scena, ancora rispettate nel Caligari, isolando nello spazio singoli elementi prevalentemente linearistici (più vicino al lavoro in superficie della grafica che a quello illusionistico della p., o almeno di quella p. cui ancora il Caligari si rifà). Questi due film rappresentano forse il punto massimo di subordinazione del filmico al pittorico, in quanto la p. vi appare quasi allo stato puro, in una sorta di utopico tentativo di trattare lo schermo come la tela di un quadro, o meglio di trasporre, direttamente o quasi, sulla tela dello schermo l'espressività della pittura.Gli scambi tra varie tendenze delle arti figurative e stili cinematografici sono assai frequenti: esplicitamente attuati dai cineasti stessi, essi sono evidenziati in sede di critica e di riflessione estetica, a volte anche al di là delle intenzioni manifeste. Tali tendenze sono presenti ancor prima del cosiddetto caligarismo, e avranno sviluppi nelle epoche successive. Nel cinema delle origini, per es., si ispirano al vedutismo pittorico gli operatori Lumière, che rinnovano il repertorio iconografico di un genere assai diffuso in p. e divulgato dagli spettacoli ottici, quali panorama, diorama e simili (Bertozzi 2001). E al linearismo Art nouveau si ispira l'iconografia divistica del cinema muto italiano. Per la rievocazione del mondo antico, inoltre, il cinema italiano delle origini si richiama spesso alla tradizione della p. storica di ambientazione classica, da Th.R. Spence a L. Alma-Tadema, da E. Burne-Jones a J.E. Millais: Quo vadis? (1913) di Enrico Guazzoni oppure Gli ultimi giorni di Pompei (1913) di Eleuterio Rodolfi assumono a modello una certa p. ottocentesca che costituirà anche successivamente la principale fonte iconografica di molto cinema storico ispirato alla romanità.Anche gli anni Sessanta sono stati caratterizzati da una dinamica di intensi scambi tra il filmico e il pittorico, quando si stabilirono stretti legami tra il cinema e le neoavanguardie (soprattutto la pop art). In Deserto rosso (1964) di Michelangelo Antonioni confluiscono le suggestioni della p. informale, dell'espressionismo astratto e dell'industrial design. E sulla stessa linea si pongono Blow-up (1966) e Zabriskie Point (1970) dello stesso Antonioni; oppure il film di Marco Ferreri, Dillinger è morto (1969) in cui si assiste alla nascita di una sorta di opera pop (la vecchia pistola rimessa a punto e dipinta a vivaci colori) e, nello stesso tempo, si vede il protagonista che prepara una cena, amoreggia con la cameriera e uccide la moglie. Ma è Jean-Luc Godard l'autore che maggiormente ha il gusto della citazione pittorica: si pensi ad alcuni dei suoi film degli anni Sessanta, da Une femme mariée (1964; Una donna sposata) e Pierrot le fou (1965; Il bandito delle undici) a La chinoise (1967; La cinese) e Week-end (1967; Week-end, un uomo e una donna dal sabato alla domenica), ma anche alla sua produzione successiva, nella quale ritornano le tematiche del confronto tra p. e cinema, da Passion (1982) al televisivo Histoire(s) du cinéma (1988-1998). Una sistematica rivisitazione del repertorio plastico-visivo della pop art e dell'iperrealismo è condotta da Stanley Kubrick in A clockwork orange (1971; Arancia meccanica): Kubrick riesce a integrare perfettamente le ossessioni sessuali, consumistiche e aggressive dell'universo contemporaneo, quali sono state interpretate dall'arte pop e dalle sue volgarizzazioni, nella lucida e beffarda rappresentazione delle pulsioni distruttive del protagonista (alle quali corrisponde la simmetrica violenza delle istituzioni).
Accade frequentemente che siano il periodo storico e la collocazione geografica di una narrazione a fornire il pretesto per un intensivo sfruttamento di tutto un repertorio figurativo (più o meno plausibile sul piano cronologico). Il capostipite di questa categoria di film, dopo l'avvento del sonoro, è La kermesse héroïque (1935; La kermesse eroica) di Jacques Feyder, sistematica rivisitazione della p. fiamminga in cui il fasto scenografico e l'effetto pittorico fanno passare in second'ordine una tenue trama da operetta. In tempi più vicini, Barry Lyndon (1975) di Kubrick e The draughtsman's contract (1982; I misteri del giardino di Compton House) di Peter Greenaway si sono esplicitamente e minuziosamente rifatti, sia pure con intenti diversi, ai modelli della p. inglese del Settecento. Il cinema italiano ha fatto un largo uso della p. dei macchiaioli come fonte per la rappresentazione del secondo Ottocento: basterà ricordare film come Senso (1954) e Il Gattopardo (1963) di Luchino Visconti; oppure La viaccia (1961) di Mauro Bolognini come anche Tiburzi (1996) di Paolo Benvenuti.
Infine, all'interno di un percorso dedicato al rapporto tra il pittorico e il filmico, dovrebbero trovare posto anche i casi di pittori che fanno anche film (da Fernand Léger a Luigi Veronesi, da Andy Warhol a Mario Schifano, a Jacques Monory) e cineasti che dipingono (p. e grafica come attività che prepara o, in certi casi, prolunga l'attività filmica). Ci sono cineasti che sono arrivati al cinema dalla p.: è il caso di David Lynch, il cui approdo al cinema di finzione passa attraverso studi di p. e la realizzazione di alcuni cortometraggi sperimentali con tecnica mista, animazione e dal vero (The alphabet, 1968; The grandmother, 1970) Da Sergej M. Ejzenštejn a Federico Fellini sono vari i registi che hanno accompagnato la loro attività creativa a un'intensa produzione grafica, finalizzata o meno alla loro creazione cinematografica; altri casi illustri sono Lev V. Kulešov, Sergej I. Paradžanov e Andrej A. Tarkovskij (Von Eisenstein bis Tarkowski, 1990). Ma l'aspetto più importante del cinema dei pittori coincide in larga parte con il fenomeno delle avanguardie (v. avanguardia cinematografica), sia le cosiddette avanguardie storiche che le neoavanguardie degli anni Sessanta (v. New American Cinema e sperimentale, cinema). Non sempre i film dei pittori sono 'pittura in movimento': a volte si può trattare di una programmatica fuoriuscita dalla dimensione della p., come dimostrano le espressioni più radicali e coerenti delle avanguardie. D'altra parte la ripresa di interesse per il modello pittorico, con un utilizzo di quello che è variamente definito come "plan tableau" (Bonitzer 1985) o "effetto dipinto" (Costa 1991 e 2002), ha rappresentato un tentativo, non sempre riuscito, di ritrovare le ragioni di una rigorosa strutturazione dell'immagine filmica in un'epoca caratterizzata dall'inflazione di immagini di tutti i tipi, ma anche una delle manifestazioni del manierismo che ha caratterizzato l'esperienza estetica contemporanea. Usi, funzioni e significati della p. rievocata in un film possono variare notevolmente. Mentre ci sono film che limitano le citazioni ai soli costumi e agli arredi, in altri i riferimenti alla p. acquistano significati più complessi. Diverso è, per es., il funzionamento della citazione del Cristo morto di A. Mantegna in Mamma Roma (1962) di Pier Paolo Pasolini, in Giordano Bruno (1973) di Giuliano Montaldo oppure in Vozvraščenie (2003; Il ritorno) di Andrej Zvjagincev. Nel caso di Pasolini, il riferimento pittorico funziona come intrusione volutamente 'scandalosa', come egli amava dire, della dimensione del sacro nei più degradati aspetti dell'esistenza. Rispetto alla plausibilità del codice realistico preteso dalla stringente logica narrativa cui è condannato il film, il riferimento pittorico garantisce la possibilità di introdurre la dimensione lirica, arbitraria, soggettiva: così, nel cinema di Pasolini, la citazione pittorica può diventare capriccio manieristico, forzatura stilistica, preziosismo formale. Ma talvolta anche artificio caricaturale: è proprio il gusto della Sprachmischung (cioè della commistione dei linguaggi e dei livelli stilistici) che permette a Pasolini di usare l'effetto quadro con tutt'altra funzione: per es. in La ricotta (episodio del film collettivo RO.GO.PA.G., 1963) le citazioni della p. manierista di Pontormo e di Rosso Fiorentino, evidenziate attraverso il procedimento della sospensione temporale e dell'irrealismo cromatico, sono giocate in chiave comica e dissacrante nei riguardi dei kolossal hollywoodiani.
Nel vasto repertorio di film dedicati alla p., si possono distinguere: a) documentari; b) film biografici; c) film che sviluppano direttamente o indirettamente una riflessione sulla rappresentazione pittorica in generale (possono essere tanto documentari quanto film di finzione).
I documentari d'arte (v. film sull'arte) hanno avuto un periodo di grande sviluppo nel secondo dopoguerra, in anni di grande tensione etica e civile e di impegno pedagogico. In questo genere hanno fatto le loro prove sia registi nella fase iniziale della loro carriera, sia professionisti del documentario e della critica d'arte: tra i pionieri del settore, sia Luciano Emmer sia Alain Resnais sono diventati poi più noti per i loro film di finzione, mentre Henri Storck si espresse sia nel documentario d'arte sia in quello sociale e Carlo Ludovico Ragghianti fu uno degli storici e teorici dell'arte (e del cinema) che sperimentò anche il documentario. Pur con diversi metodi e finalità, i loro documentari sono accomunati dall'intento di far rivivere, attraverso i mezzi specifici del cinema, lo spazio-tempo della pittura. I vari documentari hanno accentuazioni diverse, secondo la personalità del regista o dei consulenti scientifici. In Carpaccio (1948) di Umberto Barbaro la successione delle immagini e i movimenti di macchina sono messi al servizio del denso ed elegante testo critico di R. Longhi. I documentari di Emmer sono caratterizzati da un uso spregiudicato del montaggio che evidenzia la funzione 'narrativa' della p., secondo un modello messo a punto con Racconto da un affresco (1938) dedicato agli affreschi di Giotto nella Cappella degli Scrovegni di Padova, e con Il Paradiso terrestre (1940) dedicato a Il giardino delle delizie di H. Bosch, e poi ripreso in varie riproposte e rifacimenti della medesima operazione. L'aspetto biografico-psicologico è privilegiato da Resnais (soprattutto in Van Gogh, 1948), mentre i documentari di Storck oscillano tra l'interpretazione poetica dell'universo figurativo (Le monde de Paul Delvaux, realizzato nel 1944 e uscito nel 1946) e una complessa analisi formale (Rubens, 1948, codiretto con Paul Haesaers). Sono però i critofilm di Ragghianti a rappresentare il più organico tentativo di usare il cinema come strumento di indagine critica (e non solo come sussidio), come dimostrano Il Cenacolo di Andrea del Castagno (1954), Stile di Piero della Francesca (1954) e Michelangiolo (1964). Le nuove tecnologie multimediali hanno reso vagamente arcaico questo genere cinematografico, almeno nel suo aspetto di 'pittura filmata' quale si realizzava nei suoi anni d'oro. Non sono mancati tuttavia tentativi di un rinnovamento del genere. Per es., Cézanne (1989) di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, un documentario commissionato dal Museo d'Orsay di Parigi, diventa l'occasione per un'interrogazione sul senso della p. (e del cinema) attraverso la messa in discussione delle abitudini percettive degli spettatori di un film (e di una mostra d'arte). Un particolare valore acquistano i documentari dedicati a un pittore nel suo studio, che cercano di fissare l'evento della p. nel suo farsi e, al tempo stesso, di riflettere sul modo d'essere dell'artista. Tra i più significativi, che hanno fatto da modelli, sono da citare Jackson Pollock (1951) di Hans Namuth e Paul Falkenberg, Picasso (1954) di Emmer e Le mystère Picasso (1956; Il mistero Picasso) di Henri-Georges Clouzot (che rimane il più celebre e il più suggestivo).
Diverso è il caso delle biografie di artisti, un sottogenere, di ampia diffusione e risonanza, del film biografico. Come accade per i film sui musicisti, nei quali la musica diventa materia essenziale della rappresentazione e polo di attrazione spettacolare, nelle biografie di pittori il rifacimento filmico dell'universo figurativo dell'artista diventa altrettanto caratterizzante. Questo aspetto accomuna vari film su V. Van Gogh, da Lust for life (1956; Brama di vivere ) di Vincente Minnelli a Vincent et Théo (1990; Vincent e Théo) di Robert Altman, ma non mancano esempi, come Van Gogh (1991) di Maurice Pialat, in cui viene mantenuta una maggior libertà rispetto all'iconografia e all'ambientazione storica. Alla p. di Van Gogh e al mito di un cinema capace di riappropriarsi dello spazio della p. è dedicato un episodio del film Konna yume o mita (1990; Sogni) di Kurosawa Akira, in cui il protagonista, grazie ai prodigi dell'immagine digitale, entra letteralmente in un dipinto di Van Gogh dove si incontra con il pittore stesso, interpretato da Martin Scorsese. Altre volte la biografia di un artista offre spunti per una riflessione sulla natura dell'arte e della rappresentazione. In questo ambito, una posizione di assoluto rilievo spetta ad Andrej Rublëv (1966) di A.A. Tarkovskij, film biografico che potrebbe però figurare anche tra i film 'teorici' sulla pittura. Nella sequenza finale, la presentazione delle icone del grande Rublëv (1360 ca.-1430), con il passaggio dal bianco e nero al colore, vuole mostrare la conquista della 'visione della pittura', una visione mobile e frammentaria, propria delle icone e nettamente differenziata dalla visione prospettica della p. rinascimentale italiana. L'integrazione organica di una figurazione pittorica nella struttura filmica è abituale in Tarkovskij: basti pensare alle citazioni di P. Bruegel in Soljaris (1972; Solaris) o a quelle di Leonardo in Žertvoprinošenie, noto anche come Offret/Sacrificatio (1986; Sacrificio). Nell'età classica del cinema le biografie di pittori potevano costituire delle produzioni di grande budget, con partecipazione di divi di vasta popolarità e profondamente ancorate nel sistema dei generi: dal già citato Lust for life (con Kirk Douglas) a The agony and the ecstasy (1965; Il tormento e l'estasi) di Carol Reed (con Charlton Heston nel ruolo di Michelangelo) e a Moulin Rouge (1952) di John Huston (con José Ferrer nel ruolo di Henri de Toulouse- Lautrec). Il lungo elenco delle biografie di pittori, dal classico Rembrandt (1936; L'arte e gli amori di Rembrandt) di Alexander Korda a Pollock (2000) di Ed Harris, conferma che le vite e gli universi figurativi di tali artisti costituiscono una riserva inesauribile di ispirazione. Oltre ai titoli già citati, vanno ricordati negli anni Settanta Rembrandt fecit 1669 (1977) di Jos Stelling, Edvard Munch (1974) di Peter Watkins, Ligabue (1977) di Salvatore Nocita (tre produzioni di grande qualità e impegno espressivo e critico, anche se gli ultimi due nati come film per la televisione). E successivamente, Caravaggio (1986) di Derek Jarman, Vincent (1987) di Paul Cox, Carrington (1995) di Christopher Hampton (sugli amori della pittrice Dora Carrington); Surviving Picasso (1996) di James Ivory; Basquiat (1996) di Julian Schnabel, Love is the devil (1997) di John Maybury (sulla vita di Francis Bacon); Lautrec (1998) di Roger Planchon; Artemisia (1998; Artemisia ‒ Passione estrema) di Agnès Merlet; Goya (1999) di Carlos Saura; Frida (2002) di Julie Taymor (sulla vita di Frida Kahlo).
Infine, tra i film che, pur nelle evidenti diversità di genere e di impegno, possono essere accomunati sotto la definizione di film di riflessione sulla (o addirittura di teoria della) p. si possono citare: F for fake, noto anche come Vérités et mensonges (1974; F per falso ‒ Verità e menzogne) di Orson Welles, sulla falsificazione nell'arte e sull'arte come falsificazione; L'hypothèse du tableau volé (1978) di Raúl Ruiz, un film che, secondo il teorico e storico H. Damisch (1986), dimostra al pari di un saggio teorico come non ci sia "rappresentazione che di un'altra rappresentazione" (p. 27); Passion di J.-L. Godard che, attraverso le vicende di una troupe impegnata nella realizzazione di una serie di tableaux vivants ispirati a dipinti celebri, offre un sistematico confronto tra il tempo della p. e il tempo del cinema; The draughtsman's contract di Peter Greenaway, nel quale, attraverso una trama da film giallo, viene svolta una riflessione sulle astrazioni e sulle rimozioni che lo spazio della p. opera rispetto al tempo dell'esistenza; La belle noiseuse (1991; La bella scontrosa) di Jacques Rivette, liberamente ispirato al racconto di H. de Balzac Le chef d'œuvre inconnu, che, attraverso la rappresentazione delle dinamiche sociali e psicologiche in cui è coinvolta la vita di un pittore, pone una serie di interrogativi sull'arte e sulle sue aspirazioni, spesso frustrate, di fissare la vita attraverso i propri mezzi convenzionali; El sol del membrillo (1992) di Victor Erice, il quale, nella forma del tutto dimessa di un documentario sulle fasi di realizzazione di un quadro di A. Lopez, sviluppa un'acuta riflessione sulle diverse temporalità che scorrono accanto a colui che realizza l'opera (il tempo meteorologico, il tempo sociale del lavoro, il tempo storico, il tempo interiore).
La riflessione sugli aspetti figurativi del cinema occupa una posizione di rilievo nella storia delle teorie del cinema, grazie anche ai contributi di teorici e storici dell'arte.Uno dei primi a porre l'accento sul cinema come arte visiva fu Vachel N. Lindsay, poeta e poligrafo statunitense, in The art of the moving pictures (1915). Secondo Lindsay, la dimensione temporale propria del cinema permette un superamento della struttura compositiva delle arti visive tradizionali. Studiando il cinema, di volta in volta, come sculpture-in-motion, painting-in-motion e architecture-in-motion, Lindsay precisa che il movimento ha la proprietà di mutare la natura stessa delle arti tradizionali. La sua idea di movimento riguarda non solo il contenuto dell'immagine, ma anche le relazioni tra immagini. In tal modo Lindsay arriva a definire il cinema come una sorta di scrittura iconica (writing-picture) come quella dei geroglifici e degli ideogrammi, anticipando così una tematica che diventerà centrale nella riflessione teorica di S.M. Ejzenštejn. Anche lo storico dell'arte Élie Faure va ricordato tra i primi ad aver evidenziato gli aspetti figurativi del cinema con il quale si impose una nuova forma di arte collettiva, dopo che nell'Ottocento con la p. da cavalletto aveva predominato lo spirito individualista: il suo saggio De la cinéplastique (1920), tradotto ben presto negli Stati Uniti, esercitò una notevole influenza, ma i maggiori contributi in questa direzione risalgono agli anni Trenta. Rudolf Arnheim colloca la trattazione del cinema nell'ambito di una teoria dell'arte elaborata a partire dalla Gestaltpsychologie. Con un preciso riferimento alle arti plastiche, Arnheim evidenzia e valorizza le possibilità di stilizzazione, deformazione, strutturazione autonoma dell'esperienza percettiva ordinaria, a scapito degli aspetti puramente riproduttivi. L'artisticità del cinema deriva da quelle proprietà che fondano l'autonomia e introducono i caratteri di differenziazione dell'immagine cinematografica rispetto alla realtà percepita. Nell'insieme delle potenzialità differenzianti del mezzo cinematografico Arnheim individua il suo carattere di formatività e, quindi, di artisticità.
Erwin Panofsky, il maggiore studioso di iconografia e iconologia del Novecento, si occupa del cinema in un breve ma significativo intervento nato da una conferenza tenuta a Princeton, poco dopo il suo trasferimento negli Stati Uniti. In questo testo, la cui prima stesura apparve nel 1936, Panofsky preferisce evidenziare il carattere popolare del cinema. Constatato che il cinema è, insieme all'architettura, i disegni animati e l'industrial design, un'"arte visiva integralmente viva", egli sostiene la possibilità di trasferire al campo del cinema il metodo iconografico. In tal modo egli mostra quali scambi fecondi si possano attuare tra la tradizione delle arti figurative e il cinema, soprattutto quello più popolare. Non si tratta però di un atteggiamento di arrendevolezza o di abbandono dei rigorosi criteri metodologici della critica d'arte. Al contrario, l'interpretazione panofskiana del fatto filmico si basa su una precisa coscienza della "natura specifica del mezzo", come dimostrano le puntuali osservazioni sul rapporto tra "dinamizzazione dello spazio" e "spazializzazione del tempo" o l'enunciazione del principio di "coespressibilità" attraverso il quale Panofsky definisce il particolare rapporto che si stabilisce tra immagine e parola (così diverso da quello in funzione nel teatro).
Al cinema come arte figurativa dedica particolare attenzione lo storico dell'arte C.L. Ragghianti che, a partire dal suo contributo Cinematografo rigoroso (in "Cine-Convegno", 1933, 4-5; ora in Ragghianti 1975, pp. 1-23), affiancò al suo lavoro di critico d'arte un interesse per la riflessione teorica sulla nuova arte dal quale sarebbero nati i saggi di Cinema arte figurativa (1952; ora in Ragghianti 1975) e, inoltre, un'intensa attività realizzativa firmando, tra il 1948 e il 1964, una ventina di documen-tari nei quali il cinema è usato come strumento di analisi oltre che di divulgazione. Il problema delle differenti basi tecniche del cinema e della p. è superato da Ragghianti ricorrendo ai principi dell'estetica crociana. Basandosi sulla distinzione tra arte e tecnica, Ragghianti sostiene che la forma artistica compiuta, cioè risolta in espressione, richiede di essere analizzata in quanto tale: come non sono rilevanti le differenze tra p. e scultura quando si parla in questa prospettiva di arti plastiche, così non sono rilevanti quelle tra p. e cinema, se l'analisi riguarda i risultati complessivi, l'esito artistico. Per illustrare la tesi dell'identità di cinema e arti figurative, Ragghianti porta gli esempi di Georg Wilhelm Pabst e Charlie Chaplin. Scegliendo autori tanto diversi, il critico vuole dimostrare che il suo metodo funziona non solo se i film presentano espliciti riferimenti alla p. (Pabst), ma anche se la lontananza dal modello pittorico è massima (Chaplin). Le sequenze prescelte sono descritte in modo da evidenziarne la coerenza interna, sulla base di un'implicita equivalenza tra procedimenti filmici e procedimenti grafico-figurativi. A proposito di Kameradschaft (1931; La tragedia della miniera) di Pabst, il critico afferma che "i valori luministici di molte scene rammentano, nel modo di costruire con pura luce, le figure di Rembrandt", mentre rinviano a J.-F. Millet "le forme in cui si vanno a ritrovare le pose naturalmente monumentali dell'operaio e del lavoro" (1975, p. 13). Più preciso risulta Ragghianti nella definizione della coerenza dello stile chapliniano, impostato sull'antinaturalismo delle movenze e dell'incedere. Egli parla dapprima di "trasformazione decorativa del moto" (p. 19), e infine accosta l'esaltazione lirica del movimento, propria dello stile di Chaplin, alla categoria critica di "linearismo funzionale", introdotta e usata dallo storico dell'arte rinascimentale B. Berenson.Di particolare rilievo sono i contributi dei cineasti che hanno accompagnato la loro attività creativa con la riflessione teorica, primo fra tutti S.M. Ejzenštejn che impostò il suo lavoro creativo e teorico sull'idea del cinema come stadio contemporaneo della pittura. Questa idea trova riscontro anzitutto nei suoi film, sia in quelli del periodo del muto, in cui egli era impegnato nello sforzo comune alle avanguardie artistico-politiche di superare le arti tradizionali nelle nuove forme di organizzazione politica e di comunicazione sociale, sia nella fase conclusiva della sua carriera, in opere come Ivan Groznyj (la cui prima parte, nota in Italia come Ivan il terribile, terminata nel 1944, fu presentata al pubblico nel 1945, mentre la seconda, nota in Italia come La congiura dei boiardi, fu terminata nel 1946, ma presentata al pubblico solo nel 1958), che costituisce probabilmente il suo più organico tentativo di collegare l'espressione filmica con la tradizione figurativa dell'arte russa. Nella sua vasta produzione teorica (pubblicata in gran parte postuma), il regista russo si preoccupa costantemente di situare la relazione tra p. e cinema in una storia e una teoria della rappresentazione. Per Ejzenštejn il cinema poteva servire a risolvere vecchi problemi, ma anche per individuare problemi non perfettamente focalizzati in passato (Montani 1987). Per es., lo studio della temporalità filmica e delle sue connessioni con il montaggio permette di cogliere, una volta che si indaghi con criteri analoghi la composizione pittorica, i problemi della temporalità in p. con un'evidenza del tutto nuova. Ed è davvero sorprendente constatare come, nelle numerose analisi di opere pittoriche prospettate da Ejzen-štejn, si trovino conferme che vanno nella stessa direzione degli studi specialistici sulla p. (come per es. quelli di Ragghianti). Ejzenštejn può così indagare problemi di p. in termini apparentemente cinematografici (e viceversa). Essendo la sua teoria del montaggio una teoria generale dell'arte, esiste una sorta di intercambiabilità tra i due settori per chiarire ed esemplificare problemi generali della rappresentazione. Sono questi i motivi per i quali la sua riflessione teorica, per quanto particolarmente attenta alla relazione tra cinema e p., diventa una riserva, solo in parte esplorata, di temi relativi a una teoria generale dell'arte (e del cinema).La riflessione sui rapporti tra cinema e p. gioca un ruolo importante anche in Eric Rohmer, il quale oltre a film in cui riferimenti pittorici sono essenziali, da La Marquise d'O...(1976; La marchesa von...), a Perceval le gallois (1978) e a L'anglaise et le duc (2001; La nobildonna e il duca), ha al suo attivo un'intensa attività di critico e teorico. In una serie di articoli dal titolo Le celluloïd et le marbre (1955), Rohmer ha approfondito il confronto tra il cinema e le altre arti: in linea con le teorie di A. Bazin, ha sostenuto che l'artisticità del cinema dovrà derivare non già dalla sua subordinazione ad arti precedenti, ma dalla sua natura fotografica, riproduttiva e meccanica. Egli ritiene che attraverso il cinema l'arte riconquisti la sua relazione con l'oggetto, relazione che era andata affievolendosi con gli sviluppi più recenti della p. novecentesca. Da questo primo confronto, oltre all'affermazione di una supremazia del cinema nel sistema delle arti che lo porta ad assumere accenti aspramente polemici, emerge un'esigenza di misura e di equi-librio che costituirà il principio ispiratore dell'estetica di Rohmer. Sui rapporti tra p. e cinema, Rohmer ritorna nel suo saggio più organico, L'organisation de l'espace dans le 'Faust' de Murnau (1977). Dopo aver definito i tre spazi in cui si articola la sua analisi (pittorico, architettonico e filmico), egli concentra la sua attenzione soprattutto su quello pittorico: l'analisi dello spazio architettonico non fa che ribadire il primato del modello pittorico in Friedrich W. Murnau, mentre quella dello spazio filmico tende a dimostrare la conquista di una forma pienamente cinematografica, nonostante il primato della composizione spaziale.
Dopo la grande stagione della ricerca di una legittimazione estetica del cinema, nel cui ambito è stato importantissimo il confronto tra le arti, il tema delle relazioni tra cinema e p. è tornato di attualità tra gli anni Ottanta e Novanta del Novecento, in seguito a una certa stanchezza subentrata nei confronti dei modelli linguistico-narratologici che avevano dominato tutta la prima stagione degli studi semiologici tra gli anni Sessanta e la prima metà degli anni Ottanta e che avevano finito per trascurare gli aspetti propriamente visivi dell'espressione cinematografica. Inoltre, è stato il cinema stesso a offrire nuovi spunti di riflessione sul tema. In tale contesto si sono affermati gli studi di due critici francesi, Pascal Bonitzer (1985) e Jacques Aumont (1989) che hanno esercitato un'ampia influenza sugli studi successivi (Bellour 1990; Costa 1991 e 2002; Peucker 1994; Ortiz e Piqueira 1995; Dalle Vacche 1996). Bonitzer non sviluppa un confronto diretto tra cinema e pittura. Non gli interessano tanto i problemi posti dalle relazioni evidenti, quali si trovano in un certo cinema dei pittori oppure nei film biografici. Né quelli derivanti da un confronto tra le diverse basi tecniche e linguistiche proprie dei due mezzi. Egli parte dal dispositivo visivo del celebre quadro di D. Velázquez Las meninas (1656) per evidenziare la funzione di sospensione di senso, di enigma, di domanda senza risposta assunta dalla particolare relazione che si stabilisce tra ciò che viene mostrato e il 'fuori campo'. Termine, quest'ultimo, tipicamente cinematografico che Bonitzer utilizza per ana-lizzare quadri di L. Cremonini, F. Bacon, J. Monory, R. Going, tutti caratterizzati da relazioni con i modelli di organizzazione dello spazio filmico. Egli arriva in questo modo a dimostrare l'esistenza di analogie profonde tra organizzazione dello spazio e forme simboliche della p. e del cinema, di una certa p. e di un certo cinema. L'introduzione di inquadrature che producono una "suspense non narrativa" è ciò che giustifica la definizione di "pittori" che Bonitzer attribuisce a cineasti come M. Antonioni, J.-M. Straub e D. Huillet, Marguerite Duras. In sostanza, Bonitzer prende in esame aspetti della p. quali il trompe-l'œil e l'anamorfosi ed è sul piano di tali pratiche, spesso rimosse in sede teorica e storica o considerate soltanto marginali, che egli stabilisce l'esistenza di relazioni tra quello che è il cinema dei pittori, cioè di quei cineasti che lavorano coscientemente su una dimensione "pittorica", e alcune delle più significative espressioni proprie della p. contemporanea.
Più sistematico e organico è il libro di Aumont, che prende immediatamente le distanze dalla tesi della filiazione del cinema dalla p., ma anche quella delle parentele; e, soprattutto, evita di occuparsi dei film 'pittorialisti' in quanto tali o in quanto portatori di motivi di interesse per un confronto tra i due mezzi. Il libro di Aumont si occupa piuttosto di ciò che della p. muore con il cinema, o si trasforma irreversibilmente. Egli illustra innanzitutto le sue tesi, attraverso la definizione di uno "sguardo mobile" che, manifestatosi già a partire dalla p. paesaggistica del primo Ottocento ma anche in molte altre forme di modificazione dell'esperienza visiva (dagli spettacoli ottici ai mezzi di trasporto), troverà il suo compimento nel cinematografo. A differenza di Bonitzer che lavora su un'ipotesi di convergenza tra certe tendenze del cinema contemporaneo e alcune esperienze pittoriche, Aumont tende piuttosto a mostrare i punti di massimo distacco, o addirittura di 'incompatibilità' tra i due mezzi; e a vedere semmai nei riferimenti ai modelli pittorici forme di regressione del cinema. Il libro di Aumont è un contributo che, sul piano metodologico, riesce a conciliare le esigenze della prospettiva storica (offrendo una storia delle forme) e della prospettiva teorica (elaborando una teoria della forma filmica e della forma pittorica): il cinema viene indagato come un momento cruciale della storia della visione, senza tuttavia subordinarlo a modelli antecedenti allo scopo di legittimarlo culturalmente.
V. Lindsay, The art of moving pictures (1915), New York 2000.
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