partiti comunisti
Partiti politici di orientamento marxista, sorti per lo più a seguito della Rivoluzione russa del 1917 e tuttora presenti in molti Paesi del mondo.
Sebbene «leghe», gruppi e partiti comunisti avessero visto la luce già nel 19° sec. (si pensi alla Lega dei giusti, nata nel 1836 a Parigi, e trasformatasi, sotto l’impulso di K. Marx e F. Engels, in Lega dei comunisti nel 1847) e all’inizio del 20° sec. – è il caso del Partito bolscevico (➔ ), nato nel 1912 –, fu la Rivoluzione russa del 7 nov. 1917 a dare impulso alla costituzione di p.c. su scala mondiale. Già all’indomani della presa del potere in Russia, che essi vedevano come prima tappa di una più ampia rivoluzione mondiale, Lenin e i dirigenti bolscevichi decisero di organizzare su scala internazionale l’ondata di simpatia e di adesione suscitata dalla Rivoluzione d’ottobre. D’altronde quest’ultima era stata interpretata anche da gran parte del proletariato europeo come l’inizio della rivoluzione mondiale, e i moti popolari del dopoguerra (1919-20) in Ungheria, in Italia, in Germania e in altri Paesi costituirono le condizioni preliminari per la nascita dei partiti comunisti. Nel marzo 1919 veniva così fondata a Mosca la terza Internazionale (➔ Comintern), come partito rivoluzionario mondiale, separando definitivamente il movimento comunista dall’alveo socialista. L’Internazionale si adoperò per favorire scissioni comuniste nei partiti socialisti o per promuovere l’unificazione dei gruppi di tendenza comunista, e soprattutto per affermare l’idea di p.c. di massa in grado di contendere l’egemonia nel proletariato ai partiti socialisti e di portare dalla propria parte la maggioranza della popolazione lavoratrice. Tra il 1919 e il 1921 si costituirono p.c. (o comunque sezioni nazionali dell’Internazionale) in tutti i Paesi d’Europa, ma anche in Asia (Cina, Giappone, Indonesia ecc.), in America (Canada, USA, Messico, Argentina, Guatemala, Salvador ecc.) e in Australia si formarono organizzazioni talora ristrette a gruppi di intellettuali, ma più spesso rappresentanti di settori consistenti del proletariato e degli strati popolari. Anche se nessuno dei moti rivoluzionari del dopoguerra ebbe esito positivo, i nuovi partiti, soprattutto in Europa, esercitarono un ruolo talora rilevante come in Germania (➔ Partito comunista tedesco) e in Francia (➔ Partito comunista francese). L’affermarsi nel Comintern della linea di Stalin determinò l’orientamento alla «bolscevizzazione» dei p.c., cioè alla rigorosa omogeneizzazione ideologica e organizzativa al partito sovietico. Si manifestava intanto fin dal 1923 un rinnovato interesse dell’Internazionale per i movimenti contadini e le realtà extraeuropee, cosa che diede impulso al formarsi, nella seconda metà degli anni Venti, di nuovi p.c. in Asia (Indocina, India ecc.) e America Latina (Colombia, Venezuela ecc.). Di particolare rilevanza in quest’ambito le vicende del Partito comunista cinese che, rotta nel 1927 l’alleanza con il partito nazionalista (Guomindang), facendo leva proprio sui contadini poveri (secondo la strategia elaborata da Mao Zedong), contese al Guomindang la guida della politica cinese, concludendo con esso un provvisorio patto di alleanza (1937) in funzione dell’unità antigiapponese. Nella seconda metà degli anni Venti l’Internazionale rilanciò (1928) la lotta contro il socialismo riformista, mentre, soprattutto a partire dal 1934, si ebbe in URSS un’accentuazione dell’autoritarismo del partito. Questa pressione ideologica accentuò il carattere di monolitismo e di dipendenza da Mosca dei p.c., tratto favorito anche dalla crisi politica mondiale e dall’ascesa dei fascismi. Tuttavia, dinanzi all’avvento al potere dei nazisti in Germania (1933), il movimento comunista adottò al 7° Congresso del Comintern (ag. 1935) la linea dei , che portò i p.c. francese e spagnolo a vincere le elezioni nell’ambito appunto dei fronti popolari e ad accedere a governi di coalizione o comunque a sostenerli. Durante la guerra civile spagnola, l’URSS e i p.c. europei intervennero con uomini e mezzi a sostegno del fronte repubblicano, e lo stesso Partito comunista spagnolo ebbe un ruolo rilevante. Intanto il patto anti-Comintern tra Germania, Giappone e Italia (1936-37) e le mire tedesche in Europa orientarono il movimento comunista sempre più in direzione antifascista. Dopo la fase di disorientamento apertasi a seguito del patto tedesco-sovietico dell’agosto 1939, l’iniziativa dei p.c. riprese slancio dopo l’aggressione della Germania all’URSS (giugno 1941). Lo schieramento creatosi nel 1941 di USA, URSS e Gran Bretagna contro Germania, Italia e Giappone abilitava i comunisti a muoversi in una vasta alleanza politico-militare antifascista, per cui, nell’ambito dei movimenti nazionali di Resistenza, essi diedero un contributo decisivo alla liberazione dell’Europa. Nel 1943, in omaggio all’alleanza antifascista impegnata in guerra, veniva infine sciolta l’Internazionale.
Dopo la Seconda guerra mondiale, gli accordi che delimitavano le zone d’influenza delle potenze vincitrici trovarono rapida applicazione. Già occupate dai sovietici Polonia, Romania e Bulgaria durante l’avanzata verso Berlino, e contando su una certa forza dei p.c. locali (in particolare in Bulgaria), vennero costituiti in questi Paesi governi di «democrazia popolare», che inizialmente si basarono su fronti popolari o nazionali, e poi su partiti nati generalmente dalla fusione di comunisti e socialisti, con l’idea di avviare modelli di transizione al socialismo diversi e più graduali rispetto a quello sovietico. Tuttavia nel volgere di pochi anni, e in corrispondenza con l’inizio della Guerra fredda, quei partiti e quei Paesi finirono col riprodurre in larga misura il sistema economico-sociale dell’URSS: gestione centralizzata dell’economia, sviluppo accelerato dell’industria pesante e collettivizzazione dell’agricoltura, limitazioni alle libertà di stampa e di associazione. Analoghi processi intervennero nella zona d’occupazione sovietica della Germania (1945), in Ungheria e in Cecoslovacchia (1948); in quest’ultima il Partito comunista vantava una grande forza e una notevole tradizione, mentre in Iugoslavia e in Albania i p.c., guidati rispettivamente da J. Tito ed E. Hoxha, giunsero al potere esclusivamente per il ruolo da essi sostenuto nella Resistenza; infine nel 1949 i comunisti cinesi vinsero la battaglia con il Guomindang e proclamarono la Repubblica popolare di Cina. Nel dopoguerra, dunque, un blocco di Paesi socialisti si affiancava all’URSS, che era intanto assurta al ruolo di superpotenza. Nel 1947 si dava vita a un nuovo organismo di consultazione internazionale, il Cominform, che fu limitato ai p.c. europei e non assurse mai all’importanza e al ruolo storico del Comintern. Il coordinamento dei vari p.c. rimase affidato ad alcune conferenze mondiali che si tennero a distanza di vari anni l’una dall’altra. Il momento di massimo sviluppo del movimento comunista segnava peraltro l’inizio dei contrasti interni, a partire dalla rottura dell’URSS con la Iugoslavia, che provocò l’esclusione di questa (1948) dal Cominform e la condanna del titoismo come deviazione nazionalistica. Dopo la morte di Stalin (marzo 1953), la ricerca di un nuovo sistema di rapporti tra Paesi socialisti (vie nazionali al socialismo) e fra questi e l’Occidente (coesistenza pacifica), la necessità di rivalutare i consumi, le aperture politiche ed economiche verso il Terzo mondo, oltre alla critica radicale dei metodi dello stalinismo e del culto della personalità, trovarono una prima formulazione nella relazione di N. Chruščëv al 20° Congresso del Partito comunista dell’URSS (febbr. 1956). I segnali politici furono però contradditori: se, sciolto il Cominform, la crisi polacca fu superata con l’avvento in funzione antistalinista di W. Gomulka, la sollevazione ungherese fu soffocata dalle truppe sovietiche. Nel 1955 col Patto di Varsavia era intanto stata costituita l’alleanza militare tra URSS, Polonia, Ungheria, Bulgaria, Cecoslovacchia, Repubblica democratica tedesca, Albania e Romania. L’idea del policentrismo nel mondo comunista era già presente nell’elaborazione dei comunisti italiani (8° Congresso, 1956); la rottura ideologica e politica fra sovietici e cinesi (Conferenza mondiale dei p.c., 1960) segnò in questa direzione un punto di non ritorno, nel senso che, soprattutto a partire da questo momento, sarebbe divenuto sempre meno possibile identificare nelle molteplici esperienze dei movimenti, dei partiti e degli Stati di ispirazione comunista un comune modello ideologico, politico, strategico o economico. La rottura fra russi e cinesi investì presto anche i due Stati: da una parte la politica estera cinese si volse apertamente in funzione antisovietica; d’altro canto la Cina attrasse nella sua orbita alcuni p.c., tra i quali quello albanese ispirò molte ali del dissenso comunista nel mondo e, con la «rivoluzione culturale» degli anni Sessanta, alcuni movimenti giovanili occidentali. Dal punto di vista economico-sociale, gli sviluppi della rivoluzione cinese sono l’aspetto più rilevante di un fenomeno di proporzioni mondiali: dalla fine degli anni Quaranta fu nei Paesi più poveri e in condizioni coloniali o semicoloniali che la lotta di liberazione nazionale assunse sovente l’ideologia del comunismo. Particolarmente interessati a questo processo sono stati la regione del Centro America, l’Indocina e alcuni Paesi africani. A Cuba il movimento guerrigliero guidato da F. Castro ed E. Che Guevara, che condusse in porto la rivoluzione nel 1959, si unificò ben presto al partito comunista locale, dando vita a un partito rivoluzionario unitario, che nel 1965 assunse il nome di Partito comunista cubano. In Indonesia il Partito comunista divenne una imponente forza di massa e prese a collaborare con il governo di Sukarno, ma il colpo di Stato del 1965 avviò una fase di repressione a danno dei comunisti e dei loro simpatizzanti che si risolse in un vero e proprio sterminio. Nel Vietnam, invece, era il Partito comunista guidato da Ho Chi Minh a prendere la testa del movimento di liberazione, prima contro i francesi e poi contro gli USA, conseguendo infine la vittoria nel 1975. All’inizio degli anni Settanta anche in Cile il Partito comunista fu parte rilevante di un’importante esperienza politica, quel governo di Unidad popular guidato da S. Allende rovesciato dal golpe dell’11 sett. 1973. In Sudafrica il Partito comunista era parte dell’African national congress e fu tra i protagonisti della lotta contro il regime dell’apartheid. La stessa lotta di liberazione del popolo kurdo è stata portata avanti da un partito di fatto affine ai p.c., il PKK. In Europa intanto i p.c., che in Paesi come l’Italia o la Francia erano ormai partiti di massa largamente radicati nella società, dalla fine degli anni Cinquanta si trovarono dinanzi al problema di ripensare la tradizione e l’esperienza rivoluzionaria, elaborando proprie vie nazionali al socialismo, rispondenti alle peculiarità dei contesti storici, economici e sociali in cui operavano. Di particolare rilievo fu in questo campo l’elaborazione del Partito comunista italiano, che con P. Togliatti già nel 1947 aveva prefigurato una «via italiana al socialismo» e che rilanciò tale idea nel 1956, per svilupparla ulteriormente negli anni successivi, proponendo peraltro sul piano dei rapporti tra p.c. la formula della «unità nella diversità», e cioè della piena autonomia dei vari partiti pur all’interno di una prospettiva storica comune. In Portogallo, il Partito comunista guidato da A. Cunhal fu tra i protagonisti della Rivoluzione dei garofani che liberò il Paese dalla dittatura (1974). All’Est, intanto, alcuni p.c. tentavano di sperimentare vie diverse nella costruzione della società socialista. Esemplare in tal senso la scelta del Partito comunista cecoslovacco che, guidato da A. Dubček, inaugurò nel 1968 un nuovo corso politico aperto a esigenze di democrazia e consenso popolare. L’intervento militare del Patto di Varsavia, che nell’agosto 1968 pose fine alla Primavera di Praga, da una parte scoraggiò le spinte riformatrici negli altri Paesi socialisti, dall’altra spinse i p.c. occidentali, in specie l’italiano, a differenziare ulteriormente le proprie posizioni da quelle dei sovietici, fino a giungere alla definizione di un profilo strategico distinto, promosso in particolare dai p.c. italiano, francese e spagnolo, che andò sotto il nome di eurocomunismo. Le divergenze con l’URSS si sarebbero in seguito approfondite a causa dell’invasione sovietica dell’Afghanistan (1979) e della repressione dei conflitti sindacali in Polonia (1981). Gli anni Settanta e Ottanta registrarono intanto importanti novità in Cina: alla morte di Mao (1976), il nuovo gruppo dirigente guidato da Deng Xiaoping liquidò l’eredità ideologica del periodo maoista e orientò la politica interna verso il conseguimento di importanti risultati economici senza peraltro allargare le basi del potere, tanto che nel 1989, a Pechino, una protesta di studenti che chiedevano maggiore democrazia venne repressa nel sangue. Nell’URSS le spinte al rinnovamento determinarono l’ascesa alla segreteria del partito di M.S. Gorbačëv (1985), che subito impostò una politica tendente a invertire la corsa agli armamenti con gli USA, portò a compimento il disimpegno militare in Afghanistan e, all’interno, affermò la riformabilità dell’organizzazione sociale a partire dalle esigenze di sviluppo economico e di partecipazione, aprendo altresì, per la prima volta nell’URSS, la possibilità di una riconsiderazione complessiva della propria storia. Questo processo riattivò sensibilmente il dialogo politico, culturale ed economico con i Paesi occidentali e si estese rapidamente agli altri Paesi dell’Est europeo, determinando vistose crisi politiche che vennero a maturazione a partire dal 1989: in Ungheria, Polonia, Cecoslovacchia, Repubblica democratica tedesca, Bulgaria, Romania e Albania cadevano in modo più o meno traumatico i regimi comunisti, mentre mutamenti costituzionali e nuove consultazioni elettorali sancivano l’affermazione del pluripartitismo. Nel 1991 la crisi del potere comunista in URSS determinò la disgregazione dello stesso Stato sovietico, che comportò una fondamentale modifica dell’assetto politico mondiale e aprì per i p.c. una fase di grave crisi, portando alcuni di essi allo scioglimento o al cambiamento del nome. Attualmente, benché l’internazionalismo comunista sia in crisi, va comunque rilevata la permanenza di p.c. in moltissimi Paesi del mondo, in taluni casi come partiti al potere (Cina, Vietnam, Cuba ecc.), in altri all’interno di governi di coalizione (come in Brasile, nel Venezuela di Chávez o in alcuni Stati dell’India), in altri casi ancora all’opposizione; talora si tratta di piccoli partiti, tal altra di organizzazioni di massa, spesso presenti nelle istituzioni rappresentative e in grado di mettersi alla testa di rilevanti lotte sociali, come è avvenuto in Grecia nel 2010.