Moto
Eppur si muove
Non c’è nulla di più semplice e allo stesso tempo di più complicato del moto. Gesti quotidiani come andare in bicicletta o giocare a pallone sono in realtà molto complessi quando si prova a darne una descrizione fisica. Per non parlare dei tentativi di comprendere l’essenza del moto: ci si può muovere stando comodamente seduti in treno. E allora cosa vuol dire restare fermi? Esistono poi tanti modi per spostarsi: lungo una linea retta, in curva, accelerando oppure oscillando avanti e indietro attorno a un punto di equilibrio. Senza dimenticare che tutti noi ci muoviamo a gran velocità nello spazio insieme al nostro pianeta
Un oggetto è in moto se la sua posizione cambia nel tempo. Quando però si cerca di capire e di descrivere come ciò avvenga iniziano i problemi, dal momento che la Terra è uno dei posti meno adatti per studiare le leggi del moto. Basta prendere come esempio la caduta dei corpi dovuta alla forza di gravità (gravitazione). Se dalla stessa altezza si lasciano cadere contemporaneamente un martello e una piuma, quale dei due toccherà prima il suolo? L’esperienza suggerisce il martello, per cui si potrebbe giungere alla conclusione che quanto più un oggetto è pesante tanto più velocemente cade. Ma è sbagliato.
Nel 1971 l’esperimento del martello e della piuma è stato eseguito sulla Luna dagli astronauti della missione Apollo 15. Il filmato dell’esperienza, registrato in diretta da una telecamera, mostra chiaramente che la caduta di entrambi gli oggetti è simultanea. Sulla Luna, infatti, a differenza di quanto avviene sulla Terra, non c’è l’aria che, con la sua resistenza, frena in maniera diversa il moto dei corpi. L’esperimento compiuto sulla Luna è stato una spettacolare conferma di ciò che aveva stabilito Galileo Galilei quasi quattrocento anni prima e cioè che in assenza di aria tutti gli oggetti cadono con la stessa accelerazione, indipendentemente dalla loro massa o dalle loro dimensioni.
Anche i nostri sensi si lasciano trarre in inganno nel percepire il moto. Guardandoci attorno possiamo pensare che la Terra sia piatta e il suolo sotto ai nostri piedi resti immobile mentre il Sole si muove, descrivendo ogni giorno un grande arco nel cielo: sorge infatti a est e tramonta a ovest. Sappiamo bene, invece, che la Terra è tonda e gira su sé stessa come una trottola, compiendo una rotazione completa in circa 24 ore. Il moto del Sole, quindi, è solo apparente, un po’ come quando si fa una piroetta e sembra che sia la stanza a girare in tondo. Come se non bastasse, il nostro pianeta percorre un’orbita attorno al Sole alla fantastica velocità di circa 100.000 km/h.
Sono serviti migliaia di anni per capire che la Terra non è immobile al centro dell’Universo, ma compie un moto di rotazione attorno a un asse passante per i poli e un moto di rivoluzione attorno al Sole. Il merito della scoperta va soprattutto a tre grandi scienziati vissuti tra il Cinquecento e il Seicento: Nicola Copernico, Galileo Galilei e Giovanni Keplero. La loro non fu un’impresa facile, soprattutto perché a quel tempo si rischiava di venire denunciati per eresia alla Chiesa, che vedeva nell’immobilità della Terra il volere di Dio. E infatti Galilei finì sotto processo per aver pubblicato le sue idee sul moto della Terra. Per evitare la condanna dovette dichiarare di fronte ai giudici di essersi sbagliato, ma si racconta che appena uscito dall’aula del tribunale mormorò a bassa voce: «Eppur si muove!».
La Terra è in moto, ma anche il Sole orbita attorno al centro della galassia cha a sua volta va alla deriva nell’Universo. Come definire il moto in un mondo dove tutto si sposta? Bisogna innanzitutto scegliere un sistema di riferimento rispetto al quale misurare velocità e accelerazioni. Per esempio, se si vuole studiare il moto di una pallina che corre lungo un binario inclinato conviene prendere proprio il binario come riferimento. Sarà allora facile descrivere il moto segnando tacche di riferimento sul binario e poi misurando il tempo che impiega la pallina a passare da una tacca all’altra.
Il secondo passo è quello di rinunciare all’idea che esista un sistema di riferimento ‘migliore’ di tutti gli altri, cioè un luogo anche ideale dove esiste la quiete assoluta. Se cadiamo dalla bicicletta perché abbiamo investito qualcuno che stava fermo oppure perché qualcuno ci è piombato addosso mentre eravamo fermi, dal punto di vista della descrizione del moto (e non quello di determinare di chi sia la colpa!) è la stessa cosa. E infatti rischiamo di farci male in entrambi i casi. Il moto è sempre relativo a un determinato sistema di riferimento e questo principio di relatività è alla base della fisica moderna.
L’immagine preferita da Albert Einstein per spiegare la sua teoria della relatività è quella dell’ascensore. Un ascensore chiuso e senza vetri è ideale per ridurre al minimo l’interferenza dei nostri sensi nel determinare chi si sta muovendo e come. Per esempio, nel salire, una spinta verso il basso ci avverte che siamo partiti mentre un leggero sobbalzo verso l’alto è il segnale che siamo arrivati. Ma durante il tragitto non c’è modo di capire a che velocità stiamo andando: anzi, per quanti esperimenti di fisica possiamo escogitare, i risultati saranno uguali a quelli che otterremmo in un ascensore fermo. In altre parole, un ascensore in moto rettilineo uniforme è un sistema di riferimento particolare che dimostra la relatività del moto. Si chiama sistema inerziale perché segue uno dei principi fondamentali della meccanica: un corpo non soggetto a forze esterne mantiene il suo stato di moto rettilineo uniforme.
Trasferiamoci ora in un ascensore nello spazio, dove possiamo provare l’ebbrezza dell’assenza di peso. Immaginiamo di scendere verso la Terra in caduta libera: cosa accadrà dentro l’ascensore? Niente di particolare perché, come nel caso del martello e della piuma, l’accelerazione del nostro corpo e della cabina è la stessa. Continueremmo a volteggiare in assenza di peso e quindi ancora una volta non riusciremmo a determinare il moto dell’ascensore trovandoci al suo interno. Questo ragionamento portò Einstein a generalizzare ulteriormente il principio di relatività del moto estendendolo anche ai sistemi, come l’ascensore, che si muovono di moto accelerato.
Quella della relatività è probabilmente la teoria scientifica più famosa al mondo, tanto da essere entrata nel linguaggio comune: quando ci si vuole trarre d’impaccio basta esclamare «tutto è relativo!». In realtà, Einstein non voleva relativizzare tutto ma, al contrario, era alla ricerca di nuovi principi fisici generali da sostituire a quelli che si erano dimostrati inadeguati.
Una delle novità più importanti è l’aver capito il comportamento della luce. I raggi luminosi, infatti, non si propagano istantaneamente, ma con una velocità finita anche se elevatissima: 300.000 km/s. Einstein capì che la luce viaggia alla stessa velocità in qualunque sistema di riferimento e che questa velocità è la massima raggiungibile. Si devono quindi modificare alcuni concetti di base del moto come, per esempio, il fatto che le velocità si sommano sempre. Supponiamo di trovarci su un treno che viaggia a 100 km/h e di lanciare nella direzione di marcia una pallina la cui velocità all’interno del treno è di 10 km/h. Per una persona ferma all’esterno la pallina viaggia a 1001105110 km/h. Se invece che lanciare una pallina accendiamo una torcia elettrica, i raggi luminosi avranno invece la stessa velocità sia per chi si trova sul treno sia per chi è a terra. In generale, sommare semplicemente le velocità è sempre più sbagliato quanto più le velocità sono vicine a quella della luce. Dal momento che un raggio luminoso è in grado di compiere quasi otto volte il giro del mondo in un solo secondo la ‘correzione relativistica’ è trascurabile nell’esperienza quotidiana, mentre è indispensabile in molti problemi di astrofisica, cosmologia e fisica atomica.
Esistono moti che si prestano a una semplice descrizione matematica. Il moto lungo una linea retta e a velocità costante viene chiamato moto rettilineo uniforme: in questo caso, la distanza percorsa in un certo intervallo di tempo si calcola a partire dalla velocità grazie a una semplice moltiplicazione. Se invece un corpo è soggetto a un’accelerazione costante, la sua velocità aumenta progressivamente e il moto si dice uniformemente accelerato. Questo è il caso della gravità: l’equazione che lega la distanza percorsa al tempo permette di calcolare quantità importanti come, per esempio, la durata della caduta oppure la velocità di impatto al suolo. Per trovare queste leggi del moto Galilei compì molti esperimenti, facendo scendere piccole sfere lungo piani inclinati o gettando dalla torre di Pisa oggetti di diverse dimensioni. Isaac Newton completò il quadro studiando il legame tra moto e forza. Perché se è vero che un martello e una piuma lasciati cadere dalla stessa altezza, in assenza di aria, giungono al suolo nello stesso istante e con la stessa velocità, è anche vero che quando colpisce il piede un martello fa molto più male di una piuma! Questa differenza è dovuta alla forza peso e dipende dalla massa dell’oggetto.
Un altro moto di grande importanza è il moto armonico, che descrive le oscillazioni di un pendolo, un dispositivo formato da una massa attaccata a un filo o a una sbarra rigida. Questo moto è periodico, nel senso che posizione, velocità e accelerazione si ripetono a intervalli regolari. Per questo motivo il moto armonico è alla base della costruzione degli orologi detti, appunto, a pendolo. Se, infatti, l’ampiezza delle oscillazioni è abbastanza piccola, la durata di queste ultime dipende unicamente dalle dimensioni del pendolo ed è tanto maggiore quanto più lungo è il suo braccio.
Le applicazioni del moto armonico vanno ben oltre gli orologi: il moto di un qualunque altro sistema che abbia periodicità può essere pensato come equivalente a uno o più pendoli in oscillazione (onde e oscillazioni). Per esempio, le vibrazioni delle corde di una chitarra oppure le orbite dei pianeti attorno al Sole sono rappresentabili come moti armonici. Il fatto che le oscillazioni che caratterizzano il moto armonico avvengano attorno a un centro e non si allontanino mai troppo da esso ci permettono di considerarlo stabile. Stabilità e instabilità sono proprietà caratteristiche del moto: una bicicletta ferma non è stabile, ma lo diventa acquistando velocità.
Per molto tempo gli astronomi si sono chiesti se ilnostro Sistema Solare è stabile. Il moto dei pianeti continuerà per sempre a essere abbastanza regolare come lo osserviamo oggi? Verso la fine dell’Ottocento, nel tentare di dare una risposta convincente, il matematico francese Jules-Henri Poincaré si imbattè in un nuovo concetto destinato a diventare sempre più importante nella scienza moderna: quello di caos.
Un moto è caotico quando bastano leggerissime perturbazioni per spingerlo su traiettorie completamente diverse. Lo sa bene chiunque giochi con un pallone: basta una piccola indecisione al momento del tiro oppure una minima imperfezione nel terreno di gioco e si rischia di mandare il pallone ben lontano dall’obiettivo. Questa situazione prende il nome di effetto farfalla per indicare che in presenza del caos una perturbazione lieve come quella provocata dal volo di una farfalla può avere grandi conseguenze. Non è semplice prevedere l’evoluzione futura di un moto caratterizzato da una sensibilità così elevata ai dati iniziali. Per questo motivo il caos è alla base di molti giochi: se così non fosse, le partite sarebbero talmente prevedibili da risultare noiose.
Quando un vaso cade per terra e si rompe, i frammenti vengono scagliati in ogni direzione. Se guardiamo con attenzione i suoi cocci noteremo che i pezzi più grandi tendono a rimanere più vicini al punto dell’impatto mentre i più piccoli, in genere, sono quelli che vanno a finire più lontano. Ciò che stiamo osservando è la conservazione della quantità di moto. Ogni corpo in movimento possiede infatti una certa quantità di moto che si calcola moltiplicando la sua massa per la sua velocità. Quando il vaso si rompe, la somma delle quantità di moto di tutti i frammenti deve essere uguale a quella del vaso intero al momento dell’impatto con il suolo. Se supponiamo che la quantità di moto del vaso venga suddivisa in parti uguali tra i vari frammenti, i pezzi più piccoli potranno raggiungere velocità più elevate pur lasciando invariato il loro contributo alla quantità di moto totale.
«Ecco, nella mia mano sinistra ho una piuma mentre nella destra ho un martello. Il motivo per cui oggi siamo qui è a causa di un signore che si chiamava Galileo, che molto tempo fa ha fatto una importante scoperta sulla caduta dei corpi provocata dalla gravità. Noi abbiamo pensato che il posto più adatto per confermare le sue scoperte fosse qui, sulla Luna. E così ora proveremo a farlo per voi. La piuma è quella di un falco, il simbolo della nostra missione. Ora li lascerò cadere entrambi: dovrebbero toccare il suolo contemporaneamente.
Visto? Galileo aveva ragione!».
David Randolph Scott, Il comandante dell’Apollo 15, 2 agosto 1971)
«Cadere nel vuoto come cadevo io, nessuno di voi sa cosa vuol dire. Per voi cadere è sbattersi giù magari dal ventesimo piano d’un grattacielo, o da un aeroplano che si guasta in volo: precipitare a testa sotto, annaspare un po’ nell’aria, ed ecco che la terra è subito lì e ci si piglia una gran botta. Io vi parlo invece di quando non c’era sotto nessuna terra né nient’altro di solido, neppure un corpo celeste in lontananza capace d’attirarti nella sua orbita. Si cadeva così, indefinitamente, per un tempo indefinito. Andavo giù nel vuoto fino all’estremo limite in fondo al quale è pensabile che si possa andar giù, e una volta lì vedevo che quell’estremo limite doveva essere molto, ma molto più sotto, lontanissimo, e continuavo a cadere per raggiungerlo. Non essendoci punti di riferimento, non avevo idea se la mia caduta fosse precipitosa o lenta. Ripensandoci, non c’erano prove nemmeno che stessi veramente cadendo: magari ero sempre rimasto immobile nello stesso posto, o mi muovevo in senso ascendente; dato che non c’era né un sopra né un sotto queste erano solo questioni nominali e tanto valeva continuare a pensare che cadessi, come veniva naturale di pensare».
(Dalle Cosmicomiche di Italo Calvino).
Le equazioni che descrivono i principali moti fisici sono abbastanza semplici: per usarle basta saper eseguire le radici quadrate e gli elevamenti a potenza.
Se si indica con v la velocità di un oggetto e con α la sua accelerazione, è possibile calcolare la distanza percorsa in un certo intervallo di tempo t.
Se il moto è rettilineo e uniforme l’accelerazione è nulla (quindi α=0), e perciò:
x=vt
Se si tratta di un moto uniformemente accelerato con partenza
da fermo, come avviene quando un oggetto cade per terra, allora:
x=(1/2)αt2
Partendo da queste equazioni e utilizzando le regole dell’algebra elementare si possono calcolare altre quantità interessanti. Per esempio, se vogliamo sapere quanto tempo impiega un oggetto per cadere da una certa altezza x
basterà riscrivere la formula del moto uniformemente accelerato nel seguente modo:
t= √(2x/α)
e sostituire al posto di α il valore dell’accelerazione di gravità.
Il regolare alternarsi delle fasi lunari rappresentava nell’antichità un comodo calendario naturale. Eppure per la meccanica celeste il moto della Luna è un problema molto complicato. L’orbita del nostro satellite subisce variazioni periodiche a causa dell’attrazione del Sole, mentre le maree che la Luna solleva sulla Terra la fanno lentamente allontanare dal nostro pianeta. Allo studio del moto della Luna si dedicarono i maggiori astronomi del passato, a partire da Isaac Newton che alla fine decise di gettare la spugna perché – disse – la Luna gli faceva venire il mal di testa ogni volta che ci pensava.