mente e cervello
Percepire, rappresentare, ricordare, imparare, pensare
Per sopravvivere e riprodursi l’uomo e gli altri animali hanno bisogno di informazioni sul loro ambiente, per esempio devono poter stimare la distanza che li separa dal loro rifugio, percepire l’aspetto visivo e l’odore dei compagni o il sapore dei cibi. Inoltre, devono memorizzare queste informazioni, combinarle tra loro e usarle per risolvere problemi nuovi. Ciò è possibile grazie a processi che avvengono nei loro cervelli. A tale insieme di processi, che comprendono la percezione, la memoria, l’apprendimento e il pensiero, si è soliti dare l’appellativo di mente. Per comprendere la mente ‘oltre’ che il cervello, bisogna perciò studiare il comportamento degli organismi e verificare quali informazioni sono disponibili nell’ambiente in cui vive ogni specie
La percezione – che consiste nella registrazione da parte dei nostri organi di senso delle proprietà degli oggetti che stanno là fuori, nel mondo – è un’attività meno semplice di quello che pare. La relazione tra gli oggetti del mondo e la rappresentazione che ce ne dà la mente è il risultato di una serie complessa di processi. Gli organi di senso non sono infatti costruiti come piccole finestre che fanno passare le copie degli oggetti del mondo esterno. Consideriamo, per esempio, cosa succede quando vediamo una mela. Sul fondo del nostro occhio (visione) c’è un tappeto di cellule sensibili alla luce, dette fotorecettrici; ciascuna di esse riceve una porzione minuscola della luce riflessa dalla mela e invia un segnale ad altre cellule, dette cellule nervose o neuroni e, da lì, attraverso vari passaggi, il segnale raggiunge i centri visivi del cervello. In un modo che non è stato ancora chiarito del tutto, la mela che noi vediamo è il risultato dell’attività di tanti e diversi processi cerebrali. Perciò gli oggetti che noi vediamo – oppure sentiamo, annusiamo, gustiamo – non dipendono solo dagli stimoli che arrivano agli organi di senso ma anche dal funzionamento del cervello.
Facciamo un altro esempio. Noi siamo convinti che quando vediamo un oggetto, per esempio un triangolo, ciò accade perché effettivamente l’oggetto esiste. Di solito è proprio così, ma non sempre. Con particolari immagini (come quelle qui a fianco) possiamo ingannarci. Nella figura vediamo infatti un triangolo, di un bianco diverso dallo sfondo, che sembra coprire parzialmente alcuni dischi rossi e un altro triangolo a solo contorno con la punta in giù. Il triangolo bianco però non c’è. È soltanto una costruzione del nostro cervello: se guardiamo bene, ci accorgeremo che i suoi margini tendono a svanire allo sguardo; e se ci munissimo di un apparecchio che consente di misurare la luce emessa da un oggetto (il fotometro), potremmo verificare che il bianco del triangolo, che sembra diverso dal bianco dello sfondo, è in realtà identico. Ciò si può facilmente verificare ritagliando da un foglio di carta una mascherina con un foro e ponendo il foro prima sopra il triangolo e poi sopra una porzione di sfondo. Vedremo che il bianco nei due casi ci apparirà identico.
Sarebbe però sbagliato spiegare questi fenomeni dicendo che si tratta di illusioni. Come facciamo a dire che la mente funziona correttamente quando c’è corrispondenza tra la misura effettuata dal fotometro e quella effettuata dal sistema visivo, mentre invece ci sarebbe illusione o cattivo funzionamento quando le due cose non coincidono? Il sistema visivo funziona sempre sulla base degli stessi principi! Allora tutta la nostra percezione è illusoria?
Il fatto è che il sistema visivo, come ogni altra parte del nostro cervello, si è evoluto, tramite i meccanismi della selezione naturale, per fornirci informazioni che ci consentano di sopravvivere nell’ambiente. I suoi errori, le cosiddette illusioni, derivano dal fatto che il sistema visivo fa del suo meglio per fornirci informazioni complete anche quando sono difficili da ottenere. Esso opera, cioè, sulla base di certe assunzioni, che sono state incorporate nel suo funzionamento lungo il corso dell’evoluzione biologica, perché si sono rivelate utili ed efficaci per la sopravvivenza.
Nell’ambiente naturale spesso gli oggetti non sono interamente visibili. Pensiamo a una tigre che si muove nella boscaglia. Il fogliame copre e scopre porzioni differenti dell’animale mentre questo si muove. Il sistema visivo dell’uomo (e di molti altri animali) si è evoluto incorporando il trucco per cui, in circostanze come queste, il cervello provvede a fornire, senza che noi ce ne rendiamo conto, le porzioni mancanti alla vista, ‘inventando’ egli stesso le parti del contorno che risultano coperte da altri oggetti. È per questa ragione che noi vediamo il triangolo illusorio della figura. Per la mente, il modo più ragionevole di interpretare il fatto che i tre dischi rossi non si vedano nel loro intero è ipotizzare la presenza di un oggetto che li occluda (il triangolo illusorio, appunto). Ma la mente fa anche di più.
La mente, per esempio, ci consente di attribuire un’esistenza continua agli oggetti anche quando questi non sono più accessibili agli organi di senso. Proviamo a deporre in un cassetto un oggetto, per esempio il nostro orologio, e poi a chiudere il cassetto. Noi siamo convinti che l’orologio dentro il cassetto continui a esistere, che sia sempre lì. Ma come possiamo esserne davvero certi? Non lo possiamo percepire in alcun modo!
La capacità di capire che gli oggetti continuano a esistere anche quando non li vediamo più è presente nei bambini anche molto piccoli. Prendiamo in considerazione un ingegnoso esperimento della psicologa Renée Baillargeon. Il bambino osserva la palla che è stata collocata dietro uno schermo. Poi lo schermo viene ruotato e, con un trucco, si fa in modo che possa percorrere l’intero tragitto, dalla posizione verticale al punto in cui giace orizzontale sulla superficie del pavimento, come se la palla non ci fosse più. I bambini guardano meravigliati un tale evento, segno che essi comprendono che dietro lo schermo la palla deve continuare a esistere.
Lo sviluppo di queste capacità è tuttavia lento per ciò che concerne il loro uso nel controllo delle azioni. Per esempio, se si fa vedere ripetutamente a un bambino piccolo una palla che scompare dietro uno di due schermi e poi, all’improvviso, la si nasconde dietro l’altro schermo, il bambino spesso guarda nella direzione giusta, ma cerca di afferrare la palla nella direzione sbagliata (quella del precedente schermo). Un tale comportamento, detto perseverativo (dal verbo perseverare, cioèinsistere), scompare progressivamente con l’età, quando maturano le regioni piùanteriori del cervello, che sembrano implicate sia nella capacità di tenere a mente, temporaneamente, un oggetto scomparso alla vista, sia nella capacità di inibire l’esecuzione di azioni apprese in precedenza. Adulti che hanno subito lesioni in queste regioni mostrano lo stesso tipo di comportamento perseverativo dei bambini nei quali questa parte del cervello è ancora immatura.
Per dare continuità all’esistenza degli oggetti e delle persone abbiamo bisogno di ricordarli, cioè di mantenerli in un magazzino di memoria. Quando le informazioni devono essere trattenute per tempi brevi si parla di memoria a breve termine o memoria di lavoro: si tratta della memoria che utilizziamo durante l’esecuzione di certi compiti. La memoria di lavoro mantiene per un breve tempo l’informazione in modo tale da consentirci di portare a compimento ciò che stiamo facendo; per esempio capire una frase, ma anche comporre un numero di telefono o mettere in ordine la propria stanza. Cosa succederebbe infatti se, mentre stiamo andando a riporre il maglione, dimenticassimo perché abbiamo il maglione in mano? Questo è purtroppo quel che accade ripetutamente alle persone che hanno la malattia di Alzheimer.
Diversi tipi di memorie. In altre circostanze la memoria si mantiene per tempi prolungati, anche per tutta una vita (memoria a lungo termine). Si ritiene che, mentre la memoria a breve termine rifletta un’attività neurochimica di tipo transitorio nel cervello, la formazione di memorie a lungo termine richieda una modificazione nella struttura delle cellule nervose. Vi sono differenti tipi di memorie a lungo termine, ciascuna mantenuta in porzioni differenti del sistema nervoso. Certe memorie sono acquisite lentamente, attraverso un processo di prove ed errori di cui spesso l’individuo non è pienamente consapevole.
Memorie procedurali. Imparare ad andare in bicicletta è un esempio di memorie procedurali, che permettono cioè di acquisire procedure che divengono sempre più automatizzate. Le memorie procedurali sono molto resistenti all’oblio. Anche dopo anni di inattività, ci accorgiamo di possedere ancora la memoria di come si fa ad andare in bicicletta. Un altro esempio può essere l’apprendimento di molti giochi elettronici: mano a mano che si gioca, si diventa sempre più bravi. Altri tipi di memoria, invece, non sono così resistenti.
Memorie dichiarative. A differenza di quelle procedurali, le memorie dichiarative possono essere acquisite rapidamente, senza la necessità di una noiosa ripetizione di molte prove di apprendimento. È il caso per esempio del riconoscimento dei visi oppure dei nomi delle persone. Lesioni focalizzate in certe parti del cervello possono però produrre effetti specifici su queste memorie fino a far perdere la capacità di riconoscere i visi familiari.
Le memorie dichiarative possono a loro volta essere suddivise in due tipi. Vi sono le memorie semantiche e le memorie episodiche. Per capire tale distinzione basta considerare la differenza tra ricordare che cos’è una torta di mele e ricordare quando è stata l’ultima volta che ne abbiamo mangiata una. La nozione di ‘torta di mele’ è qualcosa che giace depositato nel nostro magazzino generale di conoscenze, cioè nella memoria semantica. Ovviamente ci deve essere stata una prima volta in cui abbiamo assaggiato la torta di mele e qualcuno ci ha detto che si chiama così. Anche se non ricordiamo quando questo è accaduto, se un amico ci chiede cosa sia una torta di mele recuperiamo dalla nostra memoria semantica ciò che sappiamo della torta di mele, il suo aspetto, il suo sapore e forse anche, se la conosciamo, la ricetta per prepararla.
Invece la memoria che si impiega per rispondere alla domanda «quando è stata l’ultima volta che abbiamo mangiato torta di mele?» è di tipo episodico. In questo caso, dobbiamo richiamare uno specifico episodio della nostra esperienza, con una precisa connotazione spaziale e temporale (dove? quando?). Lesioni di certe parti del cervello possono produrre fenomeni di amnesia (cioè dimenticanza) selettiva per la memoria episodica: il malato non ricorda quando ha mangiato la torta di mele, ma continua a ricordare che cosa sia la torta di mele. In altri casi, invece, il malato vede una torta di mele, ma non sa più dire cosa sia né cosa potrebbe farne.
Per formare le memorie è necessario avere la capacità diapprendere. Un primo tipo di apprendimento, detto non associativo, si realizza quando un organismo registra il ripetersi regolare di un certo evento. Per esempio, un suono improvviso può farci sobbalzare la prima volta, ma se esso si presenta ripetutamente, a un certo momento cessiamo di prestarvi attenzione. Questo si chiama assuefazione ed è probabilmente la forma più semplice di apprendimento, che si riscontra anche in organismi molto semplici, per esempio nei vermi.
Un po’ più complesso è l’apprendimento associativo. Se ne conoscono due tipi. Uno, detto condizionamento classico o pavloviano (dal nome di Ivan P. Pavlov, lo psicologo russo che lo ha scoperto), è basato sulla formazione di un’associazione tra uno stimolo inizialmente neutrale e uno stimolo biologicamente importante. Il secondo tipo di apprendimento associativo, detto condizionamento operante o anche skinneriano (dal nome di Burrhus F. Skinner, lo psicologo americano che più di tutti lo ha studiato), è basato sulla formazione di un’associazione tra un’azione e un evento biologicamente importante. Per esempio, se lo spingere una levetta è seguito regolarmente dalla presentazione di cibo come ricompensa, un animale impara progressivamente a ripetere più spesso tale comportamento.
Se molta parte del comportamento può essere spiegata da un apprendimento basato su ricompense e punizioni, vi sono forme di apprendimento sia nell’uomo sia in altri animali che non si conformano a tale modello: per esempio spesso certi animali imparano in una sola prova e in assenza di ricompense evidenti. È il caso dell’apprendimento per esposizione che si realizza nell’imprinting, reso celebre dall’etologo Konrad Lorenz. L’apprendimento per esposizione serve per chi sta imparando a classificare gli eventi dell’ambiente, quando è importante stabilire rapidamente cosa è buono da mangiare, cosa è una mamma, cosa è un predatore e così via. Di contro, l’apprendimento associativo serve a cogliere le relazioni di causa-effetto tra gli eventi dell’ambiente. Per esempio: ogni volta che si mette in bocca una certa cosa rossa e luccicante (una ciliegia) si sente un buon sapore; ogni volta che si tocca un certo animale, esso ci morde e così via. Nel cervello meccanismi differenti stanno alla base di questi due tipi di apprendimento.
Imparare i concetti. Molte attività di pensiero possono essere eseguite già dai bambini molto piccoli e da animali diversi dall’uomo, per cui esse sembrano essere indipendenti dal linguaggio. Così, è possibile insegnare agli animali (o ai bambini che ancora non sanno parlare) a distinguere e classificare coppie di stimoli come eguali e diversi. Posti di fronte a coppie di stimoli nuovi, mai visti in precedenza, essi continueranno a classificarli correttamente come eguali o diversi. In maniera simile, è stato dimostrato che anche animali come i piccioni possono imparare alcuni concetti. Posti di fronte a un gran numero di diapositive, che possono contenere o meno l’immagine di alberi assai diversi di aspetto, i piccioni imparano a riconoscere le diapositive con le immagini contenenti un albero.
Quando poi vengono mostrate loro diapositive completamente nuove, mai viste prima, si rivelano ancora capaci di distinguere quelle con alberi da quelle senza alberi, come se avessero appreso il vero e proprio concetto di albero.
Gli animali possiedono certamente anche varie forme di comunicazione, spesso abbastanza sofisticate, ma che non sembrano essere veri equivalenti del linguaggio umano. Ciò che caratterizza il linguaggio umano è il fatto di essere infinitamente creativo.
Anche le api possiedono un linguaggio di tipo simbolico con il quale, mediante una particolare danza, comunicano alle altre api posizione e distanza di una fonte di cibo. L’uso di tale linguaggio però è ristretto al solo ambito del cibo, mentre con il linguaggio umano si può comunicare a proposito dei più svariati argomenti, comprese le cose astratte o che non esistono.
Linguaggio e pensiero. È ancora incerta la precisa relazione tra linguaggio e pensiero. Anche se il linguaggio verbale ha prodotto un’enorme differenza tra noi e le altre specie ed è, probabilmente, tra i fenomeni alla base dello straordinario sviluppo della cultura umana, non è detto che questo sia avvenuto modificando il modo in cui gli uomini pensano. Come abbiamo visto anche gli animali e i bambini piccoli che ancora non sanno parlare sanno però formare concetti. Inoltre ci sono malati che, a seguito di lesioni in certe regioni specifiche del cervello, perdono le capacità di linguaggio pur mantenendo normali capacità di pensiero; in altri può essere lesa la capacità di pensiero pur mantenendo un linguaggio relativamente normale.
L’indipendenza tra linguaggio e pensiero è stata sostenuta, sulla base della loro esperienza introspettiva, anche da grandi scienziati come Albert Einstein. Questi era solito osservare che le idee gli si formavano nella testa con le fattezze di un’immagine visiva e che, solo in seguito, egli provvedeva a tradurre tale immagine in una forma linguistica, cioè nel sistema simbolico del linguaggio verbale o in quello della matematica.