Medicina
Nell'Alto Medioevo occidentale la medicina resta, in generale, al di fuori del campo delle 'scienze' vere e proprie (arti del Quadrivio). Solo assai raramente la figura del medico è vista come quella di uno scienziato che opera sulla base di una dottrina definita, con una teoria e una prassi codificate e autonome. La salute dell'uomo viene percepita come prevalente ‒ se non esclusiva ‒ prerogativa della volontà divina, e l'intervento in caso di malattia è molto più taumaturgico che terapeutico. La condizione patologica resta a lungo oscillante tra lo status di metafora del peccato e quello di strumento di redenzione (per il valore che la sofferenza fisica assume nell'idea di imitatio Christi). È prova di questo il fatto che persista, nel Medioevo, un generale accavallamento di compiti e finalità tra l'idea di ospedale (all'interno del quale le professionalità mediche entreranno solo molto tardi, non prima del sec. XV), le varie iniziative e strutture per l'accoglienza dei poveri e degli indigenti (ospizi, salutatoria monastici, xenodochia privati) e quelle per la cura delle anime.
Scarsa e di seconda mano, per conseguenza, la letteratura medica, particolarmente conservativa verso il patrimonio culturale derivato dall'età classica, il cosiddetto 'galenismo alessandrino' (una dottrina, elaborata nei secc. V-VI dalla Scuola di Alessandria, che riduce a sistema i principi enunciati da Galeno dando loro una forma aristotelica); esso tende a uno scopo essenzialmente pratico, presentando una descrizione sintetica delle patologie e delle ricette destinate a un'applicazione immediata, senza giustificazione teorica.
In questo quadro qualcosa comincia a cambiare a partire dall'età carolingia. Il lavoro di Augusto Beccaria (1956), che ha delineato un quadro completo dei libri di medicina vergati tra i secc. IX e X, ci consente di disporre di un panorama di dati solido sul quale lavorare. Lo studioso ha individuato centocinquantotto codici (centosedici interamente di medicina), conservati in numerose biblioteche europee e contenenti millenovantotto testi. Il loro esame fa emergere, pur all'interno della rilevata continuità con la tradizione classica, non pochi tentativi di sviluppo delle traiettorie teoriche e terapeutiche. La situazione editoriale sembra quantitativamente meno florida per quanto riguarda l'Italia meridionale, dove l'unico centro attivo in questo periodo è Montecassino, al cui scriptorium si attribuiscono quattro volumi (Montecassino, Biblioteca del Monumento Nazionale di Montecassino, mss. Cassinesi 69, 97, 225 e 351); per altri undici, sempre in minuscola beneventana (dunque molto probabilmente italomeridionali), non è ancora possibile determinare l'origine precisa.
Ma una prima vera fase di decollo della medicina in quanto scienza si ha grazie alla straordinaria congiuntura che tra sec. XI e XII fa di Salerno il centro all'avanguardia in Europa per quanto riguarda la diagnostica, la terapeutica e la didattica. Come e più che in altre realtà europee ‒ in particolare nel Regno dei franchi, dove Gerberto di Aurillac (il futuro papa Silvestro II) alla fine del sec. X, grazie ai frequenti contatti con gli arabi di Spagna, aveva fatto crescere buone scuole mediche a Chartres, Reims e Montpellier ‒, a Salerno è attiva una pluralità di istituti che, se anche non estremamente compatti e omogenei nelle iniziative, nelle strutture, nelle pratiche, ha preso in seguito il nome di Scuola medica salernitana, restando per diversi secoli il principale punto di riferimento in Europa e nel Mediterraneo.
È proprio in seno all'eccezionale rigoglio salernitano che, nel corso del sec. XII, la medicina occidentale effettua una vera rivoluzione: grazie all'apporto della tradizione filosofica e medica araba, greca ed ebraica, arrivata sotto forma di traduzioni in latino e commenti (da ricordare, soprattutto, la figura di Costantino l'Africano [m. 1087], attivo tra Montecassino e Salerno), essa si trasforma da scienza puramente empirica e practica in una disciplina theorica e filosofica, in una vera e propria scienza. Al sec. XII appartengono i maestri più famosi del milieu salernitano, e anche la parte maggiore e più importante della produzione letteraria, come si presenta nella Collectio Salernitana di Salvatore De Renzi (e nelle pubblicazioni posteriori a quest'opera, tuttora fondamentale). Quel secolo vede il predominio europeo della Scuola medica salernitana, che fu paragonata, già dai contemporanei, allo Studio di Bologna per la giurisprudenza e a quello di Parigi per la teologia. Non a caso gli storici della medicina distinguono un 'periodo salernitano', che sarebbe appunto il sec. XII, lasciando l'etichetta di 'presalernitana' a tutta la medicina precedente (altomedievale).
L'acquisizione dello statuto di scienza da parte della medicina passa dunque attraverso il suo trasformarsi in disciplina teorica. Matteo Plateario (metà del sec. XII) è il primo che commenta, a Salerno, un testo medico (secondo la pratica universitaria della lectio che, prevedendo un ampio ricorso alla logica formale, costituisce un automatico inserimento della disciplina in ambiti sempre più speculativi e meno pratici): è l'inizio della cosiddetta 'medicina scolastica'. Bartolomeo da Salerno (metà del sec. XII) stende commentari all'Articella (un'antologia composta dalla Isagoge di Ioannizio, gli Aphorismi e i Prognostica, il De regimine acutorum di Ippocrate, il De urinis di Teofilo, il De pulsibus di Filareto, l'Ars di Galeno: veniva utilizzata soprattutto per controllare gli 'umori' del corpo e comprendere le ragioni della loro alterazione), un testo prevalentemente teorico, che viene così integrato, per indirizzare la pratica, da chiose di commentatori. Bartolomeo rappresenta dunque colui che avvia il gruppo dei suoi allievi verso gli orizzonti della theoria della medicina, nell'esplicito tentativo di inquadrare questa all'interno di un sistema di leggi della natura. Nelle Glosule in Iohannitium, Bartolomeo scrive: "la presente opera riguarda la filosofia: attraverso la medicina, che è una parte della filosofia" (Morpurgo, 1989, p. 41).
Dal punto di vista delle connessioni e degli scambi, è possibile affermare che la medicina nel sec. XII (ma anche successivamente) operi in un contesto mediterraneo (Salerno, Montpellier, Padova, Bologna, Cordova, Toledo, Venezia, Gerusalemme, Costantinopoli), senza comunque tralasciare l'Europa settentrionale (Parigi e Oxford), soprattutto grazie ai frequentissimi e intensi contatti che il Regno di Sicilia intrattiene con le altre realtà del 'Commonwealth' normanno. Non è un caso se uno degli intellettuali più cari al Barbarossa, Burgundione da Pisa (m. 1193), agisce nel Mezzogiorno d'Italia, dove effettua la traduzione dell'Arsparva galenica (e scrive poi il De natura hominis).
Del resto a Parigi, nella prima metà del Duecento, i libri di testo sono l'Articella e i commenti a questa, e poi alcune opere di Costantino l'Africano. Se una differenza di indirizzi è possibile rilevare, essa può essere individuata nel fatto che, mentre Salerno si caratterizza per un più alto livello speculativo e teorico, altre realtà scientifiche e accademiche, come Bologna e Montpellier, prediligono maggiormente i casi clinici specifici.
Questa medicina, ormai autentico crocevia internazionale dove confluiscono saperi da ogni parte dell'Europa e del Mediterraneo, si concentra su un ventaglio di branche divenuto assai ampio, che conduce alla produzione di opere importanti, che fondono antropologia e zoologia, botanica ed erboristeria, medicina omeopatica, astronomia e fisica. Si viene delineando un metodo 'sincretico' che, sulla base delle eziologie patologiche dei 'quattro umori', non si ferma a una pura antropologia metabolica, ma si basa sulla convinzione ‒ nella quale anche oggi si riconoscono alcuni filoni della sperimentazione in campo medico ‒ che qualsiasi malattia trovi spiegazione in una disarmonia dell'organismo.
Una sintesi delle caratteristiche tecniche della medicina occidentale tra sec. XI e XIII può essere abbozzata in questi termini. Il corpo umano, come ogni parte del mondo sublunare, si compone di quattro elementi in perpetua combinazione tra loro: fuoco, terra, aria, acqua. Al complesso del corpo, come a ciascuna delle sue parti, viene attribuito un 'temperamento', che deriva dalla mescolanza più o meno equilibrata degli attributi primari di caldo, freddo, secco, umido. Così, compito della medicina è quello di ristabilire un adeguato equilibrio tra gli elementi, lo squilibrio dei quali conduce dalla realtà fisiologica alla patologia. Nello specifico umano, il corpo è visto come composto di 'membri' (ossa, carne, nervi, ecc.) e di quattro 'umori': sangue (caldo e umido; corrisponde all'aria), flegma (freddo e umido; corrisponde all'acqua), bile gialla (fredda e secca; corrisponde al fuoco), bile nera (o melancolia, fredda e umida; corrisponde alla terra). Il suo funzionamento è assicurato da tre virtutes: naturale (sede: fegato), animale (sede: cuore), vitale (sede: cervello). A permetterne la diffusione sono tre sostanze leggere e sottili, gli spiritus. Dai vari gradi possibili di equilibrio tra questi elementi dipende il 'carattere' dell'individuo; la loro 'discrasia', cioè la rottura dell'equilibrio, porta alla malattia, che per lungo tempo è confusa col sintomo (una delle quaestiones più dibattute dalla scolastica medievale è, ad esempio, se il dolore sia una malattia). La patologia medievale distingue tra malattie che colpiscono una specifica parte del corpo (e che nei trattati vengono catalogate "a capite ad calcem") e quelle che colpiscono il corpo nel suo complesso. Molto temute sono le infezioni epidemiche (peste, lebbra, ecc.). Alle malattie è possibile opporsi con tre tipologie di terapia: dietetica, chirurgica e farmacologica (in gran parte di origine vegetale). Quest'ultima si basa essenzialmente sui 'semplici': le sostanze del regno animale, minerale e vegetale utilizzabili e/o utilizzate in chiave curativa. Esse prendono questo nome già in età antica, quando fiorisce una letteratura di natura sistematica e classificatoria, relativa soprattutto al mondo vegetale (Plinio, Dioscoride, Galeno, Apuleio). Un apporto notevole alla cultura medievale dei semplici fu dato dagli arabi, con traduzioni e commentari. La trattazione medievale ha come caratteristica una minore attenzione all'aspetto descrittivo, presentando soprattutto l'utilità terapeutica delle erbe. Nell'elencazione dei trattati si indicava, ad esempio, il carattere delle sostanze per evitare errori, sofisticazioni e alterazioni, segno questo di una maggiore professionalità dell'utente. Particolarmente specializzati in questa branca sono i soliti salernitani: basta qui ricordare i Dinamidia di Garioponto, il Graduum simplicium e il De simplici medicamine di Costantino l'Africano, e il famoso Circa instans di Matteo Plateario, di importanza fondamentale nella terapeutica, come fu riconosciuto già dai contemporanei che ne decretarono il successo, misurabile anche nella diffusione. Matteo sceglie un percorso espositivo ben determinato: prima la materia medica ‒ terapia, utilizzo dei rimedi ‒, poi caratteristiche e facoltà dei semplici, con un importante aggiornamento di Galeno. Per ciascuna pianta (circa cinquecento) si individuano l'origine geografica e le varietà, se ne riportano i sinonimi greci e latini, e in alcuni casi anche i nomi in volgare, rifacendosi probabilmente alle molteplici specie esistenti in zona campana, pugliese, lucana e comunque meridionale.
Il sec. XIII è il secolo 'scientifico' per antonomasia. Prova della definitiva assunzione della medicina tra le scienze 'alte' è la sua penetrazione in altri generi letterari. In ambito svevo, basti pensare alle scene mediche presenti nel Liber ad honorem Augusti di Pietro da Eboli, o al carme ritmico di Riccardo di San Germano sulla malattia che lo portò a un passo dalla morte, come al racconto della terrificante morte di Corrado IV per un veleno propinatogli da Manfredi e preparato da un medico di Salerno, nella cronaca di Saba Malaspina.
La letteratura medica indica chiaramente la realtà epistemologica ormai acquisita dalla disciplina: praticamente scomparsi i consilia e i ricettari di una pratica empirica, si è di fronte a una produzione altamente dottrinale, dove il commento e la glossa prevalgono sulla elaborazione originale. Il sec. XIII porta di suo un rafforzamento dell'importazione della cultura orientale. Le tradizioni mediche araba ed ebraica si caratterizzano per lo studio della fisica (Cordova) e per un'attenta ricerca delle proprietà farmacologiche dei preparati proposti dalla medicina antica (Ibn Yulyul [m. 944], Ibn Wāfid [m. 1074], Ibn Biklāriš, Jacob Anatoli [m. 1256], Mosè da Salerno [m. 1279], ecc.). Ma le novità più rilevanti vengono dalla definitiva acquisizione, e dall'avviata metabolizzazione, di Aristotele (soprattutto attraverso le opere di logica e di veterinaria) e di Avicenna (il 'filosofo della medicina': il suo Canone viene tradotto in latino, a Toledo, nella seconda metà del sec. XII, da Gerardo da Cremona). Si può parlare di una vera e propria irruzione in Occidente tra sec. XII e XIII dell'aristotelismo, frutto in parte delle iniziative culturali della corte regia di Sicilia (verso le ricordate traduzioni dalla tradizione scientifica orientale mostrò particolare interesse la corte normanna di Palermo; allo stesso modo si comportarono, dopo gli Altavilla, sia Federico II che Manfredi). La medicina dei primi decenni del sec. XIII può essere in qualche modo definita 'avicenniana': nel senso che anche i medici sono indotti a elaborare teorie sostenute da sempre più espliciti appelli agli esempi ben dettagliati della causalità meccanica, con maggiore consapevolezza rispetto al secolo precedente. E se l'avicennismo è fondamentalmente razionalismo e determinismo, la medicina è avicenniana soprattutto su tre piani: fisiologia, patologia e terapeutica. Non è secondario infine il fatto che il cosiddetto strumentalismo avicenniano (la dottrina delle 'verità diverse') torni estremamente utile anche nei momenti di contrasto (e non erano pochi) tra medicina/filosofia/religione (come emerge chiaramente, ad esempio, dall'opera di Cardinali [Magister Cardinalis], registrato come professore di medicina a Montpellier intorno al 1240).
La nuova medicina, razionalista e filosofizzata, pone più volte in questione il principio di autorità. Questo, alla corte sveva, è criticato dall'ebreo Yehudah, mentre Federico II, nel De arte venandi cum avibus, dissente da Aristotele; né mancano critiche allo stesso Averroè. Queste pretese di autonomia di metodo, insieme alle caratteristiche intrinseche dell'aristotelismo medievale, portano con sé polemiche anche furiose da parte dei teologi che vedevano nella curiositas della filosofia naturale dello Stagirita, e dei suoi traduttori e commentatori, il desiderio 'eretico' di plus sapere quam oportet sapere. In qualche caso la Chiesa interviene concretamente contro questa idea di una conoscenza della natura non per via mistica, ma, appunto, razionale: nel 1210, allo Studio di Parigi si vieta di studiare la natura in maniera 'scientifica' (ed è interessante il fatto che, una ventina di anni dopo, questo venga ammesso nella 'eretica' Tolosa). Inoltre, già dagli inizi del sec. XII la medicina viene vietata a monaci e a canonici regolari, mentre nel secolo successivo il divieto si allarga ai chierici dotati di benefici connessi con la cura delle anime.
Non si deve da questo dedurre che in età staufica la Chiesa romana non fosse sensibile ai problemi medici; al contrario, Agostino Paravicini Bagliani (1995) ha dimostrato una grande contiguità culturale e scientifica con la Curia federiciana (pur nel quadro di impostazioni dottrinarie e filosofiche abbastanza diverse). La corte papale è particolarmente interessata a quella che potremmo chiamare qualità della vita, la cura corporis (problema dell'invecchiamento, dell'igiene e della sanità nei viaggi esotici, della qualità dell'aria e dell'acqua). Con efficacia un cronista nota che, durante il pontificato di Gregorio IX, lo straripamento del Tevere era stato accompagnato da un'epidemia; questa pestilenza aveva innescato tra i romani sedizioni ed eresie mai viste prima; Gregorio IX, allora, evidentemente consapevole dei legami che intercorrevano tra quelle attitudini sociali e l'insorgere di malattie determinate dal concorso di fatti naturali e di-sequilibri architettonici, si impegnò a rifare la rete fognaria, onde restituire alla città il prestigio che meritava. In quell'occasione tuttavia fu necessario operare "tum monendo, tum castigando", col fine di ridurre i cittadini "ad sanitatem", e quest'azione fu compiuta anche con l'ausilio dei soldati di Federico II (Morpurgo, 2001, p. 161). Fu proprio da questo intreccio culturale, che legò il papato, il Mezzogiorno d'Italia e la Francia, che nel 1201 nacque a Roma, per iniziativa di Innocenzo III, l'ospedale di S. Spirito diretto da Guido di Montpellier.
Così, sul versante staufico, per lo studio della medicina militare: Adamo da Cremona, dopo l'epidemia devastante insorta tra le truppe imperiali destinate alla crociata del 1227, fissa regole precise per evitare contaminazioni ed epidemie molto più forti in conseguenza del radunarsi degli eserciti. Si rafforza e diffonde la consapevolezza della necessità che, per evitare i contagi, si debba garantire la purezza dell'acqua. Il valore di queste riflessioni risulta evidente dal fatto che Federico II inserisce nel Liber Augustalis (III, 48) una serie di norme che sanciscono come l'aria e l'acqua non debbano essere contaminate dalle attività produttive dell'uomo: "la salubrità dell'ambiente è un dono di Dio e a noi spetta conservarla secondo procedimenti precisi; si eviti di lasciar macerare il lino o la canapa all'aperto [...]. E i corpi dei defunti siano sepolti ben profondamente".
Parallelo al fenomeno della progressiva scientifizzazione e teoretizzazione della medicina corre quello della medicalizzazione della chirurgia e della veterinaria che, fino al sec. XI-XII, erano considerate scienze ausiliarie minori.
La chirurgia riveste in generale nel Medioevo un profilo epistemologico più basso rispetto alla medicina: il chirurgo è un operatore manuale, un 'pratico', digiuno delle competenze teoriche proprie del medico. Altro impedimento allo sviluppo dottrinale della disciplina è l'ostilità verso l'autopsia dei cadaveri che viene praticata dal pensiero teologico (Davide di Dinant [m. 1214] è condannato per panteismo al concilio di Sens del 1210, in quanto autore di una serie di opere anatomiche ed embriologiche): la pratica chirurgica è proibita a preti, diaconi e suddiaconi dal IV concilio lateranense del 1215, e ancora molto dopo la morte di Federico, nel 1299, papa Bonifacio VIII emana la bolla Detestandae feritatis, che attacca violentemente la violazione dell'integrità del corpo umano. La scientifizzazione della chirurgia va in direzione del rilevato avicennismo della medicina dei primi decenni del secolo. Accanto al famoso Teodoro Borgognoni, tra il 1245 e il 1248 Guglielmo da Saliceto, in un manuale in cinque libri dove molto ampia è la trattazione dell'anatomia, vuole mostrare la natura scientifica della chirurgia. L'esperienza di Bruno da Longobucco (autore di una Chirurgia) viene influenzata dalle tradizioni scientifiche di Salerno e Bologna. Egli presenta un'attenta descrizione delle metodologie per suturare le ferite, allegando anche i disegni degli strumenti, e si espone in un'aspra invettiva sia contro quanti praticano questa disciplina in modo artigianale, sia contro coloro che non la considerano con la dovuta dignità scientifica. Inoltre, la novità rappresentata dal metodo di Bruno consiste nel suo interpretare e valutare l'autorità degli scienziati antichi sulla base dell'esperienza e della pratica, cui sovrintende la ragione.
L'idea della chirurgia come branca della medicina trova la sua consacrazione a livello legislativo nel LiberAugustalis di Federico II. La professione di chirurgo è regolamentata dal comma 13 della III, 46: "nessun chirurgo sia ammesso alla pratica se non presenta lettere di maestri che tengono lezione alla facoltà di medicina, attestanti che egli, almeno per un anno, ha studiato quel ramo della medicina che conferisce la preparazione chirurgica, e soprattutto che ha imparato nella scuola l'anatomia dei corpi umani e sia perfettamente istruito in tale branca della medicina, senza la cui conoscenza non possono essere eseguite incisioni benefiche né essere curate una volta praticate". È pure in questo senso, dunque, nell'accoglimento cioè della chirurgia all'interno della scientiatheorica della medicina, e nel richiamo diretto all'anatomia, che la legislazione federiciana si presenta all'avanguardia nel panorama epistemologico del sec. XIII.
Anche la veterinaria trova in età normanno-sveva notevole sviluppo. Due le branche più praticate, in quanto strettamente connesse con l'attività venatoria e con quella militare: l'ornitologia e l'ippiatria. Sulla cura avium si conoscono pochi testi d'età altomedievale. Per quanto riguarda il sec. XIII, Federico II, oltre a essere egli stesso estensore di un trattato di falconeria, incoraggia, anche a fini di preparazione bibliografica per la sua opera, traduzioni in latino di opere di zoologia e veterinaria. Michele Scoto, intorno al 1230, fa dono all'imperatore del De animalibus di Aristotele e della Abreviatio di Avicenna. E, su commissione dello Svevo, Teodoro di Antiochia traduce il Moamin, manuale arabo di falconeria del sec. IX, opera sistematica, approfondita, 'scientifica'. Sulla base di questa letteratura, Federico stende il De arte venandi cum avibus, trattato di addestramento e cura dei falconi da caccia. Tutta questa attività, diretta e indiretta, testimonia l'interesse di Federico verso la practica, intesa soprattutto come verifica in concreto delle cose, ma senza escludere del tutto la teoria, come ben dimostrato da Anna Laura Trombetti Budriesi (Federico II di Svevia, 2000). Nel De arte non c'è interpretazione mistica della natura (lo testimoniano le miniature, precise e oggettive, che intendono trasmettere decusetutilitas, del codice Palatino). Federico, rifiutando anche l'idea di mistero della natura, compie il passaggio dalla falconeria all'ornitologia, di cui è il vero fondatore. La scarsissima diffusione del testo, però, è al tempo stesso testimonianza ‒ come rilevato da Alberto Varvaro (1996) ‒ di una sostanziale "inattualità" del libro. L'attrazione della veterinaria (come già della chirurgia) nell'ambito delle scienze dotte è dimostrata anche dall'opera di Giordano Ruffo, il De medicina equorum (v. Ippiatria). Il carattere dell'opera di Giordano è fondamentalmente pratico e manifesta il nuovo approccio alla tradizione zoologica proprio della cultura sveva.
L'intento politico-culturale di Federico è fondamentalmente quello di ricondurre la medicina meridionale (in particolare, ovviamente, Salerno) verso un sempre maggiore riconoscimento delle traiettorie metodologiche e ideologiche con cui guardava alla medicina la Curia romana. Fra tarda età normanna ed età sveva si ha così una situazione di sostanziale strabismo tra le direttive della politica culturale regia e l'effettiva produzione scientifica. Ma è in generale un po' tutto il pensiero medico europeo che, sotto la spinta della Curia pontificia, tende a ridimensionare l'importanza dell'elemento razionalistico nelle pratiche mediche. È spia evidente di ciò la sfiducia nei medici che si coglie nella comunità scientifica internazionale al passaggio tra sec. XII e XIII. Gervasio di Tilbury, nei suoi Otia imperialia (in Scriptores rerum Brunsvicarum, a cura di G.W. Leibniz, Hannoverae 1707), racconta il famoso aneddoto secondo cui tre maestri salernitani sarebbero andati ‒ per invidia ‒ a Pozzuoli a rompere le targhe sulle vasche che indicavano le proprietà curative delle terme flegree, mentre altri episodi di scetticismo verso la classe medica emergono dalle parole di Giovanni di Salisbury (Metalogicon, a cura di C.Ch.J. Webb, Oxford 1929). A livello dottrinale, Vincenzo di Beauvais (Speculum maius) sente il problema della definizione epistemologica della medicina e la colloca ibridamente sul confine tra le arti liberali e le scienze empiriche: "unde quasi media est inter practicam et theoricam" (Zecchino, 2002, p. 45).
Il processo va in direzione di un generale ridimensionamento dell'aspetto più filosofeggiante e razionalistico intrapreso dalla medicina salernitana durante il sec. XII (quello che abbiamo definito avicennismo). Taddeo Alderotti (1223-1295), definito da Dante "ippocratista", allo Studio di Bologna vuole che la medicina coniughi sempre ratio ed experientia. Gerardo da Cremona rimprovera gli esponenti della Scuola salernitana di aver escluso l'astrologia dalle scienze ausiliarie e interconnesse con la medicina ("sic medicus astronomiam ignorans, cecus, imperfectus est", dice nei Flores astronomiae [Morpurgo, 1989, p. 54]); concezione, questa, che tornerà invece particolarmente in auge presso la corte federiciana, sotto il coordinamento di Michele Scoto. Nelle opere mediche alla corte staufica c'è sempre uno stretto rapporto con l'astrologia e con la teologia. È questa una politica culturale che del resto era stata anche del 'maturo' regno di Ruggero II, a partire cioè dal 1140: l'abbandono dell'idea del medico quale physicae rationis sectator, per un ritorno a un'idea più pratica ed empirica della disciplina. I contatti tra i salernitani e le 'nuove' scuole parigine (Adamo del Petit Pont, ecc.) erano stati facilitati dalla permanenza in città, non lunga ma intensa, dell'antipapa Anacleto II Pierleoni (m. 1138). Appartenente a una famiglia d'origine ebraica, Anacleto aveva studiato in Francia nelle moderne scuole di logica; politicamente, egli era sostenuto da Ruggero II, e insieme si contrapponevano a un vasto schieramento internazionale che vedeva, dalla parte di Innocenzo II, l'imperatore Lotario, Luigi VI di Francia ed Enrico I d'Inghilterra. In questo schieramento si trovava il più feroce accusatore dei loyci, Bernardo di Chiaravalle. Innocenzo voleva abbattere Anacleto, così come Bernardo voleva distruggere il fenomeno delle nuove scuole, Abelardo e tutti i sostenitori intransigenti della logica come indipendente dalla teologia. Piero Morpurgo (ibid., pp. 57-59) avanza l'intrigante ipotesi che Bartolomeo da Salerno possa essere stato membro della cancelleria di Anacleto. È con la morte di Anacleto, nel gennaio 1138, che Ruggero II abbandona il sostegno a quella fazione ideologica, mutando così gli indirizzi della monarchia normanna anche in materia di politica culturale e scientifica. Può essere indicato nell'autore anonimo del Compendiosus tractatus de philosophia et eius secretis (Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Barb. Lat. 283), dedicato al cancelliere ruggeriano Roberto di Selby, che attacca duramente l'eccessivo razionalismo dei salernitani (esaltando viceversa la scienza degli astri, perché essa, più di ogni altra disciplina, permette di ammirare il mirabile ordine della creazione), e nell'Arcimatteo (forse il cancelliere Matteo d'Aiello), l'emergere delle premesse di quel complesso intreccio tra fisica, filosofia e teologia che apparirà sia in Pietro Ispano, sia in Michele Scoto, e che vede nella scienza degli astri la più nobile delle attività dell'intelletto. La ripresa da parte di Federico di questo tipo di politica culturale fa dunque sì che scienza e religione tendano di nuovo a coniugarsi.
Federico, pur con i doverosi ridimensionamenti di tale aspetto, fu notoriamente un appassionato di scienze (e basta la stesura del De arte venandi a confermarlo). Egli incrementò le traduzioni dal greco e dall'arabo di opere mediche e scientifiche, secondo una linea già aperta dal nonno Ruggero. Su questo sfondo va letto il suo specifico interesse per la medicina. Fu sempre molto attento all'igiene e alla dieta, e si racconta come soffrisse di una lieve forma di nosofobia (aveva l'incubo della paralisi). Del suo stretto entourage facevano senza dubbio parte, oltre che scienziati e filosofi, anche medici. Tra questi, va ricordato il suo chirurgo personale, Guglielmo da Saliceto. Senz'altro suggestiva, e filologicamente fondata, l'ipotesi di Ortensio Zecchino (2002) secondo la quale l'incipit del Proemio del Liber Augustalis, il celeberrimo "Post mundi machinam", sarebbe modellato sull'attacco di un'opera medica: la Cyrurgia (nota anche come Rogerina) di Ruggero Frugardo (sec. XII), il cui prologo, che pure inizia con un richiamo alla creazione dell'uomo voluto ad immagine e somiglianza del suo Creatore, inizia con le parole "Post mundi fabricam".
Di Federico è nota l'abitudine di circondarsi di dotti di svariate discipline e di discutere con loro secondo lo schema intellettuale della quaestio universitaria (si pensi ai quesiti posti a Ibn Sab῾īn e a quelli matematici inviati per il tramite di Giovanni da Palermo a Leonardo Fibonacci da Pisa). Ma egli ha predilezione anche per le arti pratiche, all'interno del suo interesse per i problemi cosmologici e, più in generale, metafisici.
Il ridimensionamento dell'avicennismo porta in età sveva a una produzione medica maggiormente attenta alla pratica, pur senza abbandonare mai del tutto la traiettoria teorica propria della disciplina ormai dalla metà del sec. XII. Tra le opere più importanti nel quadro della trattatistica medica orbitante intorno alla corte sveva, si possono segnalare, per la clinica e/o la farmacologia: il De balneis Puteolanis di Pietro da Eboli, forse dedicato a Federico nel 1212 (trentasette epigrammi in distici latini), un elenco di tutte le fonti naturali attive in quell'epoca distribuite sul territorio flegreo fino a Miseno, contraddistinte, oltre che dal nome, dalle specifiche qualità terapeutiche di ognuna; il De retardatione accidentium senectutis (probabilmente dedicato a Federico) di Teodoro di Antiochia, che coniuga la teoria di Avicenna sulla vecchiaia coi principi vitalistici dell'alchimia; la Epistola de conservanda sanitate dello stesso Teodoro; la Epistola ad imperatorem Fridericum super regimen sanitatis (London, British Library, ms. Harley 5218) di Pietro Ispano; il Libro de' consigli de' poveri infermi di Michele Scoto (pseudo); il Régime du corps di Aldobrandino da Siena; il Tractatus de regimine iter agentium vel peregrinantium di Adamo da Cremona, sui disagi provocati dai lunghi viaggi come le crociate, che attinge ampiamente al Canone di Avicenna e tratta tutte le fasi della cura corporis, dieta, umori, caldo, freddo, sete, fame; la Summa medicinalis di Gualtiero Agilon; le novecentocinquantatré prescrizioni mediche e farmacologiche di maestro Bene, "medico dell'imperatore Federigo". Per l'oftalmologia: il De passionibus oculorum di Zaccaria, medico di corte; il De practica oculorum di Aldobrandino da Siena, composto intorno al 1234 o forse nel 1256. Per la chirurgia: la Cyrurgia di Guglielmo di Saliceto, forse redatta su commissione dello stesso imperatore in occasione dell'incontro a Pavia con l'autore, visto che l'explicit di un manoscritto riporta che l'opera fu redatta "ad petycionem domini Frederici imperatoris" (Zecchino, 2002, p. 40); la Cyrurgia di Teodoro Borgognoni; la Cyrurgia di Ruggero Frugardo. Per la veterinaria: il De arte venandi cum avibus di Federico II; la Medicinaequorum di Giordano Ruffo. Fra i commenti si ricordano quello all'Articella di Cardinali e quelli di Pietro Ispano alle Diete, Febbri e Urine di Isaac Israeli. Va infine ricordato Gerardo da Cremona: oltre al Canone di Avicenna, tradusse opere di filosofia naturale di Aristotele, i nove trattati medici di Galeno e importanti opere di medicina araba come il Breviarium di Serapione, la Chirurgia di Abulcasis e diversi lavori di al-Rāzī, tra cui il Liber ad Almansorem.
Se è vero che può essere difficile individuare una filosofia della scienza specifica dell'età sveva, è forse possibile delineare alcune direttive della politica scientifica regnicola di Federico. È in questo senso assai indicativa l'importanza conferita all'esperienza, rispetto al principio di autorità, nel prologo del De arte venandi cum avibus dello stesso imperatore: "nella stesura [di questo libro] abbiamo seguito anche Aristotele, ma solamente ove è stato opportuno. Infatti, su molti argomenti, come abbiamo appreso attraverso l'esperienza, soprattutto a proposito delle nature di alcuni uccelli, egli sembra discostarsi dal vero. Non seguiamo, perciò, puntualmente, il principe dei filosofi, in quanto, verosimilmente, praticò poco o nulla la caccia con gli uccelli, che Noi, invece, abbiamo sempre amata e praticata. A proposito di molti argomenti di cui tratta nel Libro degli animali, egli sostiene di averne sentito parlare da altri, ma ciò che essi avevano asserito egli probabilmente non lo vede, né lo videro coloro che lo dicevano: la sicura certezza non scaturisce dal sentito dire" (Federico II di Svevia, 2000, pp. 3-4). Nel suo Liber Introductorius, Michele Scoto tende a ridimensionare la distinzione tra ratio e fides, e si incarica di conciliare la scienza con l'autorità dei Padri della Chiesa (cita prevalentemente autori altomedievali, tralasciando, a grandi linee, la nuova scienza araba). Terrisio di Atina, maestro a Napoli, sostiene semplicemente che la natura non ha una sua indipendenza e proprie leggi: "discite quod natura sui iuris non est" (Torraca, 1911, pp. 231-242). La forte cesura instaurata dalla corte sveva rispetto alla Scuola salernitana del sec. XII, di cui può ben essere simbolo l''angelologia' di Michele Scoto (secondo cui fisiologia e patologia degli esseri umani dipendono anche dagli angeli), non può essere considerata una risposta 'arretrata', che si ancora, cioè, alle vecchie polemiche antiaristoteliche aperte da Bernardo di Chiaravalle, riprese con decisione nella prima metà del secolo successivo (nuovamente a Sens nel 1210, da Roberto di Courçon nel 1215, e poi da Gregorio IX nel 1231), e non costituisce pertanto un passo indietro sulla strada del processo di razionalizzazione e scientifizzazione delle discipline mediche. L'interesse politico-ideologico di Federico sembra proprio quello di conciliare ratio e fides: la ratio teologica doveva essere conciliata con quella astronomica e biologica. In questo senso si può parlare del risorgere di un vero e proprio 'agostinismo' in Italia meridionale nel sec. XIII, particolarmente evidente nell'opera del cosiddetto Arcimatteo, il quale sostiene che Aristotele è un buon cattolico.
Il 'dirigismo' di Federico si fa sentire molto più di quello dei sovrani normanni. A Melfi, nel 1231, dedica ben cinque delle sue costituzioni ai medici e alla medicina, regolamentando in maniera precisa il curriculum degli studi, l'accesso alla professione, diritti e doveri del medico, e mettendo al centro della preparazione e della professione la Scuola di Salerno. Le norme contenute nelle Constitutiones Melphitanae sotto i titoli III, 46 e III, 47 regolamentano farmacia e farmacisti, a protezione del paziente-consumatore. Federico introduce il divieto di fare società coi medici e l'obbligo per il farmacista del giuramento di operare "sine fraude" e di preparare scrupolosamente i farmaci secondo la ricetta del medico, alla presenza di garanti (III, 46.8). La legge prevede anche controlli sull'operato dei farmacisti: occorre loro una preventiva autorizzazione da parte dei maestri di fisica di Salerno (III, 47.1): "[…] elettuari, sciroppi e altre medicine […] vogliamo anche che queste preparazioni vengano autorizzate dai maestri di fisica di Salerno". Il comma 10 dello stesso articolo prevede l'apertura di farmacie solo in determinate città. La costituzione III, 48, invece, dimostra ‒ come detto ‒ la grande attenzione di Federico all'ecologia e alla medicina preventiva, con una forte tutela per la salubrità dell'aria e dell'acqua. Nelle cinque norme sulla medicina si regolamentano in maniera precisa anche diritti e doveri del medico. Sempre la III, 46 regola la frequenza minima delle visite agli ammalati e la conseguente parcella. Inoltre, vieta tassativamente ai medici di fare società coi farmacisti e di tenere case di cura private (forte distinzione tra i ruoli di iatros e di pharmakeus: il commercio dei prodotti farmaceutici è proibito ai medici). Questa distinzione ha probabilmente lo scopo di porre rimedio al conflitto tra theoria e practica di cui si è parlato. Inoltre, a differenza di altre legislazioni coeve, il medico del Regnum meridionale non è tenuto ad ammonire il paziente a chiamare il sacerdote, prima di prenderlo eventualmente in cura.
Federico distingue bene il suo impegno culturale e scientifico da quello legislativo e politico. Nella sua concezione, i medici (i medici, non i professori di medicina) sono funzionari pubblici, proprio come le tante altre magistrature create da lui stesso e da suo nonno Ruggero, che dovrebbero consentirgli la strutturazione di quel tipo di stato, maggiormente 'pubblico' e meno feudale, che il grande sovrano ha in mente. Intanto, al tempo stesso, tenta di mantenere gli orientamenti epistemologici della medicina su traiettorie non troppo ostili alla Curia romana.
Resta il fatto che l'idea, sviluppatasi in ambiente svevo, di un Federico padrone della natura in quanto ne conosce gli elementi e desidera controllarne le forze, è comunque un'idea tendenzialmente eretica e 'ghibellina', in quanto costituiva un vero e proprio affronto all'ordinato svolgersi di eventi che dovevano essere costantemente sotto il controllo divino. Saba Malaspina, lo storiografo filoangioino, ascrive la caduta dell'Impero svevo al fatto che "per artem mathematicam" Federico aveva osato conferirsi gli stessi poteri di controllo di Dio (M.G.H., 1999, p. 94).
"Si può parlare di un carattere transnazionale della medicina del periodo di Federico II: se la maggior parte delle sue potenzialità si esplicò secondo un impianto meccanicistico e si sviluppò sulla base delle teorie di Avicenna, tuttavia il successo di quegli sforzi le fornì la maturità intellettuale necessaria per distaccarsi dalle sue origini e per creare una diversa tradizione medica latina. Il potenziale di quella tradizione sarebbe stato sviluppato pienamente intorno al 1300, nell'età di Taddeo Alderotti e Arnaldo di Villanova; ma i primi segni si manifestano nella medicina avicenniana della prima metà del secolo XIII" (McVaugh, 1994, p. 121).
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