Marte
Il valore del coraggio
Simboli del valore militare e dell’ardore guerriero, le divinità della guerra, Ares in Grecia e Marte a Roma, avevano funzioni e culti diversi: meno amato il violento Ares; con un rilievo centrale l’antichissimo Marte, padre addirittura del fondatore di Roma, Romolo. Le feste e le cerimonie in suo onore, a Roma, esaltavano la forza e il coraggio dell’uomo: ancora oggi avere un carattere marziale significa essere sprezzanti del pericolo
La guerra, nel mondo antico, era molto frequente e l’attività militare era una delle occupazioni più praticate dall’uomo. Ogni popolo, pertanto, aveva un suo dio della guerra, che proteggeva i soldati in battaglia ed era il simbolo della virtù e della forza.
Anche i Greci e i Romani avevano un loro dio della guerra. Le caratteristiche del greco Ares e del romano Marte erano tuttavia molto diverse, così come diversi sono il culto e la simpatia che i due popoli riservavano a queste divinità.
Per i Greci la divinità del vigore guerresco era Ares, l’unico figlio della coppia divina formata da Zeus (Giove) ed Era (Giunone). Giudicato persino dal padre «il più detestabile dei figli», Ares non era un dio molto amato e venerato, perché rappresentava soprattutto la furia e le devastazioni provocate dalla guerra. Il suo nome era forse da accostare a termini indicanti l’«urlo» guerriero o il «furore». In battaglia era accompagnato da quattro demoni terribili: Terrore, Spavento, Discordia e Battaglia.
Pochissimi erano i templi a lui dedicati (solo a Tebe e ad Atene) e rarissime le cerimonie in suo onore.
Ares era particolarmente preso di mira dai poeti (pacifisti in ogni età), che lo raffigurano come sanguinario e violento e che spesso descrivono episodi in cui è protagonista negativo e perdente. Nell’Iliade parteggia per i Troiani e in due scontri subisce i colpi prima di Atena e poi addirittura di Diomede, che è un mortale. Anche Eracle si scontra con lui in due occasioni, umiliando il dio e mettendolo in fuga. A volte le sue imprese finiscono così male che Ares viene deriso e sbeffeggiato: i due giganti Oto ed Efialte lo rinchiudono in una botte di ferro, dove rimane chiuso per più di un anno; Efesto (il romano Vulcano) lo sorprende a letto con la propria moglie Afrodite (Venere per i Latini) e imprigiona i due in una rete suscitando il riso di tutti gli altri dei.
Vuole la leggenda che Rea Silvia, vergine sacerdotessa di Vesta, dopo aver sognato di essere posseduta da Marte desse alla luce Remo e Romolo, futuro fondatore di Roma. Marte è quindi il padre di Romolo e di tutta la stirpe di Roma: si comprende, perciò, quanto fosse diversa la venerazione dei Romani per Marte rispetto all’atteggiamento dei Greci nei confronti di Ares.
Marte era infatti una delle più antiche divinità romane, insieme a Giano, e come Giano era protettore anche dei lavori agricoli e dell’intero anno, che anticamente iniziava proprio col mese a lui dedicato, marzo.
Marte è insomma il dio che simboleggia le due caratteristiche fondamentali dei Romani: agricoltori e guerrieri al tempo stesso. Insieme a Giove e Quirino (e successivamente con Giunone e Minerva) forma la cosiddetta triade capitolina, il gruppo degli dei più importanti venerati sul Campidoglio. Numerosi erano i templi in suo onore, a Roma e in tutta Italia, e numerosissime le cerimonie e le feste a lui dedicate.
Le molte feste in onore di Marte che si svolgevano nell’antica Roma avevano in comune l’esaltazione del coraggio dei giovani romani e dei soldati. I sacerdoti Salii, nei primi giorni di marzo, sfilavano per le vie della città danzando con le armi in pugno e depositano nei santuari i talismani che rendevano Roma invincibile. Nel cosiddetto Campo Marzio i giovani sacrificavano al dio schierandosi come l’esercito prima della battaglia, e quindi si cimentavano in corse di cavalli. Sempre nel Campo Marzio i giovani si esercitavano nell’arte della guerra. Ancora oggi le tecniche di difesa personale o gli sport che prevedono l’uso delle armi sono definiti arti marziali.