Proust, Marcel
Rivivere il tempo perduto
La grandezza e l’originalità dello scrittore francese Marcel Proust nascono da una singolare mescolanza di due poetiche opposte: una grandissima capacità analitica da un lato, e dall’altro l’esaltazione delle forme intuitive di conoscenza e dell’interiorità dell’individuo. Con queste modalità espressive lo scrittore francese ha costruito un nuovo modello di romanzo, che ancora oggi si pone come punto di riferimento esemplare
Quali soluzioni formali occorre adottare per scrivere un romanzo di vaste ambizioni psicologiche e sociali, quando si aderisce a una visione del mondo secondo cui la verità è inconoscibile e inesprimibile per chi usi i comuni strumenti razionali, e può solo essere di tanto in tanto intravista, in modo intuitivo, come in un lampo fugace? Questo è il problema di fronte al quale si trovò il giovane Marcel Proust, che, essendo nato a Parigi nel 1871, visse la propria adolescenza e giovinezza in pieno decadentismo, un periodo caratterizzato dal prevalere di filosofie irrazionaliste, che ponevano il mistero, il dolore e l’interiorità al centro della condizione umana. Una conseguenza fu, sia in poesia, sia in prosa, il prevalere delle forme brevi e frammentarie rispetto a quelle tese a rispecchiare la totalità umana. Il romanzo, che aveva trionfato sino allora, entrò in crisi.
Il primo libro di Proust, I piaceri e i giorni, è del 1896. Raccoglie sei racconti brevi che narrano le sofferenze di personaggi raffinati e inquieti, alcune poesie alla maniera di Baudelaire, e vari frammenti, a imitazione degli autori seicenteschi di massime e di ritratti psicologici. Insomma: quanto di più lontano da un romanzo. Però, in quello stesso anno, Proust comincia a scrivere un vasto romanzo di formazione, che narra le esperienze di un giovane chiamato Jean Santeuil, ampiamente autobiografiche. Ma i tempi non sono maturi. Dopo averne sospeso e ripreso più volte la stesura, getta la spugna e questo manoscritto sarà ritrovato e pubblicato solo nel 1952.
Nel 1900 morì lo scrittore inglese John Ruskin, cultore di arti figurative e maestro di un pensiero che, pur collocando l’arte al vertice delle attività umane, invitava però a superare il pessimismo e l’irrazionalismo. Cominciò per Proust una stagione ruskiniana, tra i cui frutti restano le traduzioni del libro su una delle più belle cattedrali gotiche francesi, La Bibbia di Amiens (1904), e di Sesamo e i gigli (1906), elogio delle biblioteche pubbliche.
La morte del padre Adrien nel 1902 e, due anni dopo, quella della amatissima madre, Jeanne Weil, di famiglia ebrea, provocano in lui una crisi e una svolta. Da un taccuino del 1908 risulta che a quell’epoca aveva già scritto alcuni episodi del nuovo romanzo, Alla ricerca del tempo perduto, raccontato stavolta in prima persona, a differenza dell’incompiuto Jean Santeuil. Proust riscrive molte volte gli stessi episodi per ottenere un perfetto adeguamento della forma al pensiero, ma, più che a togliere, tende ad aggiungere nuovo materiale narrativo. Così, dalle due parti iniziali (Tempo perduto, Tempo ritrovato) si arriva poco a poco a sette libri, pubblicati tra il 1913 e il 1927: Dalla parte di Swann, All’ombra delle fanciulle in fiore, La parte dei Guermantes, Sodoma e Gomorra, La prigioniera, Albertine scomparsa, Il tempo ritrovato (gli ultimi tre postumi, essendo morto lo scrittore nel 1922).
«Per molto tempo sono andato a letto presto la sera»: inizia così il prologo del romanzo, incentrato sull’analisi del dormiveglia, regione di confine tra coscienza e inconscio. Al risveglio il Narratore stenta, nel buio totale, a collocarsi in questa o quella camera, finché la memoria si fissa su quella della casa di Combray, villaggio di provincia, dove la sua famiglia si recava un tempo a trascorrere le vacanze di Pasqua. Ma dell’infanzia in campagna ogni memoria è stata cancellata, tranne quella di un trauma doloroso: una sera, a causa della presenza a cena di un vicino di casa, la madre non sale a dare al bimbo il bacio della buonanotte. In un crescendo di ansia da abbandono, il fanciullo ha una crisi di nervi acuta.
Solo questo ricordo-incubo è sopravvissuto, fino al giorno in cui, molti anni dopo, inzuppando a Parigi un biscotto chiamato petite Madeleine in una tazza di tè, il Narratore viene colto da un’emozione straordinaria, per l’analogia tra quel sapore e qualcosa di identico provato in un istante dimenticato del passato. Concentrandosi, ricorda che, quand’era bambino, a Combray, una zia gli offriva lo stesso tipo di biscotto, bagnato in una infusione di tiglio.
Un frammento di tempo perduto risorge così dall’oblio. Per associazione di idee, riaffiora anche il ricordo della vecchia casa col suo giardino, delle strade del villaggio, della antica chiesa, e della campagna circostante dove, coi familiari, il Narratore faceva ogni giorno lunghe passeggiate. Talvolta si dirigevano dalla parte di Méséglise, passando accanto alla villa di Swann, un raffinato esponente della borghesia ebraica. Altre volte, invece, andavano, lungo il fiume, verso il castello di Guermantes, abitato dai signori di quella zona, una famiglia aristocratica dall’illustre passato, giunta al vertice della mondanità parigina.
Solo molto più tardi, il Narratore riuscirà a penetrare nell’universo meraviglioso (o supposto tale) di questa élite sociale, e ne resterà deluso. A Parigi, egli esplorerà dunque questi mondi (borghesia e aristocrazia), sperimentando le croci e le delizie dello snobismo, in un pellegrinaggio attraverso le sofferenze amorose, prima per Gilberte, la figlia di Swann, e poi per Albertine. Centinaia di personaggi, alcuni dei quali delineati con una eccezionale forza psicologica che li rende indimenticabili, si affollano attorno al lettore sempre più incantato.
Accompagnando il protagonista dalla prima infanzia fino alla vecchiaia, il racconto è punteggiato da vari incontri con la morte di persone care. Dopo la scomparsa di Albertine, il Narratore visita Venezia e Padova. La descrizione delle distruzioni materiali e morali provocate dal primo conflitto mondiale, sia a Parigi, sia a Combray, suscita impressioni profonde. Per i suoi gravi disturbi nervosi il Narratore si fa ricoverare in case di cura. È scoraggiato, si sente fallito. Ha perso la fiducia sia nella propria vocazione di scrittore, sia nel valore della letteratura. Ma, a questo punto, c’è una svolta insperata.
Dopo la guerra, torna a Parigi e si reca a un ricevimento mondano. Nel cortile, fa qualche passo indietro perché c’è un’automobile in manovra. Poggia il piede su una pietra difettosa, per un attimo perde l’equilibrio. È assalito dalla stessa sensazione di felicità che gli aveva dato, tanti anni prima, il sapore della petite Madeleine. Stavolta è una visione di luce e di azzurro abbagliante. Stenta a riconoscerla, ma poi capisce: è Venezia. Nel Battistero di S. Marco, per meglio osservare un mosaico raffigurante il Battesimo di Cristo, era indietreggiato e aveva perso l’equilibrio allo stesso modo.
Stavolta il Narratore ha occasione di riflettere a lungo sul significato delle memorie involontarie, ed elabora un’estetica della dimensione profonda e interiore. Tutti gli apparenti valori della vita sono falsi miti. Storia, scienza e società sono illusioni. Non sarebbe del tutto assurdo sostenere che Proust ha scritto un romanzo di varie migliaia di pagine per dimostrare che tutto ciò di cui in genere parlano i romanzi (compreso il suo, tranne le 20 o 30 pagine in cui sono descritte alcune memorie involontarie) è privo di interesse. Ma non è esattamente così. In realtà la sua è un’estetica doppia, basata anche sulla necessità di estrarre dall’esperienza le leggi generali della psicologia e dei comportamenti sociali, e in tal modo anche il romanzo tradizionale ritrova una sua ragion d’essere.
Sulla scia di Wagner, Proust concepisce il suo romanzo come opera-microcosmo alla quale contribuiscono tutte le arti, in particolare la musica e la pittura. Ci sono, nel romanzo, tre artisti immaginari: un musicista, uno scrittore e un pittore.
Vinteuil è autore di una sonata per violino e pianoforte e di un settimino; i modelli reali sono Camille Saint-Saëns, Richard Wagner, Gabriel Fauré, César-Auguste Franck, Claude Debussy.
Bergotte scrive racconti, romanzi e saggi; le citazioni di suoi scritti rinviano ad Anatole France, a Gustave Flaubert, a Ruskin.
Elstir è una sintesi di tutto l’impressionismo e anche del simbolismo pittorico di Gustave Moreau. Alcuni suoi quadri corrispondono a opere di Auguste Renoir, altri a tele di Claude Monet o di Édouard Manet.