Medico e filosofo naturale (Positano 1639 - Napoli 1723). Impegnato su due fronti, quello di riformulare il sapere medico e quello di ridefinire lo statuto stesso del medico (De difficultate medicinae, 1684), P. attraverso l'utilizzazione di Ippocrate (In Hippocratis librum De veteri medicina paraphrasis, 1681), polemicamente usato contro i seguaci di Galeno, ha tentato il recupero di una tradizione medica «più vicina» alla natura in cui inserire le nuove conoscenze.
Discepolo, a Napoli, di Tommaso Cornelio, in contatto con alcuni dei più insigni scienziati del tempo (G. A. Borelli, N. Stenone, M. Ricci, D. Bartoli), P. soggiornò a Roma (1670-83), professore alla Sapienza, a Venezia (1683-84), a Vienna (1684-90) e infine, dal 1690 alla morte, a Napoli, ove tenne la cattedra di anatomia (1694-1715), divenendo punto di riferimento della nuova generazione di intellettuali napoletani.
«L'ultimo filosofo italiano della scuola di Galileo», come lo definirà nella sua Autobiografia G. Vico, in realtà fu particolarmente attento ai filosofi d'oltralpe, soprattutto Descartes, le cui opere «fisiche» egli ebbe costantemente presenti. Considerata meccanicisticamente la vita come movimento, P. vede nel continuo consumo e ricambio di energie la caratteristica fondamentale degli organismi viventi, le cui parti e funzioni, ancorché più complesse, sono conoscibili non diversamente dalle macchine prodotte dall'arte umana. Ciò comportava che la conoscenza delle arti meccaniche venisse assunta come modello e fosse d'ausilio per la conoscenza del corpo umano e della sua patologia. Particolare attenzione egli pose alla cura di numerose malattie (De militis in castris sanitate tuenda, 1685), intese come modificazioni quantitative della sostanza corporea, e alla loro prevenzione. Le Cinque lettere in difesa dei moderni (composte tra il 1693 e il 1694 ma non pubblicate) costituiscono la sua risposta alle Lettere apologetiche scritte dal gesuita G. B. de Benedictis contro l'empietà dei moderni.