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Liberia

Atlante Geopolitico 2015 (2015)
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Vedi Liberia dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016

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Informazioni principali
Dati generali

La Liberia è l’unico paese dell’Africa occidentale a non essere mai stato colonizzato. Nel 1822 la società privata American Colonization Society (ACs) si impegnò a trasferire un gruppo di ex schiavi neri, affrancatisi negli Usa, in Africa, lungo le coste di quella terra che sarebbe diventata la Liberia. Venne proclamata repubblica dai libero-americani nel 1847, anticipando di più di un secolo l’indipendenza dei vicini Costa d’Avorio, Guinea e Sierra Leone. I libero-americani, forte minoranza dell’allora neocostituita Repubblica di Liberia, si imposero soffocando i diritti della popolazione nativa, adottarono un sistema politico presidenziale e approvarono una Costituzione modellata su quella statunitense. Questa esperienza non è bastata a rendere la Liberia un paese politicamente ed economicamente stabile. Dopo il lungo predominio dell’elemento libero-americano e del partito True Whig, sul finire degli anni Ottanta, anche a seguito dell’aggravarsi della crisi economica, il paese è stato teatro di due sanguinose guerre civili, rispettivamente dal 1989 al 1996 e dal 1999 al 2003. La complessità dello scenario politico liberiano rispecchia l’instabilità dell’intera regione. La reciproca ingerenza che caratterizza le relazioni tra Sierra Leone, Guinea e Liberia ha permesso ai vari gruppi ribelli di ottenere appoggi economici e militari dai regimi degli stati confinanti e ha favorito il mercato illegale dei diamanti, venduti in cambio di armi e di liquidità da impegnare nei conflitti. Charles Taylor è stato l’indiscusso protagonista politico delle guerre civili della Liberia. Nel 1989, a capo del National Patriotic Front of Liberia (Npfl), Taylor entrò dal confine della Costa d’Avorio nella contea liberiana di Nimba e rovesciò il regime di Samuel Doe, primo presidente di origine indigena del paese, giunto alla presidenza in seguito a un colpo di stato nel 1980. In poco tempo Taylor assunse il controllo di gran parte del paese sino a ottenere, dopo sei anni di scontri, il 75% delle preferenze alle elezioni presidenziali del 1997. Alle urne si arrivò dopo un accordo di pace siglato tra le forze del paese, grazie all’intermediazione della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (ECOWas), delle Nazioni Unite, dell’Unione Europea e dell’Organizzazione dell’unità africana (oggi Unione Africana). L’instaurazione di un governo di coalizione, però, non sanò la disastrosa situazione economica del paese, né quella politica. Taylor, anziché optare per un consolidamento democratico della società liberiana, approfittò del potere per eliminare i leader delle formazioni politiche del governo, instaurare un regime de facto e perseguire una strategia di destabilizzazione regionale, che si è concretizzata soprattutto con l’appoggio offerto ai ribelli del Revolutionary United Front (RUf) della Sierra Leone. Taylor si è poi ripetutamente fatto coinvolgere dalle guerre civili scoppiate nei paesi confinanti: Sierra Leone nei primi Duemila, quindi Guinea, suscitando le proteste della comunità internazionale, del Ghana e della Nigeria. Nel frattempo si erano aggravate le tensioni interne: nel 1999 era scoppiata la seconda guerra civile liberiana. Nel 2001 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite impose l’embargo sulle esportazioni di armi verso la Liberia per punire Taylor, implicato anche nel traffico dei cosiddetti ‘diamanti insanguinati’. Nel 2003, dopo un nuovo accordo di pace siglato ad Accra (Ghana) e mediato dalla comunità internazionale, il presidente fu indotto a rassegnare le dimissioni e a rifugiarsi in esilio in Nigeria. Accusato di crimini di guerra e contro l’umanità, nel 2006 ha dovuto presentarsi davanti alla corte speciale della Sierra Leone e nel 2007 è stato trasferito all’Aia, dove è stato processato e condannato dalla corte penale internazionale. Con l’esilio di Taylor, in Liberia è stato istituito un governo di transizione guidato da Gyudeh Bryant. Contemporaneamente, gli Usa sono intervenuti militarmente per sostenere l’avvio di un processo democratico e per evitare nuovi scontri. Le truppe Usa sono rimaste in Liberia per due mesi, sino a quando le Nazioni Unite hanno approvato la missione di peacekeeping UNimil, con un contingente internazionale di 15.000 unità (una delle più imponenti con ben 8.000 uomini impiegati). Le elezioni presidenziali del 2005 sono state vinte da Ellen Johnson-Sirleaf, leader dello Unity Party, che ha battuto al ballottaggio George Weah, ex giocatore di calcio, idolo di gran parte della popolazione liberiana e capo del Congress for Democracy and Change. Johnson-Sirleaf, premio Nobel per la Pace nel 2011, è stata la prima donna a ricoprire la carica di presidente di una nazione africana. La sua azione di governo, che si concentra soprattutto verso la riduzione della povertà (nel 2007 circa il 63,8% della popolazione viveva sotto la soglia di povertà), la lotta alla corruzione, la ricostruzione del tessuto civile e sociale del paese, la creazione di nuovi posti di lavoro e una migliore fornitura dei servizi alla popolazione, è fortemente appoggiata dalle organizzazioni internazionali. Ciò dipende anche dai legami che la presidente ha con le Nazioni Unite e la Banca mondiale: Johnson-Sirleaf vi ha lavorato per anni. In questo quadro si può leggere la cancellazione straordinaria del debito di 1,2 miliardi di dollari stabilita dal Club di Parigi nel settembre 2010 e l’aiuto sia degli Usa– che nel solo 2011 hanno fatto arrivare in Liberia circa 89 milioni di dollari –, sia di organizzazioni internazionali, come l’extended credit facility da 11,1 miliardi di dollari concesso nel novembre 2012 dall’Imf. I progressi troppo lenti hanno però minato la popolarità della presidente, che nel novembre 2010, ha sfiduciato il proprio esecutivo e proceduto a un rimpasto di governo. L’obiettivo era affrontare le elezioni dell’ottobre 2011, in cui la presidente si è imposta malgrado qualche difficoltà. Per le prospettive di sviluppo della Liberia sono significativi tre recenti accordi che il governo ha siglato con importanti gruppi stranieri dei settori petrolifero e minerario: l’americana Chevron che ha avuto il permesso di esplorare i fondali marittimi a caccia di riserve petrolifere; il gruppo indonesiano Sinar Mas che ha un piano di investimenti da 1,6 miliardi di dollari nell’industria dell’olio di palma. Infine, il colosso lussemburghese dell’acciaio Arcelor Mittal ha siglato nel 2005 un piano per sfruttare le miniere di ferro nella città di Putu.

Tutto ciò non ha impedito l’esplosione dell’ennesima emergenza umanitaria che ha investito l’Africa occidentale nel 2014: con 4262 casi accertati e più di 2500 vittime (dati del novembre 2014), la Liberia è lo stato più colpito dall’ebola (quasi 100 casi ogni 100.000 abitanti), e i dati ufficiali sembrano sempre più essere stime al ribasso di una tragedia dai contorni ben più gravi. La diffusione del virus è stata facilitata da una situazione sanitaria a dir poco disastrosa: con circa 1 medico ogni 100.000 abitanti, e 0,8 letti d’ospedale ogni 1000, il paese dispone di una tra le peggiori statistiche del continente africano, quindi anche del mondo. A fronte di una tragedia che ha duramente colpito la società e l’economia nazionale, è stata stimata una contrazione tra il 5 e il 10% circa del pil, mentre la presidente Sirleaf ha dichiarato lo stato di emergenza nazionale. Sul dato contribuiscono pesantemente le restrizioni sui viaggi e sui commerci da-per il paese. Sull’espansione del virus ha influito anche la tardiva risposta internazionale, che adesso sembra essersi finalmente mobilitata. L’Imf ha stanziato 48,3 milioni di dollari per la Liberia, e proprio a Monrovia, la capitale liberiana, verrà stabilita la base militare Usa che dovrebbe diventare la centrale operativa per l’intera Africa occidentale. Più di 3000 militari americani verranno stanziati (via Monrovia) nella regione, così come si costruiranno 17.000 nuovi posti-letto tra Liberia, Sierra Leone e Guinea (investimento pubblico Usa complessivamente tra i 500 e i 750 milioni di dollari). Tuttavia, secondo le stime degli esperti, le risorse stanziate sono tardive e non ancora sufficienti a ostacolare l’espansione del virus se non nella seconda metà del 2015.

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