Genere letterario sorto in Spagna nella seconda metà del 16° sec. e diffusosi poi nel resto d’Europa, caratterizzato dalla descrizione delle avventure dei picari (sp. pícaros), popolani furbi, imbroglioni e privi di scrupoli. Il genere picaresco, rappresentato da un numero limitato di romanzi e novelle, deve essere distinto dal gusto picaresco, diffuso in moltissime opere di vario genere, in diverse lingue.
L’archetipo della narrativa picaresca è la Vida de Lazarillo de Tormes, anonima, le cui prime tre edizioni pervenute sono del 1554, ma che fu scritta probabilmente alcuni anni prima. Vi si narra, in forma epistolare e in prima persona, la storia di Lázaro, personaggio di bassa estrazione sociale, e del suo servizio presso molti padroni; la narrazione, retrospettiva ed episodica, serve a illustrare e giustificare la singolare vicenda che conclude l’esistenza del protagonista (uno squallido caso di adulterio). Il romanzo è dunque la pseudo-autobiografia di un antieroe, in cui la società è rappresentata dal basso, in opposizione al mondo nobile e meraviglioso del romanzo cavalleresco, con amara ironia e crudi accenni di realismo rivelatori della crisi economica e sociale della Spagna di Carlo V.
Gli elementi strutturali del Lazarillo (narrazione autobiografica, serialità delle avventure, racconto come giustificazione di un ‘caso’) uniti all’intenzione satirica, alla ricerca di verosimiglianza, all’attenzione verso la realtà sociale coeva (in particolare verso il problema della mendicità e della fame, l’ossessione per la purezza di lignaggio, il concetto dell’onore, il contrasto tra apparenza e realtà, la denuncia della corruzione imperante ecc.) si costituirono come tratti fondanti del genere nel momento in cui vennero ripresi da M. Alemán nella Primera parte de Guzmán de Alfarache (1599) e nella sua continuazione apparsa nel 1604 come Segunda parte. Alemán approfondì il contrasto tra il punto di vista del narratore, ormai maturo e pentito, e quello del giovane Guzmán, protagonista scanzonato e vizioso della vicenda, grazie alle numerose riflessioni morali che costellano l’opera e le danno unità strutturale, offrendo una lettura didattico-moraleggiante della storia.
Tra i capolavori ascrivibili al genere picaresco è Historia de la vida del buscón di F. de Quevedo, scritta tra il 1603 e il 1604 ma pubblicata solo nel 1626. Pur mantenendo le costanti strutturali del genere, Quevedo concentra la sua attenzione sulla componente satirica puntando sulla burla sfrontata o scabrosa, sulla distorsione caricaturale, in uno sfoggio estremo di ingegnosità verbale. Accanto alla Segunda parte del pícaro Guzmán de Alfarache (1602) di M. Luján de Sayavedra, e a El Guitón Honofre (1604) di G. González, più scanzonato appare il Libro de entretenimiento de la pícara Justina (1605) di F. López de Úbeda, trasposizione burlesca del viaggio di Filippo III a Valladolid e satira delle ossessioni genealogiche delle famiglie nobili o aspiranti tali. Mentre molte opere di M. de Cervantes partecipano del gusto picaresco ma nessuna può ascriversi al genere, a esso si avvicinano per temi e linguaggio La hija de Celestina (1612; poi La ingeniosa Elena, 1614) di A.J. de Salas Barbadillo, La vida del escudero Marcos de Obregón (1616) di V. Espinel, La desordenada codicia de los bienes agenos (1619) di C. García, nonché opere in versi, come, per es., la Vida del pícaro attribuita a P. Liñán de Riaza. Nella Segunda parte del Lazarillo de Tormes (1620) di J. de Luna riaffiorano le idealità del Guzmán di Alemán, anche se mancano le interferenze moralistiche e si rinnova quella distanza dell’autore dalla propria creatura che è caratteristica del primo Lazarillo.
Con il Lazarillo de Manzanares (1620) di J. Cortés si rende invece manifesta l’involuzione del genere in letteratura amena: dopo Alonso, mozo de muchos amos (2 vol., 1624-26) di J. Alcalá Yáñez y Ribera, in cui prevale il gusto aneddotico ed edificante, il processo involutivo prosegue con Varia fortuna del soldado Píndaro (1626) di G. de Céspedes y Meneses, Don Raimundo el entretenido (1627) di D. M. Tovar y Valderrama, El castigo de la miseria (1637) di M. de Zayas y Sotomayor, e si consuma definitivamente nei romanzi di A. de Castillo Solórzano, nei quali la discriminazione dalla novellistica cortigiana è solo esterna né manca la mitizzazione del picaro, e nell’inoffensivo divertimento di La vida de Don Gregorio Guadaña (1644) di A. Enríquez Gómez, e della Vida y hechos de Estebanillo González (1646) attribuita a G. de la Vega. È il sopravvento della società cortigiana che tende a svuotare il genere della sua problematica etico-sociale.