JAZZ.
– Le novità strutturali degli anni Ottanta. Gli anni Novanta fra camerismo e opera aperta. Logiche e scenari del nuovo millennio. Le tendenze internazionali. Bibliografia
È possibile osservare il j. del nuovo millennio da due prospettive complementari. Da un lato esso mostra una forte continuità con un processo di sviluppo che risale agli anni Settanta; dall’altro conosce recenti, specifici elementi di novità. Per cogliere appieno tali elementi è comunque necessario inserirli nell’ampio periodo storico che riguarda l’intero articolarsi del j. contemporaneo, anche perché gli ultimi ripensamenti storiografici ne impongono una nuova lettura.
Le novità strutturali degli anni Ottanta. – Genere musicale da sempre in forte sintonia con la tecnologia della riproduzione sonora e con l’industria discografica, il j. ha sviluppato originali articolazioni formali in risposta alla crisi del modello fordista emersa in Occidente appunto all’aprirsi degli anni Settanta. Quando si occupavano del j., le multinazionali del disco promuovevano soprattutto il suo aspetto di esuberante revival, evidenziato dal rinnovamento dell’hard bop e dal suo trionfo sul piano mediatico, fino ad assurgere a paradigma di questa musica. D’altro canto, le ricerche delle avanguardie successive al free jazz elaboravano inattesi incroci fra stagioni musicali diverse, affiancando alla libertà armonica del recente passato il recupero di una fluidità ritmica e di un gusto danzante. Definita avanguardia di sintesi e maturata nei primi anni Ottanta, questa tendenza, nel suo richiamarsi alle originali capacità architettoniche dei maggiori autori del passato, sembrava contrapporsi polemicamente al vistoso rilievo dato alla dimensione solistica, di carattere marcatamente individualistico, esplorata da molti protagonisti del decennio appena concluso. Ma essa esprimeva anche l’originale sviluppo di un nuovo elemento che si era affermato in quello stesso recente passato, un’attenzione per l’intero arco degli sviluppi storici di questa musica che finalmente avrebbe permesso al j. di ignorare quell’attenzione per le mode, tipica delle musiche commerciali, dettata dalle pressioni industriali.
A metà degli anni Ottanta questa attenzione conosceva nuovi sviluppi dovuti all’affermarsi del rivoluzionario supporto sonoro costituito dal compact disc. La crescente crisi dell’industria discografica veniva contenuta grazie a una massiccia campagna di ristampe, favorendo la circolazione di tutto il repertorio storico; ma ciò produceva (non solo in ambito jazzistico) una forte tendenza manieristica. L’interesse per le forme e i linguaggi del passato era poi rinforzato dal diffondersi di scuole dedicate alla tecnica jazzistica (nelle quali spesso si privilegiava, e ancora si privilegia, il bebop e gli stili a esso collegati) e da un esplicito riconoscimento ufficiale, testimoniato nel 1987 da una risoluzione del Congresso statunitense a sostegno di questa musica.
Dopo quella dei primi anni Settanta, è possibile riconoscere l’aprirsi di una nuova fase verso la seconda metà degli anni Ottanta, in coincidenza con epocali trasformazioni sociali: migrazioni planetarie, nascita di fondamentalismi tanto religiosi quanto economici, sviluppo di una globalizzazione accelerata dalla diffusione delle tecnologie informatiche, ma anche affermazione di particolarismi legati, in uno stretto rapporto di causa-effetto, all’indebolimento delle ideologie di massa. Parallelamente il j. andava elaborando una nuova fluidità stilistica; la capacità di assimilare stimoli culturali esterni senza perdere la propria fisionomia specifica, qualità tipica di questa musica, era all’opera nel definire modelli sonori che evocavano gli stimoli provenienti dai nuovi, difficili equilibri.
Naturalmente si riconoscono (come è sempre avvenuto) anche continui intrecci con i nascenti generi legati alla musica di consumo: l’hip hop e il rap creati all’interno delle giovani comunità nere afroamericane, la world music che dai tardi anni Ottanta sempre più ha connotato la musica di consumo, il pop vocale più sofisticato; ma sarebbe troppo semplicistico sostenere per ciò la perdita di una funzione storica del j. o un suo massiccio confluire in queste tendenze che semmai, al contrario, molto devono a esso.
Utile, per rintracciare il senso dei suoi sviluppi più originali specialmente fra anni Ottanta e Novanta, è osservar ne il complesso rapporto con il pensiero postmoderno: il j. ne attraversa trasversalmente le posizioni estetiche, utilizzandone (anzi a vero dire anticipandone) la demistificante confusione fra linguaggi ‘alti’ e ‘bassi’, ma ignorandone il più delle volte la funzione critica nei confronti della figura autoriale. Il risultato è quello di un’aumentata consapevolezza del legame con le altre musiche del paesaggio sonoro contemporaneo.
Si veda il caso di John Zorn (n. 1953), sassofonista e compositore, ma ancor più ‘agitatore culturale’, in bilico fra j. d’avanguardia e postaccademia. Ideatore fin dagli anni Settanta di avventurosi game pieces, esecuzioni di gruppo basate su istruzioni interattive anziché su partiture prescrittive, più avanti ne sviluppò le potenzialità in macrostrutture sonore basate su una continua, stordente trasformazione dei riferimenti di stile e di genere. In questi grandi contenitori (realizzati con molti esponenti della giovane avanguardia trans-stilistica newyorkese) la citazione cessava di essere tale per divenire elemento espressivo autonomo, mentre l’apparente percorso narrativo (ogni frammento evocava differenti ambiti psicologici, sociologici, storici) si annullava nei rapidi cambiamenti di prospettiva. Con i tardi anni Ottanta Zorn accentuò il proprio legame con le radici culturali e musicali ebraico-statunitensi, ponendosi alla testa di un vero rinascimento di questa tradizione e intrecciandone i mille, disparati aspetti con il proprio dissacrante gusto combinatorio.
La prospettiva postmoderna, con le dinamiche tutt’altro che lineari che essa mobilita nel campo del j. contemporaneo, ha influenzato anche la musica più recente dei tre sassofonisti (e polistrumentisti) di punta dell’Association for the advancement of creative musicians (AACM) fondata a Chicago: Anthony Braxton (n. 1945), Roscoe Mitchell (n. 1940) e Henry Threadgill (n. 1944), tutti attivi dagli anni Sessanta. Il primo elaborò un metodo grazie al quale il suo vasto catalogo di opere poteva essere interamente interconnesso, creando una sorta di ‘metacomposizione’ in cui ogni nuova esecuzione modifica potenzialmente il senso di ciò che è già stato scritto. Il secondo, oltre a proseguire la sua attività in seno allo storico Art Ensemble of Chicago, approfondì le strutture modulari che da molto tempo lo interessavano applicandole a organici di varia ampiezza, specialmente l’eccellente nonetto Note Factory, caratterizzato dal raddoppio degli strumenti ritmici. Threadgill per parte sua, fondando negli anni gruppi dalla forte e insolita impronta timbrica, modificò più volte le proprie coordinate estetiche; dopo aver animato negli anni Ottanta con il proprio vivace Sextett la scena della citata ‘avanguardia di sintesi’, offrì nel decennio seguente con Very Very Circus una musica degli opposti, capace di esprimere congiuntamente sentimenti tragici e gioiosi, sintetizzati e superati dall’anelito estatico tipico della proposta strumentale del leader.
È interessante mettere a confronto il loro operato con quello di un più giovane sassofonista emerso negli anni Ottanta. Steve Coleman (n. 1956) ha incrociato creativamente riferimenti strumentali e formali diversi, privilegiando i richiami alle musiche urbane nere di varie stagioni, dal bebop al funky, estremizzandone le qualità più aggressive con tempi rapidissimi e ardue polimetrie. Ha unito così l’abilità tecnica a una concezione filosofica e rituale della musica, risalendo alle civiltà africane, mediterranee e mediorientali; questa ricerca lo ha portato a sviluppare brani sempre più ampi e densamente stratificati.
Gli anni Novanta fra camerismo e opera aperta. – L’attenzione per un linguaggio non più basato su quelle forme chiuse che tuttora costituiscono nel j. il patrimonio maggiore della sua lunga tradizione, unita a un uso consapevole della dimensione sonora offerta dal compact disc (durata attorno agli ottanta minuti, tecnologia digitale che permette manipolazioni di ogni genere), portava negli anni Novanta a lavori di ampio respiro, nei quali la struttura del blues e la ‘forma canzone’, se utilizzate, rappresentavano soltanto saltuari punti di riferimento in percorsi sonori molto più accidentati. Queste opere aperte, i cui primi esempi sono già nel j. dei tardi anni Sessanta, costituivano un nuovo terreno di incontro fra composizione e improvvisazione di gruppo che evidenziava un punto importante: la capacità di invenzione collettiva su basi fortemente aleatorie esplorata in memorabili ma episodici incontri discografici da alcuni maestri degli anni Sessanta (come Ornette Coleman con Free jazz e John Coltrane con Ascension) aveva ormai raggiunto una maturità tale da costituire un vero e proprio patrimonio comune.
Fra i musicisti che approfondirono questa pratica spicca Butch Morris (1947-2013), già notato come cornettista, che mise a punto la tecnica della cosiddetta conduction (sintesi di conducted improvisation, «improvvisazione guidata»), nella quale un direttore-compositore, per mezzo di un sistema preordinato di segnali gestuali, interagisce con un ensemble (anche di ampie dimensioni) nella creazione di un’improvvisazione collettiva. L’idea di Morris appare notevole, oltre che per l’originalità dei risultati, proprio perché i musicisti che vi parteciparono non erano, il più delle volte, suoi collaboratori abituali; a dimostrazione che un linguaggio sperimentale poteva attecchire utilizzando le più varie prassi esecutive.
Ma la liberazione delle forme non si attuò soltanto in una dimensione simile all’informalità e all’eccitazione del free jazz storico; altrettanto importante è stato l’irrobustirsi di una fisionomia schiettamente cameristica, che nel combinare organici sempre più inattesi esplorava regioni timbriche e dinamiche di nuovo conio. Esemplare è il caso del trio, costituito a metà degli anni Ottanta, del veterano batterista Paul Motian (1931-2011). Affiancato da due musicisti destinati a vasta popolarità, Bill Frisell (n. 1951) alla chitarra elettrica e Joe Lovano (n. 1952) al sassofono tenore, egli riformulò su nuove basi la logica di una ‘triangolazione’ strumentale paritaria che era già nel classico trio del pianista Bill Evans, di cui era stato membro una trentina d’anni prima. Il suo repertorio comprendeva sia celebri canzoni, fortemente disarticolate fino ad assumere tutt’altra fisionomia espressiva, sia brani originali focalizzati su un singolo elemento strutturale che divenne il fulcro di un’invenzione sonora decisamente radicale.
La parabola professionale di Motian mette bene in evidenza un’altra caratteristica del j. attuale: l’accentuata vitalità intergenerazionale. Se le prime, convulse fasi di questa musica avevano sempre visto alla ribalta musicisti giovani e addirittura giovanissimi, dagli anni Settanta questa logica venne superata. Inizialmente la critica interpretò il cambiamento, dovuto a vari fattori sociologici, come una perdita di figure di riferimento paragonabili a quelle del passato; la realtà invece ci pone di fronte a carriere di vivacità e durata inattese, che naturalmente richiedono nuovi strumenti di analisi.
In un punto intermedio fra i risultati estetici delle conductions di Morris e quelli del Paul Motian Trio si può collocare la coeva proposta del sassofonista Tim Berne (n. 1954), che, come nel caso di S. Coleman, si è fatta nel tempo sempre più articolata. Berne predilige piccole formazioni, ma da esse trae un impatto sonoro rilevante, ricorrendo con sapienza alla strumentazione elettronica. La sua dimensione è quella della permutazione, fortemente caratterizzata sul piano ritmico, di microstrutture dalle quali nascono, quasi per generazione spontanea, poderosi archi narrativi.
Logiche e scenari del nuovo millennio. – Ci si è soffermati sull’operato di alcuni musicisti non solo in quanto hanno incarnato alcuni dei passaggi più significativi dell’epoca recente, ma perché sono tuttora punti di riferimento essenziali nel linguaggio e nelle forme assunti dal j. del nuovo millennio. Spesso il loro valore di modelli travalica il ruolo meramente strumentale, stilistico: le caleidoscopiche e impassibili trasformazioni sonore di Zorn, i drammatici cambi d’atmosfera di Morris, le metamorfosi dal carattere quasi organico di S. Coleman o di Berne sono possibili mappe di un mondo contemporaneo perturbante, quasi indecifrabile.
Nel frattempo, alcuni valori di fondo del j. sono sembrati cambiare; ed è, questo, un passaggio maturato con il nuovo millennio. Così come una società occidentale percorsa da nuove, vivaci minoranze sta prendendo coscienza della propria inedita varietà culturale, il j. fa emergere dall’interno elementi rimasti finora sullo sfondo. In primo luogo, pare messa in discussione proprio la sua identità più profonda, ossia quella matrice africana che ha contribuito a rendere il j. così popolare, ma anche vittima di stereotipi d’ogni genere. Oggi la società statunitense è sempre meno basata sulla polarità ‘bianco-nero’, vuoi per il peso assunto da altre etnie, vuoi per le trasformazioni di lungo periodo aperte negli anni Sessanta dalla ‘Grande società’ promossa dal presidente Lyndon B. Johnson.
Non si tratta, però, di smarrire le radici, ma di affiancarvene altre. Ecco dunque il j. farsi globale non solo nel senso di internazionale, con giovani protagonisti provenienti da ogni parte del mondo, ma in quello di un linguaggio che sfrutta e assimila musiche di tutti i continenti ricombinandole in nuove e originali sintassi, senza indulgere agli esotismi troppo esibiti di tanta world music; eccolo utilizzare modelli di pensiero alternativi rispetto a quello dominante in Occidente; eccolo riconoscere (finalmente, dopo una lunga preminenza delle più trite logiche maschiliste) le ragioni delle ricerche di ambito femminile. Mai come in questi anni le donne hanno espresso figure di rilievo tanto numerose, senza limitarsi come in passato alla dimensione del canto; in un ampio ventaglio di soluzioni stilistiche si possono citare le batteriste Terri Lyne Carrington (n. 1965) e Susie Ibarra (n. 1970), l’arrangiatrice Maria Schneider (n. 1960), la flautista Nicole Mitchell (n. 1967), la sassofonista Matana Roberts (n. 1975), la cantante-polistrumentista Jen Shyu (n. 1978), la chitarrista Mary Halvor son (n. 1980), le contrabbassiste Esperanza Spalding e Linda Oh (entrambe n. 1984). E bastino i nomi a testimoniare anche l’eterogeneità delle provenienze geografiche.A proposito di queste ultime, va osservato che non si è spento l’interesse, spesso inquinato dalle attenzioni dei mass media che ne fanno ‘fenomeni’ extramusicali, per specifiche aree etniche e culturali. Si è già detto come Zorn abbia promosso l’attenzione per le musiche ebraiche; questa tendenza ha poi informato, sia pure con modalità lontane dagli echi più espliciti di queste tradizioni, figure importanti del j. recente emerse proprio dal cenacolo del sassofonista, quali il tastierista Uri Caine (n. 1956) e il trombettista Dave Douglas (n. 1963), entrambi spesso impegnati in ampi affreschi dove il pastiche si fonde con una gioiosa, eccentrica anarchia. Ma poco prima si era molto parlato di un j. declinato secondo le logiche della comunità cinese attiva in California, e poco dopo è tornata alla ribalta la ricca tradizione latino-americana, per la quale si possono citare il brillante sassofonista portoricano Miguel Zenón (n. 1976) e, più estraneo a sospetti oleografici, il batterista messicano Antonio Sánchez (n. 1971). Nei primi anni Duemila hanno fatto parlare di sé diversi musicisti di origine indiana, in particolare il sassofonista Rudresh Mahanthappa (n. 1971) e il sofisticato pianista Vijay Iyer (n. 1971), dal linguaggio ellittico e disarticolato.
Altri protagonisti degli anni più recenti, pur senza evidenti richiami etnici, appaiono coerentemente ‘globali’ nella complessità strutturale della musica stessa. Si veda il caso del sassofonista Steve Lehman (n. 1978), che specialmente con il suo ottetto realizza intricate tessiture in cui sono messi in gioco nuovi equilibri fra composizione e improvvisazione. I suoi modelli sembrano essere Braxton, Mitchell, S. Coleman, Berne: tutti colleghi di strumento, ma dei quali egli coglie in primo luogo le invenzioni formali, ponendo in secondo piano il linguaggio squisitamente solistico del sassofono. È vero, del resto, che sotto questo aspetto diverse scuole strumentali privilegiano modelli piuttosto omogenei, innervati nella tradizione del j. moderno: fra i sassofonisti, accanto a un Lehman o a un solista radicale come Ken Vandermark (n. 1964), si incontrano vari musicisti di età diverse quali Branford Marsalis (n. 1960), Mark Turner (n. 1965), Joshua Redman (n. 1969), Chris Potter (n. 1971), J.D. Allen (n. 1972), Marcus Strickland (n. 1979), accomunati da un rispetto per forme e soluzioni timbriche vicine a quelle convenzionali; lo stesso può dirsi per il panorama dei trombettisti, ancora dominato da virtuosi di ascendenza bebop quali Roy Hargrove (n. 1969), Nicholas Payton (n. 1973), Sean Jones (n. 1978), Christian Scott (n. 1983), cui rispondono solisti in buona misura associabili alle libertà espressive di un Douglas quali Ambrose Akinmusire (n. 1982), Jonathan Finlayson (n. 1982) o Cuong Vu (n. 1969); da segnalare però i mondi sonori rarefatti ed elaborati di Ralph Alessi (n. 1963) e Rob Mazurek (n. 1965).
Più eterogeneo è lo scenario del pianoforte contemporaneo, che attraversa una fase di grande vitalità. La riscoperta di maestri trascurati e inclassificabili quali Mary Lou Williams (1910-1981), Herbie Nichols (1919-1963), Jaki Byard (1922-1999), Andrew Hill (1931-2007) e altri ha creato un terreno favorevole per esplorazioni e ricerche non scontate. L’eco di alcuni di loro si avverte nelle invenzioni di pianisti avventurosi quali Brad Mehldau (n. 1970), Craig Taborn
(n. 1970), Ethan Iverson (n. 1973, spesso in seno al trio The bad plus), Jason Moran (n. 1975), oltre al citato Iyer. Benché tutti abbiano impiegato anche l’elettronica, va sottolineato che il loro campo di interessi riguarda soprattutto lo strumento tradizionale.
Naturalmente moltissimi jazzisti continuano a operare entro le idee stilistiche cristallizzate nel corso dei decenni, rappresentando con la loro massa numerica ciò che l’ascoltatore medio continua a considerare il j. dominante: il cosiddetto mainstream contemporaneo. Esso è però molto più pragmatico e duttile rispetto al passato, tanto che i suoi esponenti non hanno difficoltà (né tecniche né ideali) a passare da un contesto convenzionale a uno sperimentale,secondo richiesta. È infatti sempre più difficile, in una musica di nicchia qual è il j., la sopravvivenza di gruppi stabili; ciò modifica tutte le dinamiche di interazione e di costruzione di un suono collettivo sviluppate nell’arco storico di questa musica.
Il contesto nel quale vive il j. del nuovo millennio è segnato da notevoli difficoltà; non solo, come si è osservato, «dopo l’undici settembre, diversi pensatori hanno proclamato la “morte dell’ironia” e la crisi economica del decennio ha fatto poco per alleggerire il tono della cultura» (Gioia 1997, 20112; trad. it. 2013, p. 488), ma l’intera società presenta una marcata esigenza di semplificazione (tecnologica, ideologica, comunicativa) sfavorevole a una cultura complessa come questa. Ne fanno le spese tanto il rapporto con la storia su cui si è basato il periodo precedente, ormai ridotto a puro stereotipo, quanto la riproduzione sonora: nell’epoca della crisi dell’industria musicale, di Internet e della ‘musica liquida’ si sta perdendo il concetto, sviluppato dopo la nascita del disco di lunga durata, di una costruzione sequenziale e narrativa del prodotto musicale. Legato alla varietà policentrica del j. recente, di cui si è dato conto, è invece lo sviluppo della tendenza ‘intergenerazionale’ presente fin dagli anni Settanta. Oggi molti veterani non solo ottengono lo stesso successo dei giovani più apprezzati, ma in molti casi sorprendono con sviluppi estetici di notevole originalità; basterà ricordare i casi di Yusef Lateef (19202013), Sam Rivers (1923-2011), Lee Konitz (n. 1927), Wayne Shorter (n. 1933), Reggie Workman (n. 1937), Charles Lloyd (n. 1938), Herbie Hancock (n. 1940).
Le tendenze internazionali. – L’accenno alla globalizzazione del j. impone di citarne l’espansione, di antica data, al di fuori della nazione in cui esso nacque. Benché fin dagli anni Trenta siano cresciute in tutto il mondo vivaci comunità di musicisti locali, è soprattutto in Europa che questa musica ha conosciuto sviluppi originali. Anche qui i primi anni Settanta hanno rappresentato un punto di svolta essenziale: da allora i musicisti del continente, ispirati dalle pulsioni libertarie del free jazz, hanno superato la fase imitativa (giunta in molti casi a eccellenti livelli espressivi) per cercare fonti di ispirazione autonome, radicate nelle tradizioni musicali nazionali. E anche qui i tardi anni Ottanta hanno conosciuto un altro passaggio importante: il riconoscimento da parte degli stessi statunitensi di questa maturazione, cui hanno fatto seguito sempre più spesso collaborazioni su base paritaria fra musicisti dei due continenti. A quell’epoca erano ancora robuste le differenze (qualitative ed estetiche) tra le diverse aree culturali europee, di-venute oggi meno sensibili; come è stato notato, le scuole nazionali «che caratterizzavano l’Europa degli anni Settanta sono scomparse: oggi gli studenti del conserva torio di Rotterdam e Cosenza studiano sullo stesso curriculum» (Zenni 2012, p. 522), evidentemente a causa dell’Unione Europea. Ma differenze di sensibilità, di tradizione e di sviluppi permangono.
Nell’area scandinava, per es., si può notare fin dagli anni Novanta un robusto interesse per le contaminazioni con la musica elettronica giovanile (marcato nel norvegese Bugge Wesseltoft, n. 1964, più soffuso nello svedese Esbjörn Svens son, 1964-2008, fondatore del popolare trio EST); più in generale l’Europa del Nord approfondisce spesso atmosfere solenni, meditative, com’è il caso del pianista Christian Wallumrød (n. 1971) o del trombettista Nils Petter Molvær (n. 1960), entrambi norvegesi, o del pianista polacco Marcin Wasilewski (n. 1975). Fra Regno Unito, Germania e Austria permane un forte interesse per le storiche ricerche radicali degli anni Settanta, mentre in area latina (da Parigi fino al Mediterraneo) si avverte un maggior legame con le radici popolari, spesso intrecciato con gli sviluppi della world music: il clarinettista francese Louis Sclavis (n. 1953) persegue nel nuovo millennio una ricerca di rara originalità sulle combinazioni strumentali e sulle strutture.
Scuole nazionali già celebrate per i loro risultati (come quelle italiana e sovietica degli anni Ottanta) sembrano aver esaurito la loro fase più brillante; ciò nonostante in Italia – oltre a musicisti da decenni apprezzati a livello internazionale – continuano a emergere talenti interessati al rinnovamento delle forme come i sassofonisti Francesco Bearzatti (n. 1966) e Achille Succi (n. 1971), il trombonista Gianluca Petrella (n. 1975), il pianista Giovanni Guidi (n. 1985). L’Italia, negli ultimi anni, ha mostrato anche un insolito fermento sul piano editoriale, sia traducendo opere recenti, ma anche testi di valore storico rimasti a lungo ignorati, sia pubblicando molti lavori di studiosi attivi nel nostro Paese.
Bibliografia: T. Gioia, The imperfect art. Reflections on jazz and modern culture, New York 1988 (trad. it. Milano 2007); T. Gioia, The history of jazz, New York 1997, 20112 (trad. it. Torino 2013); A. Mazzoletti, Il jazz in Italia, 2 voll., Torino 2004-2010; M. Franco, Il jazz e il suo linguaggio, Milano 2005; D. Sparti, Suoni inauditi. L’improvvisazione nel jazz e nella vita quotidiana, Bologna 2005; A. Shipton, A new history of jazz, New York-London 2007 (trad. it. Torino 2011); S. Zenni, I segreti del jazz, Viterbo 2007; B. Ratliff, The jazz ear. Conversations over music, New York 2008 (trad. it. Come si ascolta il jazz, Roma 2010); C. Sessa, Le età del jazz. I contemporanei, Milano 2009; S. Zenni, Storia del jazz. Una prospettiva globale, Viterbo 2012; C. Sessa, Improvviso singolare. Un secolo di jazz, Milano 2015.