Innovazioni tecnologiche e organizzative
Già nel 1513 Machiavelli metteva in risalto le difficoltà che l'innovazione incontra: "Lo introduttore ha per nimici tutti quelli che degli ordini vecchi fanno bene, et ha tepidi defensori tutti quelli che delli ordini nuovi farebbano bene. La quale tepidezza nasce, parte per paura delli avversarii, che hanno le leggi dal canto loro, parte dalla incredulità delli uomini; li quali non credano in verità le cose nuove, se non ne veggono nata una ferma esperienza" (Il Principe, Torino 1961, p. 28); come su molte altre questioni politiche e sociali, Machiavelli si dimostra un osservatore acuto ed estremamente realistico del comportamento umano, e le molte ricerche successive non hanno fatto altro che confermare le sue asserzioni.
Più di ogni altro economista del XX secolo Joseph Schumpeter ha rivolto il proprio interesse all'innovazione, ponendola al centro di tutta la propria teoria economica; e sono state appunto le gravi difficoltà che gli innovatori incontrano e i numerosi ostacoli che essi devono superare a indurlo a considerare l'imprenditore-innovatore come un individuo eccezionale, e a trattare l'innovazione come un atto della volontà più che dell'intelletto. Sebbene le sue teorie siano state trattate con considerazione e sebbene egli abbia goduto di grande prestigio, prima come ministro delle Finanze austriaco e poi come docente di economia a Bonn e a Harvard, Schumpeter è rimasto in qualche modo un outsider sia nella scienza economica che nella sociologia. Tuttavia negli anni ottanta e novanta si è avuto un notevole risveglio d'interesse per le sue idee, ed è stata sempre più riconosciuta l'importanza dell'innovazione tecnologica. Gli economisti e i sociologi che prestano maggiore attenzione a questo tipo di mutamento sono spesso definiti 'neoschumpeteriani', anche se non sempre, come vedremo, i risultati delle loro ricerche e le teorie da essi elaborate sono conformi alle idee del caposcuola.
Fino a poco tempo fa nel filone principale della teoria economica ha prevalso la tendenza a trascurare l'innovazione tecnologica o a rendere omaggio a parole alle idee di Schumpeter senza in effetti assimilarle. Buona parte delle teorie ortodosse vedono ancora nel mutamento tecnologico un fattore 'esogeno' o 'residuale', ma è difficile oggi dubitare che il flusso incessante di innovazioni sia invece uno dei caratteri più tipici della civiltà capitalistica. Fu Schumpeter a mettere in risalto il fatto che le innovazioni hanno continuamente rivoluzionato la struttura economica, e a considerare "questo processo di distruzione creatrice" come "l'elemento fondamentale del capitalismo" (v. Schumpeter, 1942, p. 38); per questo motivo ci si soffermerà qui sulle sue idee, anche se - come egli stesso avrebbe voluto - in modo non acritico.
In questo articolo si cercherà anzitutto di definire l'innovazione, nella sua forma moderna, come un carattere essenziale delle economie capitalistiche, per poi affrontare i problemi relativi alla classificazione e alla valutazione dell'enorme varietà delle innovazioni; ciò porterà a studiare il loro influsso sui risultati ottenuti da imprese, industrie e paesi in concorrenza tra loro; si tornerà infine sui problemi, posti già da Machiavelli, riguardanti la natura dell'attività imprenditoriale, le fonti dell'innovazione e le cause del suo successo o del suo fallimento.
Dobbiamo a Schumpeter la distinzione tra invenzione, innovazione e diffusione, largamente utilizzata nell'analisi economica e sociale del XX secolo. Di recente la sua classificazione ternaria è stata oggetto di aspre critiche (v., per esempio, Silverberg, 1991), che saranno esaminate in seguito; tuttavia le sue definizioni hanno avuto un notevole influsso, hanno sollevato alcune questioni concettuali di fondo e costituiscono tuttora un punto di partenza basilare per ogni trattazione della materia. Colpito, come Machiavelli, dai numerosi ostacoli che si oppongono all'innovazione, Schumpeter ha cercato in particolare di evidenziare le differenze tra invenzione e innovazione.
Le invenzioni sono contributi ben identificabili al mutamento tecnologico, prime idee e progetti di massima per nuovi prodotti o procedimenti, spesso -ma non sempre - tutelati da brevetto. Molte invenzioni (e brevetti) possono peraltro rimanere inutilizzate: diventano utili economicamente (o militarmente o socialmente) solo quando si concretano in innovazioni.
L'innovazione è definita da Schumpeter come la prima introduzione nel sistema economico e sociale di un nuovo prodotto, procedimento o sistema. Ciò implica un atto imprenditoriale, capace di far passare un'invenzione dallo stadio di prima idea a quello di concreta applicazione commerciale; questo passaggio può richiedere lunghi anni di sperimentazione con prototipi o con impianti pilota e può risultare assai costoso. Anche dopo essere stata lanciata, un'innovazione può incontrare molte difficoltà ad affermarsi o essere superata da innovazioni rivali; tocca all'imprenditore sostenere questi rischi e far fronte agli scettici e agli oppositori. La definizione schumpeteriana non è limitata alle innovazioni tecniche relative a nuovi prodotti e procedimenti, ma comprende anche le innovazioni organizzative e gestionali, l'apertura di nuovi mercati, la scoperta di nuove fonti di approvvigionamento, l'innovazione finanziaria: il self-service negli acquisti al minuto, la vendita rateale di beni di consumo durevoli, l'uso del container nel trasporto delle merci sono novità altrettanto importanti dell'elicottero, dei semiconduttori o del reattore nucleare. In molte innovazioni, per esempio nella catena di montaggio, gli aspetti tecnici sono associati a quelli organizzativi, gestionali e di mercato: sebbene nella letteratura contemporanea il termine 'innovazione' sia usato talvolta per indicare semplicemente il lancio di un nuovo prodotto, per Schumpeter esso comprende il processo innovativo nella sua interezza.
Le innovazioni che hanno successo danno luogo a una fase di diffusione, in cui l'innovazione originaria viene imitata e adottata da altre imprese e da altri utilizzatori. Schumpeter tendeva a considerare l'innovatore come un personaggio eroico, eccezionale, e gli imitatori come semplici gestori di routine. Di recente quest'aspetto della definizione schumpeteriana è stato oggetto di pesanti critiche: si è sostenuto che la diffusione non consiste solo nel profittare di una scoperta o nel seguire una moda, ma implica numerose ulteriori innovazioni, che perfezionano il prodotto o il procedimento originari fino a renderli irriconoscibili. Ad esempio i microprocessori e i supercalcolatori degli anni novanta differiscono molto dal calcolatore di Zuse usato dai progettisti degli aerei Henschel nella seconda guerra mondiale, o dal GOLIATH usato dagli inglesi per decifrare i codici segreti tedeschi, o dall'ENIAC e da altri elaboratori prodotti negli Stati Uniti durante e poco dopo la seconda guerra mondiale: sono totalmente diversi nei componenti, nelle unità periferiche, nell'architettura e nel fabbisogno energetico, e le loro prestazioni superano di vari ordini di grandezza quelle dei loro predecessori. A dire il vero lo stesso Schumpeter accettava quest'idea quando affermava che "l'automobile non avrebbe assunto l'importanza odierna e non sarebbe divenuta un fattore così potente di mutamento della nostra vita se fosse rimasta com'era trent'anni fa e non avesse modificato le condizioni ambientali (ad esempio le strade) per favorire il proprio sviluppo" (v. Schumpeter, 1939, p. 167).
Sebbene alcuni prodotti, come l'automobile o l'elaboratore, siano stati modificati e perfezionati in modo radicale nel corso della loro diffusione, molti altri - specialmente nell'industria farmaceutica e in quella alimentare - sono cambiati di poco o sono rimasti invariati. Anche quando il prodotto o il procedimento vengono migliorati durante la diffusione, spesso questo perfezionamento è molto graduale e può essere ritenuto di natura incrementale anziché radicale.
Perciò, nonostante le critiche mosse alla teoria della diffusione di Schumpeter, la maggior parte degli studiosi di scienze sociali trova ancora assai utile il suo quadro concettuale. Per di più ogni economista riconoscerà che è il processo di diffusione ad accrescere decisamente la produttività e quindi a favorire lo sviluppo economico e l'aumento del reddito pro capite. Le singole innovazioni hanno di per sé effetti appena percettibili sul sistema macroeconomico, la cui efficienza può essere modificata sostanzialmente solo dalla diffusione su larga scala delle nuove tecnologie. Perciò oggi più che mai economisti e sociologi si dedicano allo studio della diffusione delle innovazioni, pur essendo sempre più consapevoli del fatto che in molti casi si tratta di studiare un prodotto mutevole entro un contesto mutevole (v. Arcangeli e altri, 1986).
Qualche critica è stata rivolta anche alla distinzione fra invenzioni e innovazione. Come nel processo di diffusione si hanno ulteriori innovazioni incrementali, così la fase di sviluppo delle innovazioni è spesso associata a nuove invenzioni migliorative. L'esame delle statistiche riguardanti i brevetti mostra che in molti casi i brevetti 'principali' relativi all'invenzione originaria sono seguiti a distanza di qualche anno da gruppi di altri brevetti: si tratta di brevetti di miglioria o 'protettivi', ottenuti dall'azienda innovatrice, ma anche di brevetti (sovente assai più numerosi) del tipo 'anch'io', ottenuti da imitatori desiderosi di saltare sul carro del vincitore ma costretti a differenziare il proprio prodotto o il proprio procedimento per aggirare il monopolio dell'innovatore.Anche in questo caso, nonostante le critiche, la distinzione concettuale di Schumpeter rimane estremamente utile. Esiste una notevole differenza tra invenzione e innovazione, anche se entrambe sono di rado processi regolari e lineari; in effetti il risultato più utile del dibattito sulle definizioni schumpeteriane è stato il generale riconoscimento del fatto che il cosiddetto 'modello lineare' dell'innovazione è pericolosamente fuorviante. Invenzione, innovazione e diffusione non sono fasi separate e successive di un processo ordinato, ma comportano numerosi 'circuiti a feedback' e presentano un grado elevato d'interazione: la diffusione suscita infatti ulteriori invenzioni e innovazioni.
Da quanto precede appare chiaro che l'importanza tecnica ed economica delle invenzioni e delle innovazioni varia molto da caso a caso. Ogni anno gli uffici brevetti europei, giapponesi, statunitensi e di altri paesi rilasciano centinaia di migliaia di brevetti (v. Archibugi e Pinta, 1992), ma pochi di essi hanno una rilevanza tecnica notevole. Purtroppo di solito l'influsso economico e sociale di un'innovazione può essere accertato solo a posteriori, spesso a distanza di molti anni; ciò però non toglie che sia necessario valutare e classificare in qualche modo le innovazioni. Gli uffici brevetti le classificano quasi esclusivamente secondo criteri tecnologici (che risultano utili, sia pure indirettamente, anche per una classificazione industriale); ma è altrettanto importante tentare una tassonomia socioeconomica, e sarà questo l'argomento del prossimo capitolo.
La valutazione dell'importanza economica delle nuove tecnologie rende necessaria una tassonomia dell'innovazione capace di distinguere fra innovazione incrementale, innovazione radicale e nuovo sistema tecnologico. Inoltre negli anni ottanta e novanta, accanto a una grande varietà di singole innovazioni incrementali, radicali o sistemiche in quasi tutte le industrie, si è manifestato un generale cambiamento di paradigma: dalla tecnologia degli anni cinquanta e sessanta, caratterizzata da una produzione di massa e a flusso continuo, poco flessibile e a uso intensivo di capitale e di energia, si è passati a una tecnologia più flessibile, a uso intensivo di informazione e computerizzata. Questo cambiamento tecnologico generalizzato, che investe quasi tutte le branche dell'economia, merita sicuramente - insieme ad altre combinazioni di innovazioni tecniche e organizzative - un'attenzione non minore di quella dedicata alle singole innovazioni, che sono state finora al centro della maggior parte delle ricerche sull'argomento e dei programmi di aiuti governativi. Possiamo dunque definire quattro tipi d'innovazioni: a) le innovazioni incrementali; b) le innovazioni radicali; c) i mutamenti di sistema tecnologico; d) i mutamenti di paradigma tecnico-economico (le rivoluzioni tecnologiche).
Innovazioni incrementali si verificano quasi continuamente in tutte le attività industriali e terziarie, anche se in misura diversa nei vari settori, a seconda del modo in cui si combinano le pressioni da parte della domanda, le capacità inventive e le possibilità tecnologiche. Di recente molte innovazioni incrementali sono nate da programmi organizzati di ricerca e sviluppo; ma di solito esse sono, più che il risultato di un'attività intenzionale di questo tipo, la conseguenza di invenzioni e perfezionamenti suggeriti da tecnici o da altre persone direttamente impegnate nel processo produttivo, oppure derivano da iniziative e proposte degli utilizzatori. Numerosi studi empirici, come quello di Hollander (v., 1965) sugli aumenti di produttività nelle fabbriche di rayon della Du Pont, hanno confermato la grande importanza delle innovazioni incrementali nell'accrescere l'efficienza d'impiego di tutti i fattori produttivi. Esse sono particolarmente utili nel periodo di sviluppo che fa seguito a un'innovazione rivoluzionaria (vedi oltre), e spesso sono associate alla progressiva espansione degli impianti e delle attrezzature, nonché ai miglioramenti qualitativi di prodotti e servizi destinati a varie applicazioni specifiche. Benché l'effetto combinato di più innovazioni incrementali sia molto importante per l'aumento della produttività, una singola innovazione di questo tipo non produce mai effetti vistosi e talvolta può passare addirittura inosservata.
Ad ogni modo gli effetti di queste innovazioni si manifestano nella crescita costante della produttività, che nelle tavole d'interdipendenza strutturale si riflette in sensibili variazioni nel tempo dei coefficienti relativi al complesso dei prodotti e dei servizi esistenti. Alla categoria delle innovazioni incrementali sono riferibili la maggior parte delle invenzioni e delle innovazioni indotte dalla domanda e la grande maggioranza dei brevetti. L'esperienza giapponese del reverse engineering, della riprogettazione dei sistemi produttivi e del coinvolgimento dei lavoratori nel miglioramento della qualità ha aperto ampie prospettive a questo tipo d'innovazione, come dimostra l'esempio dell'industria automobilistica (v. Womack e altri, 1990).
Le innovazioni radicali avvengono in modo discontinuo e negli ultimi tempi sono per lo più il frutto di un'attività programmata di ricerca e sviluppo nelle imprese e/o nei laboratori universitari e governativi (come nel caso del polipropilene); non è possibile quindi interpretarle come il risultato cumulativo di piccole modifiche a prodotti e processi già esistenti. Ad esempio non vi era nessuna possibilità che i reattori nucleari nascessero da perfezionamenti incrementali apportati ai precedenti metodi per produrre elettricità, né che il nylon nascesse da miglioramenti nella lavorazione delle fibre tessili naturali. Le innovazioni radicali sono distribuite irregolarmente nei vari settori e nel tempo, ma quando avvengono sono sempre importanti come possibili punti di partenza per lo sviluppo di nuovi mercati, per sensibili migliorie della qualità e riduzioni del costo dei prodotti esistenti; spesso esse implicano un mutamento contemporaneo del prodotto, del processo produttivo e del sistema organizzativo. Un'innovazione radicale come il nylon o la pillola anticoncezionale può avere effetti vistosi nel giro di qualche decennio, ma il suo influsso economico rimane relativamente modesto e localizzato, a meno che un insieme interconnesso di queste innovazioni non sia capace di dar vita a industrie e servizi del tutto nuovi, com'è avvenuto per i materiali sintetici o per i semiconduttori. In effetti le innovazioni radicali si presentano generalmente a grappoli. A rigore esse porterebbero sempre, a un livello di disaggregazione sufficientemente spinto, all'aggiunta di nuove righe e nuove colonne nelle tavole d'interdipendenza strutturale, mentre le innovazioni incrementali farebbero soltanto cambiare i coefficienti tecnologici; ma in pratica tali aggiunte avvengono solo per le innovazioni più importanti e con molto ritardo, allorché il loro peso economico è già cospicuo. Nel caso delle innovazioni radicali, in cui per definizione non esiste ancora un mercato costituito, l'influsso della domanda è molto più debole che non nel caso delle innovazioni incrementali. Tuttavia è evidente che i tecnologi e gli scienziati a cui si devono l'introduzione e lo sviluppo delle innovazioni radicali hanno lo sguardo rivolto a un mercato potenziale e sono influenzati dagli sviluppi sociali ed economici: per dirla con Carlota Perez (v., 1985), la ricerca è stata sempre orientata verso la trasformazione dei metalli vili in oro e non viceversa. Oltre tutto gli studi monografici sull'innovazione mostrano chiaramente che gli innovatori che si preoccupano di identificare gli utilizzatori potenziali e di studiarne le esigenze hanno maggiori probabilità di successo.
I mutamenti di sistema tecnologico sono mutamenti tecnologici di vasta portata, che incidono su uno o più settori dell'economia o che danno origine a settori del tutto nuovi; essi si basano su un complesso di innovazioni radicali e incrementali, associate a innovazioni organizzative riguardanti un numero consistente di imprese. Nella sua esposizione della teoria schumpeteriana dello sviluppo economico B.G. Keirstead (v., 1948) ha introdotto il concetto di 'costellazioni' di innovazioni tecnicamente ed economicamente interconnesse. Un esempio ovvio è dato dall'insieme delle nuove tecniche per la produzione di materiali sintetici, che negli anni trenta, quaranta e cinquanta sono state accompagnate da innovazioni nel settore petrolchimico e nei macchinari (formatura per iniezione, estrusione) e da un gran numero di innovazioni applicative (v. Freeman e altri, 1982). Le imprese impegnate nella ricerca in questo campo - come il gruppo tedesco IG Farben per il cloruro di polivinile e il polistirolo, o la Montecatini, in collegamento col Politecnico di Milano, per il polipropilene - hanno spesso affiancato alle innovazioni radicali originarie numerose innovazioni applicative, contribuendo così allo sviluppo di interi nuovi settori dell'economia.
Talvolta i mutamenti di sistema tecnologico hanno effetti di portata così vasta che il loro influsso risulta determinante non solo su alcuni settori, ma sull'andamento generale dell'economia: si tratta di quelle "ondate di distruzione creatrice" che sono al centro della teoria di Schumpeter (v., 1939) sui cicli di lunga durata nello sviluppo economico. Esempi ovvi di queste profonde trasformazioni, che è lecito definire 'mutamenti di paradigma tecnico-economico' o 'rivoluzioni tecnologiche', sono la diffusione della macchina a vapore e dell'energia elettrica o l'insieme delle innovazioni associate al calcolatore elettronico. Il termine 'paradigma' indica un processo di scelta economica entro la gamma delle combinazioni di innovazioni tecnicamente possibili; occorre quindi un tempo relativamente lungo (almeno un decennio) perché un nuovo paradigma si stabilizzi, e un tempo ancora più lungo perché si diffonda nel sistema, attraverso una complessa interazione tra fattori tecnologici, economici e politici. Un nuovo paradigma incide sulla struttura e sulle condizioni della produzione e della distribuzione in quasi tutti i settori dell'economia; la sua nascita è stimolata dalla percezione dei limiti che il paradigma esistente pone all'ulteriore sviluppo della produttività, della redditività e del mercato.
Il concetto di 'mutamento di paradigma tecnico-economico' è stato usato da Dosi (v., 1982), che lo ha paragonato agli analoghi concetti di 'rivoluzione scientifica' e di 'mutamento di paradigma nella ricerca di base' introdotti da Kuhn (v., 1962); in quest'ottica l'innovazione incrementale lungo preesistenti linee di sviluppo tecnologico viene a corrispondere alla normal science di Kuhn. Molti altri autori hanno usato il termine 'paradigma tecnologico' per indicare concetti in gran parte analoghi, mentre Nelson e Winter (v., 1977) hanno introdotto il concetto di 'linee di sviluppo naturali generalizzate' e Sahal (v., 1981) ha elaborato quello di 'tecnologie aspecifiche'.
Si tratta comunque di concezioni simili tra loro; l'impostazione di Carlota Perez (v., 1983 e 1985), più originale e feconda, presenta invece alcuni caratteri distintivi importanti. Secondo questa studiosa l'elaborazione di un nuovo paradigma tecnico-economico implica per i progettisti, i tecnici, gli imprenditori e i dirigenti un nuovo insieme 'ottimale' (best practice) di regole e di consuetudini che differisce per molti importanti aspetti dal paradigma prima dominante. Le rivoluzioni tecnologiche danno origine a tutta una serie di funzioni della produzione che si modificano rapidamente, riguardanti sia i vecchi prodotti che quelli nuovi; anche se non è possibile prevedere esattamente le economie di manodopera e di capitale realizzabili, i vantaggi tecnici ed economici generali ricavabili dall'applicazione delle nuove tecnologiche diventano sempre più evidenti, e si stabiliscono gradualmente nuove regole empiriche. I mutamenti di paradigma consentono un 'salto quantico' della produttività potenziale, salto che però avviene dapprima solo in pochi settori d'avanguardia, mentre in altri settori richiede mutamenti organizzativi e sociali di più vasta portata. L'affermarsi di un nuovo paradigma tecnico-economico dà quindi origine, man mano che le nuove tecnologie si diffondono in tutti i settori, a una crisi strutturale di adattamento.
La Perez ha fondato la propria teoria sul concetto schumpeteriano di 'ondate di distruzione creatrice', ma ha fornito un'interpretazione delle onde lunghe dello sviluppo economico più convincente di quella proposta dallo stesso Schumpeter (v., 1939) per spiegare i cicli di lunga durata di Kondrat´ev. L'idea di un 'metaparadigma' tecnico-economico che incide sulle tecnologie e sull'organizzazione aziendale ottimali in quasi tutti i settori - valendosi di volta in volta della disponibilità di inputs particolarmente poco costosi (il cotone nel primo ciclo di Kondrat´ev, il carbone nel secondo, l'acciaio nel terzo, il petrolio nel quarto, i circuiti integrati nel quinto) - appare più plausibile di una spiegazione fondata solo su singole innovazioni, per importanti che siano, in poche industrie guida.
Il nuovo paradigma tecnico-economico indotto dalla tecnologia dell'informazione e della comunicazione è fondato su una costellazione di innovazioni che interessano alcuni dei settori in più rapido sviluppo in tutti i principali paesi industrializzati (i settori dei calcolatori, dei componenti elettronici, delle telecomunicazioni); esso ha già prodotto, oltre a notevoli miglioramenti delle prestazioni tecniche, una netta caduta dei costi e una tendenza antinflazionistica dei prezzi in questi settori. Questa combinazione è relativamente rara nella storia dell'innovazione e indica che il nuovo paradigma soddisfa tutti i requisiti di una rivoluzione economica schumpeteriana nel senso più generale. Grazie ai suoi vantaggi tecnici ed economici, sia attuali che potenziali, questa rivoluzione tecnologica incide oggi, anche se in modi molto diversi, su tutti gli altri settori. Per studiarla è necessario tener conto non solo dei singoli prodotti e processi, ma anche dei cambiamenti che la tecnologia dell'informazione e della comunicazione induce nell'organizzazione e nella struttura delle imprese e delle industrie. Alcuni autori, nel mettere in risalto la profonda trasformazione in atto nei grandi complessi produttivi, come la General Motors, hanno parlato di questi cambiamenti come di una 'rivoluzione culturale'. Nel supplemento speciale The factory of the future l'"Economist" del 30 maggio 1987 affermava che si sta reinventando la 'fabbrica' su basi completamente nuove: le linee di produzione tradizionali vengono smantellate e sostituite da macchinari flessibili 'tuttofare'. È evidente che la direzione in cui si muove l'innovazione è fortemente influenzata da questi mutamenti sistemici nella tecnologia.
Oltre a produrre mutamenti radicali nell'organizzazione delle superfici della fabbrica, nella robotica, nel controllo mediante elaboratori, nella mentalità, nella struttura gestionale e nelle procedure delle grandi aziende, il diffondersi della tecnologia dell'informazione e della comunicazione ha numerosi effetti collaterali sull'economia: si possono cambiare più rapidamente prodotti e procedimenti; le varie funzioni aziendali (progettazione, produzione, approvvigionamento) risultano molto più strettamente integrate fra loro; diminuisce l'importanza delle economie di scala fondate sulle tecniche specializzate della produzione di massa ad alta intensità di capitale; si riducono il numero e il peso dei componenti meccanici di molti prodotti; le reti dei fornitori di componenti e dei montatori di prodotti finiti possono essere maggiormente integrate, con conseguente economia di capitali; nascono nuovi 'servizi alle imprese' che soddisfano la crescente richiesta di software, di progetti, d'informazione e di consulenza tecnica da parte delle aziende manifatturiere; si sviluppano con grande rapidità numerose piccole imprese innovatrici che forniscono questi servizi e introducono nuovi tipi di hardware e di componenti. È chiaro che tutti questi mutamenti vanno molto al di là delle singole innovazioni radicali e giustificano l'uso del termine 'mutamento di paradigma'.
Se si confrontano gli effetti economici della tecnologia dell'informazione e della comunicazione con quelli di altri importanti mutamenti tecnologici, appare chiaro che negli anni novanta solo essa può essere considerata un mutamento di paradigma. Sebbene in definitiva la biotecnologia possa produrre effetti altrettanto (e forse anche più) generalizzati, i tempi occorrenti per la ricerca, lo sviluppo, l'innovazione, la diffusione, gli investimenti, l'istruzione e l'addestramento in vista delle innumerevoli applicazioni possibili sono talmente lunghi che difficilmente queste applicazioni potranno essere attuate prima del secolo venturo. La biotecnologia si trova oggi nello stesso stadio in cui era la tecnologia dei calcolatori negli anni cinquanta; i costi dello sviluppo, dell'innovazione, degli investimenti e dell'addestramento limitano la sua utilizzazione a pochi campi specializzati, in particolare alla sanità e all'agricoltura. Naturalmente le tecnologie dei materiali e dell'energia avranno sempre un ruolo importante in ogni società industrializzata: ad esempio, le innovazioni nel campo dei materiali ceramici e compositi sono di eccezionale importanza (v. Lastres, 1992). Ma tutte queste tecnologie sono a loro volta strettamente legate all'uso dell'informazione nella ricerca, nella progettazione, nella produzione e nelle applicazioni; perciò la capacità di usare in modo efficiente la tecnologia dell'informazione è la chiave di ogni strategia economica nei paesi industrializzati. Ovviamente ciò non significa che le altre tecnologie debbano essere trascurate, ma solo che la tecnologia dell'informazione è di importanza cruciale. Per la ricerca nella biotecnologia e nella tecnologia dei materiali sono sempre più necessari i supercalcolatori; perciò negli anni ottanta e novanta le politiche dell'innovazione nei paesi dell'OECD si sono andate orientando, anziché verso i singoli prodotti, verso tecnologie e sistemi di tipo generico, e in particolare verso la tecnologia dell'informazione e della comunicazione (v. OECD, 1991; v. Soete, 1992).
Sul riconoscimento dell'importanza assunta dagli aspetti sistemici dell'innovazione, tipico della recente ricerca neoschumpeteriana, concordano anche i maggiori storici della tecnologia, da Rosenberg (v., 1976) a Gille (v., 1978) e a Hughes (v., 1983), che hanno messo più volte in risalto sia l'importanza delle innovazioni 'indotte' nel far fronte alle strettoie del sistema, sia la necessità di produrre materiali e componenti con prestazioni più elevate e di introdurre innovazioni organizzative per favorire le interconnessioni tra vecchie e nuove tecnologie. Queste caratteristiche dell'innovazione ci portano a considerare uno dei problemi più dibattuti fra gli storici e gli economisti: quello del ruolo che la 'trazione della domanda' e la 'spinta tecnologica' svolgono nello stimolare le innovazioni e nell'influenzarne la diffusione. A tale problema sarà dedicato il prossimo capitolo.
Per molti anni il problema di quali siano i fattori che determinano l'innovazione nelle società industrializzate ha continuato a essere dibattuto, anche se in modo piuttosto confuso, tra gli economisti e tra gli storici della scienza e della tecnologia. Alcuni di essi hanno sostenuto che sono soprattutto il mercato e altri fattori economici e sociali a determinare la scala, l'intensità e l'orientamento delle attività inventive e innovative, e in alcuni casi della stessa ricerca scientifica; altri invece hanno attribuito maggiore importanza allo sviluppo autonomo della tecnologia e all'influsso sempre più forte della scienza su di essa e di entrambe sull'innovazione.
I sociologi della scienza non saranno sorpresi nel constatare che gli studi promossi dagli enti orientati verso il mercato tendono a convalidare la tesi della trazione della domanda, mentre gli studi promossi dagli enti che organizzano la ricerca scientifica di base (come la National Science Foundation) pervengono a conclusioni che confermano la tesi della spinta scientifica e tecnologica. Ma ciò non deve indurci ad assumere un atteggiamento scettico nei confronti del dibattito: il problema è estremamente complesso e le risultanze empiriche giustificano in qualche modo ambedue le spiegazioni, e ancor più una spiegazione che tenga conto di entrambe.
Anche per questo motivo i protagonisti del dibattito non sono rigorosamente classificabili secondo le scuole ideologiche presenti in altri campi delle scienze economiche e sociali. Ad esempio, fra gli economisti neoclassici alcuni hanno insistito sui caratteri del mutamento tecnologico indotti dalla domanda e sulla scelta razionale tra combinazioni alternative di capitale e lavoro nella funzione di produzione tradizionale (la cosiddetta production possibilities frontier); altri invece (v., per esempio, Salter, 1961) hanno messo in evidenza gli influssi esogeni e imprevedibili esercitati dalla scienza e dalla tecnologia sullo sviluppo economico.
Analogamente è possibile trovare orientamenti molto diversi tra loro nella letteratura marxista. Da un lato Hessen (v., 1931) e i suoi colleghi sovietici hanno attribuito alla trazione della domanda un influsso decisivo non solo sulla tecnologia, ma anche sulla scienza di base; dall'altro Bernal (v., 1953) ha messo in risalto la relativa autonomia in cui si svolge la ricerca di base e la capacità delle scoperte scientifiche di dare origine a industrie del tutto nuove, e ha parlato addirittura (almeno all'inizio: v. Bernal, 1928) di una tendenza degli scienziati ad assumere il controllo del mondo e dell'universo.
Gli economisti e gli altri studiosi che sottolineano il ruolo della trazione della domanda sono portati a ritenere che la principale forza che guida le attività inventive e innovative sia, se non proprio la neoclassica onniscienza dell''informazione perfetta' circa i prezzi, i mercati, i costi e le possibili combinazioni tra i fattori della produzione, almeno una certa quantità di informazioni e di segnali sufficientemente attendibili su ciò che il mercato 'desidera'.
Per contro gli economisti (o gli storici o i tecnologi) che danno maggiore importanza alla spinta scientifica e tecnologica tendono a mettere in evidenza la natura aleatoria dell'innovazione tecnica, il carattere sperimentale delle attività di ricerca e sviluppo, la difficoltà di ottenere informazioni precise su mercati che sono a loro volta fluidi e che spesso consentono solo previsioni vaghe. Essi insistono da un lato sull'intrinseca imprevedibilità della ricerca scientifica di base e dall'altro sull'esistenza di 'linee di sviluppo tecnologico' che hanno origine dalle grandi scoperte scientifiche e tecniche e che interessano sia il miglioramento delle caratteristiche tecnologiche, sia l'ampliamento della gamma delle possibili applicazioni. Rappresentanti tipici di questa categoria di economisti neoschumpeteriani sono Nelson e Winter (v., 1982), con la loro 'teoria evolutiva del mutamento economico'.
J. Schmookler, un economista che ha dato un importante contributo alla storia delle invenzioni, può essere considerato essenzialmente un sostenitore della spiegazione del mutamento tecnologico in termini di trazione della domanda. Nella sua opera principale, Invention and economic growth (1966), egli ha cercato di dimostrare, mediante statistiche molto particolareggiate sui brevetti, che in generale negli Stati Uniti del XIX secolo i massimi e i minimi dell'attività inventiva hanno fatto seguito nel tempo ai massimi e ai minimi degli investimenti in un certo numero di industrie chiave. Da ciò egli ha tratto la conclusione che il principale stimolo all'invenzione e all'innovazione proveniva dal mutamento di struttura della domanda, misurato dagli investimenti in nuovi beni strumentali nelle ferrovie e in altre industrie; ha negato inoltre la possibilità che la sua analisi fosse valida solo per il gran numero di brevetti secondari, di routine, ottenuti sulla scia delle invenzioni e delle innovazioni più importanti.
Schmookler è riuscito senza dubbio a dimostrare che in un certo numero di industrie vi è stata una stretta correlazione tra investimenti, attività inventive e attività innovative; non è riuscito però a provare l'esistenza di un ritardo costante delle serie delle invenzioni rispetto a quelle degli investimenti, perché, come egli stesso lealmente ha ammesso, in alcuni casi le serie dei brevetti sembravano precedere nel tempo quelle degli investimenti. Pertanto egli non ha fondato la sua argomentazione solo sul fatto che le serie degli investimenti e delle vendite precedono sempre quelle delle invenzioni, ma anche sul fatto che di solito gli investimenti precedono le fasi di ripresa e che il loro andamento può essere spiegato meglio con l'influsso di eventi esterni che non con la 'spinta delle invenzioni'.
Al saggio di Schmookler ha fatto seguito tutta una serie di studi intesi a dimostrare che l'invenzione e l'innovazione sono guidate soprattutto (o esclusivamente) dalla domanda di mercato. In una recensione critica di tali studi Mowery e Rosenberg (v., 1979) hanno osservato che in molti di essi vi era una certa confusione tra 'domanda' e 'bisogni'. I bisogni umani, essendo pressoché infiniti e spesso antichi quanto l'uomo, non bastano a spiegare la comparsa di una data innovazione in un dato momento; vi è inoltre una notevole differenza tra il rispondere a una domanda attuale, effettivamente formulata dal mercato, e il prevedere una possibile domanda futura. Mentre il saggio di Schmookler potrebbe essere riferibile al primo caso, almeno per quanto riguarda lo stimolo immediato all'attività inventiva, alcuni degli studi successivi vanno riferiti al secondo caso, perché trattano di previsioni ipotetiche circa il futuro mercato di un nuovo prodotto.
Inoltre Mowery e Rosenberg hanno fatto notare che talvolta gli stessi autori di questi studi non erano propensi a interpretare i propri risultati come prove di un influsso prevalente della domanda di mercato sul prodursi delle innovazioni. Specialmente nel caso del progetto SAPPHO, realizzato presso la Science Policy Research Unit (SPRU) dell'Università del Sussex (v. Rothwell, 1974), e in quello degli studi condotti a Manchester da Langrish, Gibbons, Evans e Jevons (v., 1972), gli autori avevano dichiarato esplicitamente di considerare il successo di un'innovazione come il risultato di un'interazione tra la spinta scientifica e tecnologica da un lato e i bisogni e le domande degli utilizzatori dall'altro, con l'eventuale prevalenza di uno dei due fattori in determinati casi.
Alla vigorosa critica mossa da Mowery e Rosenberg alle teorie secondo cui l'innovazione è legata alla trazione della domanda se ne può affiancare un'altra, fondata sui metodi dello stesso Schmookler ma applicati ad altre industrie, in circostanze diverse e con l'uso di dati aggiuntivi. In uno studio sull'industria chimica V. Walsh (v., 1984) ha messo in relazione - alla maniera di Schmookler - le statistiche dei brevetti e delle pubblicazioni scientifiche con i dati riguardanti la produzione, gli investimenti, le innovazioni e le vendite, nel tentativo di verificare due ipotesi sul ruolo della trazione della domanda, una 'forte' e una 'debole'.
Come già nel saggio di Schmookler, l'andamento degli anticipi e dei ritardi non è risultato affatto così evidente da permettere di considerare risolta la questione; tuttavia si è avuta anche qui la prova di un sincronismo tra l'andamento degli sviluppi economici e quello degli sviluppi tecnici, nel senso che in ciascuno dei settori studiati (prodotti petrolchimici, coloranti, prodotti farmaceutici e materiali sintetici) gli aumenti più cospicui della produzione e degli investimenti sono risultati accompagnati da un notevole aumento del numero dei brevetti e delle relative pubblicazioni scientifiche. Nelle fasi di ristagno gli andamenti sono risultati meno nettamente definiti, ma nell'industria chimica queste fasi erano, almeno fino ai tempi più recenti, meno importanti che nelle industrie prese in esame da Schmookler.
Ad ogni modo il risultato più interessante del lavoro di Walsh è stato questo: nei settori dei coloranti, dei prodotti farmaceutici e dei materiali sintetici i primi stadi dell'innovazione sembrano seguire un modello inverso rispetto a quello indicato da Schmookler, che sembra invece affermarsi dopo il decollo delle nuove industrie. In tutti e quattro i settori studiati l'analisi qualitativa ha confermato il ruolo delle scoperte scientifiche e tecnologiche nel consentire e nello stimolare, all'inizio, un rapido aumento dell'attività inventiva e delle innovazioni tecniche.
Questi risultati corrispondono all'ipotesi schumpeteriana di una stretta interdipendenza tra lo sviluppo tecnologico, quello scientifico e quello del mercato; va precisato però che negli stadi iniziali predomina spesso l'influsso esogeno della scienza e delle nuove tecnologie, mentre nella fase della maturità prevalgono la domanda di mercato, le innovazioni di processo e le invenzioni secondarie. In termini puramente quantitativi il numero dei brevetti e delle pubblicazioni tecnico-scientifiche risulterà assai maggiore negli stadi più avanzati che non in quelli iniziali. Troviamo qui un'analogia con i concetti di 'mutamento di paradigma' e di 'normal science' proposti da Kuhn; del resto le ricerche più recenti hanno per lo più confermato che le innovazioni incrementali sono influenzate soprattutto dalla trazione della domanda, mentre quelle radicali dipendono molto di più dalle scoperte scientifiche e tecnologiche.
Una delle principali critiche alla tesi secondo cui il mutamento tecnico è legato alla trazione della domanda e alla connessa ipotesi della scelta razionale nell'adozione delle decisioni è fondata sull'esame delle origini e dei primi sviluppi di quelle innovazioni che non derivano dall'accumularsi di piccole modifiche a prodotti e a procedimenti esistenti. Ad esempio, come si è detto all'inizio, il nylon non sarebbe potuto nascere da perfezionamenti nella lavorazione delle fibre tessili naturali; e già Schumpeter aveva osservato che ben difficilmente la ferrovia sarebbe potuta nascere da una successione di diligenze e aveva sostenuto che le innovazioni radicali, lungi dall'essere introdotte da imprenditori che agiscono razionalmente in base a un'esatta conoscenza della domanda dei consumatori, vengono di solito imposte da imprenditori d'eccezione a un mercato riluttante e poco ricettivo. Machiavelli insegna!
Quest'aspetto della questione può essere chiarito con l'esempio del calcolatore elettronico, da tutti riconosciuto come una delle più importanti (se non la più importante) tra le innovazioni del nostro secolo. Nel tracciare la storia dell'industria dei calcolatori negli Stati Uniti, Katz e Phillips (v., 1981) hanno fatto alcune osservazioni interessanti sui motivi per cui i privati non s'impegnarono nel lanciare sul mercato i calcolatori elettronici che durante la seconda guerra mondiale erano stati sviluppati e usati su scala molto limitata per decifrare codici segreti e per eseguire calcoli balistici e di progettazione: "Fino al 1950 l'opinione corrente era che non vi fosse una domanda commerciale di calcolatori. Il presidente dell'IBM Thomas J. Watson senior - che pure aveva un'esperienza risalente almeno al 1928 e conosceva bene, come ogni altro capitano d'industria, i bisogni delle aziende e le possibilità delle apparecchiature d'avanguardia - riteneva che l'unico elaboratore SSEC esposto nella sede newyorkese dell'IBM fosse in grado di risolvere tutti i problemi di calcolo posti dalla ricerca scientifica mondiale. Egli non scorgeva nessuna possibilità di sviluppo commerciale in questo campo; e quest'opinione continuò a prevalere nonostante il fatto che alcune grandi aziende private che avrebbero potuto ricorrere ai calcolatori - società di assicurazioni, di telecomunicazioni, di costruzioni aeronautiche, ecc. - fossero relativamente ben informate sulle nuove tecnologie. Sembrava che non vi fossero grandi possibilità di mercato".
Anche in seguito, dopo che l'IBM ebbe prodotto un piccolo numero di calcolatori per il governo statunitense durante la guerra di Corea, l'Ufficio programmazione e vendite della società non prevedeva un mercato civile per il calcolatore modello 650. Vincendo la sua opposizione, il Gruppo per la scienza applicata riuscì a convincere il nuovo presidente Thomas J. Watson junior a sostenere la produzione di quel modello, prevedendo una vendita di 200 esemplari: in realtà ne furono venduti 1800.
Certamente casi come questi contraddicono ogni teoria 'pura' secondo cui l'invenzione e l'innovazione sarebbero guidate dal mercato; una versione un po' più plausibile di tale teoria potrebbe essere quella che fa riferimento alla domanda degli enti militari e alla loro attività di promozione della ricerca e dello sviluppo. Sarebbe tuttavia errato ignorare la spinta esercitata dai tecnologi e dagli scienziati desiderosi di contribuire al progresso tecnico e capaci di immaginare nuove applicazioni nelle direzioni più svariate. Secondo Katz e Phillips (v., 1981) "i tecnologi utilizzatori operanti negli organi governativi e i tecnologi fornitori operanti nelle aziende private avevano interessi coincidenti e facevano parte di una 'confraternita' ben identificabile: gli uni e gli altri cercavano di indurre le rispettive amministrazioni a stanziare i fondi occorrenti per perseguire i propri obiettivi scientifici e tecnologici. La 'domanda' consisteva quindi, più che in una vera e propria domanda di apparecchiature facilmente commerciabili, in richieste di stanziamenti per la ricerca e lo sviluppo, avanzate da questi gruppi indipendentemente da un utile economico immediato sulle somme investite".
Senza dubbio vi sono stati scienziati e tecnologi ricchi d'immaginazione, come Norbert Wiener e John Deibold, che hanno previsto la maggior parte delle odierne applicazioni dei calcolatori nei più svariati settori dell'economia; ma lo sfruttamento commerciale di queste possibilità è dipeso da un gran numero di innovazioni radicali nel software, nelle memorie, nei circuiti integrati e nelle telecomunicazioni, come pure dalla creazione di nuovi mercati mediante innovazioni organizzative attuate da imprenditori con idee originali. Lo studio delle innovazioni più importanti e della loro diffusione ha portato alcuni economisti neoschumpeteriani (Katz e Phillips, Nelson e Winter, Nathan Rosenberg) a una concezione del mutamento tecnologico molto diversa da quella delle teorie della trazione della domanda.
Dosi (v., 1985) ha riassunto nei sei punti sotto elencati i 'fatti salienti' emersi negli ultimi vent'anni da questa corrente di studi sull'innovazione.
1. Il processo innovativo segue proprie regole che non possono essere considerate, almeno nel breve e nel medio periodo, come reazioni semplici e flessibili ai mutamenti nelle condizioni di mercato. È la natura stessa delle singole tecnologie a determinare sia l'ambito entro cui i prodotti e i procedimenti possono adattarsi alle mutevoli condizioni economiche, sia le possibili direzioni del progresso tecnico.
2. Nel nostro secolo la conoscenza scientifica è andata assumendo un ruolo sempre più determinante nell'aprire nuove possibilità di progresso tecnologico.
3. La crescente complessità della ricerca e delle attività innovative ha favorito, rispetto agli innovatori isolati, le organizzazioni istituzionali (laboratori di ricerca e sviluppo di grandi aziende, di enti governativi, di università, ecc.), che offrono l'ambiente più favorevole al prodursi delle innovazioni.
4. Parallelamente a questo fenomeno, e a integrazione di esso, un gran numero di innovazioni e di perfezionamenti ha avuto origine da conoscenze acquisite attraverso la pratica di individui e organizzazioni (soprattutto aziende); lo stesso può dirsi delle attività di ricerca e sviluppo connesse con le attività produttive delle aziende.
5. Nonostante la crescente formalizzazione istituzionale, la ricerca e l'innovazione conservano un carattere intrinsecamente aleatorio: di rado i loro esiti tecnici, e a maggior ragione quelli commerciali, possono essere noti in anticipo.6. Il mutamento tecnologico non avviene accidentalmente per due ragioni principali. In primo luogo, nonostante le notevoli variazioni sul piano delle innovazioni specifiche, la direzione del mutamento è spesso determinata dallo stato delle tecnologie già in uso; in secondo luogo le probabilità di progresso tecnico delle aziende, delle organizzazioni e spesso delle nazioni dipendono in genere (anche se non esclusivamente) dai livelli tecnologici da esse raggiunti. In altri termini il mutamento tecnologico è un'attività cumulativa.
I risultati degli studi sull'innovazione hanno grande importanza per le scelte di politica tecnologica e di politica economica. Prima di considerare alcuni aspetti di queste politiche, esamineremo le pressioni concorrenziali che hanno spinto la maggior parte dei paesi ad adottare certe direttive nei riguardi dell'innovazione, anche quando l'orientamento generale del governo era sfavorevole a una politica interventista.
Nella seconda metà del XX secolo la teoria classica del commercio internazionale si è rivelata sempre meno idonea a fornire una spiegazione soddisfacente dell'andamento dei traffici mondiali e della competitività a livello internazionale. Nel 1953 Leontief dimostrò che negli Stati Uniti le industrie che ottenevano i migliori risultati nelle esportazioni erano proprio quelle a uso intensivo di manodopera, stimolando così numerose ricerche per spiegare questo paradosso. La strada verso la soluzione del 'paradosso di Leontief' fu aperta dalla teoria del divario (gap) tecnologico di Posner, il quale provò (v. Posner, 1961) che nell'esportare un nuovo prodotto nel resto del mondo i paesi innovatori fruivano di un periodo di monopolio; i vantaggi commerciali del divario tecnologico potevano essere accresciuti da innovazioni incrementali e da economie di scala, sia statiche che dinamiche. Il modello interpretativo fondato sulla supremazia nell'innovazione, con tempi d'imitazione lunghi e un lento adeguamento del know-how, riusciva a spiegare in gran parte la struttura del commercio mondiale.
Una brillante riprova empirica della tesi di Posner è stata fornita da Hufbauer (v., 1966), che ha studiato l'introduzione di sessanta nuovi materiali sintetici e i tempi d'imitazione occorrenti perché i paesi all'avanguardia fossero raggiunti dagli altri. La sua ricerca ha confermato che gli innovatori più avanzati in questo settore (Germania e Stati Uniti) avevano fruito per molti anni di notevoli eccedenze di esportazione dei nuovi prodotti, prima che gli altri paesi avviassero la propria produzione su scala abbastanza grande. I tempi di imitazione per i paesi in via di sviluppo arrivavano spesso a trent'anni, e persino nel caso delle altre nazioni europee erano piuttosto lunghi, in quanto spesso variavano fra i cinque e i quindici anni.
Lo studio di Hufbauer forniva senza dubbio una valida conferma della teoria del divario tecnologico, ma ovviamente i suoi risultati erano applicabili solo all'industria dei materiali sintetici. Gli scettici avrebbero potuto obiettare che in altre industrie, specialmente in quelle a bassa intensità di ricerca e sviluppo, i costi del lavoro o l'intensità relativa dei vari fattori produttivi continuavano a essere determinanti; del resto lo stesso Hufbauer aveva osservato che nel caso di materiali sintetici stabilmente affermati e la cui tecnologia era largamente diffusa diventavano importanti anche i bassi livelli salariali. Fu Vernon a dimostrare che il volume delle esportazioni delle industrie statunitensi non era correlato con l'uso intensivo di capitale, ma era in stretta correlazione con l'intensità della ricerca e dello sviluppo (v. Vernon e altri, 1967). Questi risultati portarono a modificare la teoria classica del commercio per tener conto dell'impiego di manodopera specializzata nella ricerca e nello sviluppo e nelle altre attività a uso intensivo di tecnologia, e fecero sì che gli economisti e i responsabili delle decisioni strategiche apprezzassero maggiormente l'importanza dell'innovazione nella concorrenza commerciale a livello internazionale.
Rimaneva tuttavia agli scettici la possibilità di sostenere che gli Stati Uniti, allora all'avanguardia nel mondo per quanto riguardava la ricerca e lo sviluppo e l'innovazione, costituivano un caso a sé. Negli anni sessanta e settanta l'interesse degli studiosi si concentrò quindi sulle analisi riguardanti altri paesi, soprattutto europei. Nel 1981 Soete pubblicò il primo General test of technological gap trade theory, in cui studiava la correlazione tra gli incrementi del volume delle esportazioni e quelli della capacità d'innovazione in 40 settori industriali di 22 paesi dell'OECD. I risultati ottenuti dimostravano il ruolo decisivo della tecnologia nella grande maggioranza dei settori industriali: fra le 20 industrie che presentavano un indice elevato di correlazione tra le due variabili erano comprese tutte quelle a uso intensivo di ricerca e sviluppo, per le quali gli indicatori relativi a queste attività costituiscono validi strumenti per valutare tutte le attività riguardanti l'innovazione nei prodotti e nei procedimenti.
Fra le industrie che presentavano un indice di correlazione poco elevato o insignificante vi erano, oltre a quelle fondate su risorse naturali (industrie alimentari, petrolifere, ecc.), anche alcune industrie a bassa intensità di ricerca, come le industrie tessili, calzaturiere, ecc. In queste industrie assumono un ruolo importante il design e l'innovazione connessi alla moda; e poiché le definizioni di attività di ricerca e sviluppo fissate dall'OECD (v., 1963) non comprendono il design e tutta una serie di altre attività innovative, i paesi come l'Italia o la Spagna, nelle cui economie queste voci assumono grande rilevanza, non presentano le correlazioni statistiche tra esportazioni e ricerca e sviluppo rilevabili in paesi come gli Stati Uniti, il Giappone, la Germania, la Svezia, la Svizzera, ecc.
Naturalmente le suddette correlazioni non bastano a stabilire un nesso di causalità, soprattutto perché i dati quantitativi su ricerca e sviluppo (ossia sui brevetti) misurano solo indirettamente l'innovazione; è utile quindi disporre di altre indicazioni che possano confermare la teoria secondo cui l'innovazione è un fattore decisivo nella concorrenza commerciale a livello internazionale. Le inchieste fra gli importatori e gli esportatori in Germania, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti (per esempio: v. Kravis e Lipsey, 1971; v. Rothwell, 1980) hanno dimostrato in modo esauriente che il design, la novità e le caratteristiche tecniche svolgono un ruolo dominante nelle decisioni relative all'importazione di macchinari e di molti altri beni: fra gli importatori tedeschi solo il 7% ha affermato di acquistare prodotti americani per il loro minor prezzo, mentre il 63% ha motivato la propria decisione col fatto che in Germania non erano disponibili prodotti equivalenti.
Dagli studi citati e da altri studi analoghi risulta che indubbiamente la tecnologia e l'innovazione sono fattori importanti nella competizione commerciale. Naturalmente ciò non significa che la competitività dei prezzi, il basso costo del lavoro e la disponiblità di risorse naturali non abbiano più nessuna rilevanza: in alcune industrie questi fattori sono ancora predominanti e in tutte le industrie l'innovazione tecnica, oltre che a introdurre nuovi prodotti, può contribuire a ridurre i costi. Le industrie dell'abbigliamento americane ed europee riescono a fronteggiare la concorrenza del Terzo Mondo, fondata sul basso livello dei salari e dei prezzi, solo mediante l'innovazione tecnica e stilistica, ma anche così stentano a sopravvivere. Naturalmente per molti beni primari continuano a essere importanti le risorse minerarie e le condizioni climatiche favorevoli. Ad ogni modo la ricerca neoschumpeteriana sul ruolo dell'innovazione nella competizione commerciale mondiale durante la seconda metà del nostro secolo ha avuto un influsso decisivo sia sulla teoria che sulle politiche economiche: molte decisioni prese dai paesi dell'OECD negli anni ottanta e novanta sono state dettate dal timore di perdere la competitività tecnologica sui mercati mondiali. I risultati della ricerca in questione hanno influenzato i responsabili delle decisioni industriali, che si trovano ad affrontare continuamente la dura realtà della competizione tecnologica. Negli ultimi decenni il problema della gestione strategica dell'innovazione ha assunto un'importanza sempre maggiore (v., per esempio, Porter, 1990) ed è a questo problema che rivolgeremo ora la nostra attenzione.
Vari programmi di ricerca attuati in Europa, in America e in Giappone si sono proposti di identificare i fattori del successo nell'innovazione industriale. Il programma di maggior risonanza è stato probabilmente il progetto SAPPHO (v. Rothwell, 1974), in cui dal confronto fra i tentativi d'innovazione coronati da successo e quelli falliti si è cercato di ricavare i profili caratteristici delle due situazioni.
Uno dei principali fattori di successo è risultato essere il rapporto con gli utilizzatori potenziali dell'innovazione. Le aziende che erano riuscite a imporre le proprie innovazioni si erano preoccupate di provare i propri prototipi in condizioni simili a quelle reali e di tener conto dei suggerimenti dei possibili clienti, che talvolta avevano addirittura partecipato alla fase di progettazione dei prototipi. I fallimenti erano invece da mettere in relazione col disinteresse verso i futuri utilizzatori e con la presunzione che l'azienda innovatrice conoscesse meglio di chiunque altro i loro bisogni. In alcuni casi, rivelatisi commercialmente disastrosi, prima di essere immessi sul mercato i nuovi prodotti non erano stati mai sottoposti alle condizioni in cui sarebbero stati effettivamente adoperati.
Oltre ai collegamenti fra produttore e utilizzatore, un altro fattore rivelatosi molto importante consisteva nell'ampiezza e nell'intensità dei contatti con le fonti esterne di consulenza scientifica e tecnica. Di solito le innovazioni di successo dipendevano da un buon livello di ricerca e sviluppo all'interno dell'azienda; ma quasi sempre questo era integrato da informazioni, suggerimenti e consigli forniti da ricercatori e tecnici esterni, attivi nelle università e nei laboratori pubblici o come consulenti. Esempi di tale cooperazione sono la partecipazione del consulente olandese Michels alle ricerche sulle tecnologie dell'alta pressione svolte dalle Imperial Chemical Industries di Londra nel campo del polietilene, o i collegamenti tra il Politecnico di Milano e la Montecatini nelle ricerche sul polipropilene. Per contro i fallimenti nell'introduzione delle innovazioni erano in genere associati all'incapacità o alla scarsa volontà di tenere i contatti con la comunità scientifica e tecnologica esterna.
I due fattori sopra descritti contribuiscono a chiarire il ruolo di un terzo fattore di successo nella gestione dell'innovazione: la presenza di un personaggio variamente noto come 'innovatore aziendale', 'promotore di un nuovo prodotto' o semplicemente, nel linguaggio dei neoschumpeteriani, 'imprenditore'. Lo stesso Schumpeter ha riconosciuto che questo personaggio può non essere il proprietario o il direttore di un'impresa, ma essere addetto alle attività di ricerca e sviluppo, al settore delle vendite o ad altre funzioni aziendali. Ad ogni modo, quali che fossero ufficialmente le sue mansioni, egli era responsabile del coordinamento dell'attività di più persone e reparti all'interno dell'impresa, delle relazioni con l'esterno e della gestione complessiva del progetto fino al lancio commerciale; in altre parole, l' 'innovatore aziendale' era il responsabile di tutti i collegamenti interni ed esterni riguardanti l'innovazione. Sotto questo aspetto forse non c'è da meravigliarsi che nei casi studiati nel progetto SAPPHO gli innovatori aziendali di successo siano risultati più anziani di quelli che avevano fallito, anche se ciò era in contrasto con l'opinione corrente e con le aspettative dei ricercatori. Questi ultimi hanno spiegato il fenomeno col fatto che le funzioni di coordinamento interno ed esterno richiedono persone di notevole esperienza e anzianità di servizio, caratteristiche associate entrambe all'età.
Le ricerche su scala internazionale successive al progetto SAPPHO ne hanno confermato in generale i risultati, soprattutto per quanto riguarda i rapporti fra produttori e utilizzatori; comunque tali ricerche sono state estese ad altri aspetti delle innovazioni coronate da successo, che non erano stati presi direttamente in esame nel progetto SAPPHO. Mentre in esso l'attenzione era stata rivolta soprattutto al successo dei singoli progetti d'innovazione, le ricerche più recenti hanno avuto come oggetto principale le aziende di successo impegnate in più progetti e i paesi di successo. Ci si è chiesti, cioè, perché certe aziende vantino tutta una serie di progetti riusciti e perché certe nazioni presentino una quota più elevata di aziende di successo. Rispondere a queste domande è molto più difficile che condurre indagini a livello di singoli progetti; tuttavia dalle ricerche più recenti sono emersi alcuni risultati di grande interesse.
Nella storia della scienza, della tecnologia, delle invenzioni, delle innovazioni e della loro diffusione incontriamo quasi sempre, accanto ai contributi di individui eminenti, innumerevoli contributi di minore entità e testimonianze del ruolo svolto dalle istituzioni nell'accumulare, diffondere e applicare le nuove conoscenze.
La posizione degli storici varia tra due estremi: da un lato c'è chi insiste soprattutto sulle grandi personalità, dal lato opposto chi mette in risalto i contributi, molto numerosi e spesso anonimi, di una vasta gamma di scienziati, tecnologi, dirigenti, tecnici, operai e utilizzatori. Esempi della prima impostazione sono lo studio di Jewkes e altri (v., 1958) sulle fonti dell'invenzione e la teoria dell'imprenditorialità di Schumpeter (v., 1912), nota anche come 'Schumpeter mark I' ('prima maniera'); esempi della seconda sono le teorie dell''apprendimento mediante la pratica' e dell''apprendimento mediante l'uso', la teoria dell'invenzione di Gilfillan (v., 1935) e quella della scoperta scientifica di Hessen (v., 1931). Naturalmente in entrambi i casi si riconosce in qualche modo che tanto i 'giganti' quanto i 'pigmei' hanno un loro ruolo nelle attività inventive e innovative, e che queste attività possono essere favorite sia dalle istituzioni (laboratori di ricerca, centri di progettazione, università), sia dalle imprese.
Schumpeter ammise che la funzione imprenditoriale poteva essere svolta anche all'interno delle istituzioni pubbliche (v. Schumpeter, 1939, vol. I, p. 346) e da più persone (ibid., p. 327). Da parte sua Jewkes riconobbe che alcune invenzioni importanti erano nate nei laboratori di ricerca e sviluppo di grandi aziende e che talvolta era difficile attribuirle a uno o più individui. Ma Schumpeter andò più in là, affermando che le grandi imprese oligopolistiche, o addirittura monopolistiche, traggono un vantaggio concorrenziale dalla ricerca e dall'innovazione. Può sembrare quindi arbitrario considerarlo quale esponente della scuola dell'individualismo 'eroico'; in effetti la sua posizione era contraddittoria, in quanto egli sosteneva anche che la burocratizzazione dell'innovazione avrebbe portato al declino dell'imprenditorialità e dello stesso capitalismo.
Nonostante l'evoluzione subita dal suo pensiero negli anni venti e trenta ('Schumpeter mark II', 'seconda maniera'), la teoria di base dell'imprenditorialità e dell'innovazione tracciata in Theorie der wirtschaftlichen Entwicklung (1912) non appare sensibilmente modificata in Business cycles (1939). Schumpeter non sviluppò l'idea che la funzione imprenditoriale poteva essere esercitata in modo differente nei diversi tipi d'impresa e con diversi tipi d'innovazione in ciascuna delle successive rivoluzioni industriali: egli elaborò cioè una teoria dell'imprenditorialità, ma non una teoria dell'impresa.
Come si è visto, la tesi di Schumpeter circa l'importanza della funzione imprenditoriale nell'immettere un'invenzione sul mercato e la distinzione da lui fatta tra capitalista e imprenditore sono state confermate da numerose ricerche empiriche sull'innovazione. Ma queste ricerche hanno anche dimostrato che il modo in cui viene svolta la funzione imprenditoriale varia secondo i tipi d'impresa, i paesi, le tecnologie e i periodi storici, e hanno pure messo in evidenza la molteplicità delle fonti d'informazione all'interno e all'esterno dell'organizzazione innovatrice e l'importanza del 'sistema innovativo nazionale' costituito dalla rete di istituzioni scientifiche e tecniche di base, dalle infrastrutture e dall'ambiente sociale. Tutti questi elementi sono stranamente trascurati nella teoria dell'imprenditorialità innovatrice elaborata da Schumpeter. Perciò, benché tale teoria andasse oltre quella classica dell'impresa come organismo razionale teso alla massimizzazione del profitto e operante in base a informazioni e previsioni 'perfette' in ogni paese, cultura e periodo storico, tuttavia anch'essa era inficiata in qualche misura dalla tendenza a postulare, su fondamenti puramente logici, un'essenza unica e universale dell'imprenditorialità. Questo fatto è importante, perché indica che Schumpeter non si curò di esaminare il modo in cui cambia la supremazia tecnologica a livello internazionale e l'influsso dell'innovazione sulla struttura del commercio mondiale. In tal modo egli lasciò in gran parte inesplorati gli effetti squilibratori della competizione tecnologica tra le nazioni e i problemi del sottosviluppo e del commercio internazionale.
Una delle difficoltà che Schumpeter dovette affrontare fu appunto la mancanza di ricerche teoriche ed empiriche nel suo campo d'indagine. Come ha rilevato Rogers (v., 1962), prima degli anni sessanta non era disponibile quasi nessuno studio sulla diffusione delle innovazioni nell'industria, e solo pochissimi lavori monografici prendevano in esame gli aspetti tecnologici, economici e imprenditoriali dell'innovazione. La storia della tecnologia era un campo relativamente trascurato, anche rispetto alla storia della scienza. Oggi, come si è visto, la situazione è certamente molto migliorata, anche se questo miglioramento riguarda soprattutto gli ultimi due decenni. Ad ogni modo è possibile ora proporre generalizzazioni su alcuni aspetti dell'innovazione, della diffusione e dell'imprenditorialità con un po' più di sicurezza che non al tempo di Schumpeter.
Numerosi studi (per esempio: v. Rosenberg, 1976 e 1982; v. Pavitt, 1984 e 1986; v. Teece, 1988; v. Dosi, 1984; v. Nelson e Winter, 1977 e 1982; v. Freeman e altri, 1982) hanno messo in risalto il carattere cumulativo di gran parte del progresso tecnologico e l'importanza delle conoscenze acquisite implicitamente attraverso la ricerca, la progettazione e lo sviluppo e attraverso l'esperienza della produzione e del marketing. Spesso a promuovere quest'accumulazione non è tanto il singolo imprenditore quanto l'azienda come istituzione, anche se, per utilizzare le conoscenze così accumulate onde introdurre prodotti e procedimenti nuovi o perfezionati, è sempre necessario un atto di imprenditorialità da parte di uno o più individui. I lavori di Arrow (v., 1962) e di von Hippel (v., 1988) sull'apprendimento attraverso la pratica rappresentano due tentativi di interpretare e inquadrare questo continuo processo di avanzamento tecnico.
L'accumulazione delle conoscenze all'interno delle aziende o da parte dei singoli imprenditori non implica peraltro che le grandi innovazioni avvengano indipendentemente dalle fonti esterne; ciò può accadere solo nel caso di alcune innovazioni incrementali, non certamente in quello delle innovazioni più importanti. Come si è già visto, i risultati di numerosi studi monografici provano concordemente l'importanza delle fonti esterne di conoscenza, informazione e consulenza costituite dal mercato (ossia dagli utilizzatori effettivi o potenziali di un'innovazione), dai fornitori di materiali, di componenti, ecc., e infine dalle varie istituzioni scientifiche e tecniche (v. specialmente Gibbons e Johnston, 1974). Per interpretare questo complesso fenomeno Lundvall (v., 1988) e i suoi colleghi hanno elaborato la teoria dell''apprendimento attraverso l'interazione' e del 'sistema innovativo nazionale': secondo tale teoria la funzione dell'imprenditorialità innovatrice, che consiste sempre nel creare nuove combinazioni e spesso nell'associare a un progresso tecnologico un'opportunità di mercato, varia molto in relazione al tempo e al luogo dell'interazione. Compito degli studi storici è mostrare in che modo l'esercizio di questa funzione vari al variare dei periodi storici, dei paesi e dei settori industriali considerati; compito della teoria economica è elaborare una teoria dell'impresa che tenga conto di questa varietà, senza basarla né sull'iperrazionalità di singoli imprenditori o singoli gruppi, né su un'intelligenza e un'energia superiori alla norma (v. Dosi e Orsenigo, 1988).
Infine la ricerca neoschumpeteriana ha gettato nuova luce sulla teoria dei cicli economici e delle onde lunghe. L'innovazione tecnica è stata vista non solo come un elemento di squilibrio, d'incertezza e di turbamento, ma anche, molto spesso, come un elemento di continuità, che segue traiettorie abbastanza ben definite e offre talvolta concrete possibilità d'investimento per lo sviluppo di nuovi prodotti, procedimenti, sistemi e mercati. Ciò non toglie che in altre circostanze, così vividamente descritte da Schumpeter, le innovazioni tecniche e la loro diffusione possano risultare gravemente traumatiche per il sistema. In realtà non è detto che la teoria dei cicli economici debba essere fondata sulla dicotomia tra gli effetti destabilizzanti delle innovazioni e i presunti effetti equilibratori del comportamento economico 'normale', capace di assorbire questi traumi nei periodi di recessione e di ripresa. Piuttosto è importante stabilire in quali circostanze l'innovazione tecnica possa di per sé stimolare e ripristinare la fiducia e in quali circostanze possa avere l'effetto opposto (v. Freeman e Perez, 1988).
Si è sostenuto che l'analisi non può essere limitata al livello della singola innovazione e che occorre tener conto degli aspetti qualitativi e d'interrelazione sistemica delle innovazioni; inoltre è la loro diffusione che suscita le ondate di investimenti. In condizioni favorevoli un'innovazione di successo trova molti seguaci e la fiducia degli operatori economici aumenta, creando un'atmosfera di boom in cui, nonostante i rischi residui e le incertezze insite in ogni decisione di investire, prevale l'ottimismo. Fra le condizioni favorevoli vi sono la complementarità tra le innovazioni e la nascita di infrastrutture adeguate, come pure un certo livello di stabilità politica e la presenza di istituzioni capaci di promuovere (o almeno di non ostacolare troppo) la diffusione delle nuove tecnologie. In queste circostanze favorevoli la redditività dei nuovi investimenti e lo sviluppo di nuovi mercati sembrano offrire, malgrado le incertezze, una prospettiva di crescita abbastanza stabile (v. Perez, 1983).
Ma vi sono anche circostanze in cui il mutamento tecnologico può avere l'effetto opposto e destabilizzare l'investimento minando la fiducia nelle possibilità di sviluppo di certe aziende, industrie o economie. Inoltre, poiché le tecnologie e le industrie richiedono (come ebbe già a rilevare Schumpeter) un lungo periodo di maturazione, può avere inizio nel frattempo una diminuzione degli utili e della redditività che porta a un ristagno negli investimenti. Se il fenomeno è largamente diffuso, per ripristinare la fiducia nella crescita del sistema sulla base delle nuove tecnologie possono essere necessari notevoli mutamenti sociali e politici; in tal caso le 'naturali' tendenze equilibratrici dell'economia non sono sufficienti a risolvere i problemi dell'adattamento, in quanto questo implica un complicato processo di trasformazione istituzionale e strutturale.
Non è possibile trattare qui adeguatamente gli altri numerosi risultati della ricerca neoschumpeteriana sulle innovazioni e sulla loro diffusione; una rassegna molto più ampia ed esauriente, redatta da più di venti autori di una dozzina di paesi, si trova nel lavoro di Dosi e altri (v., 1988).
Restano ora da considerare brevemente alcuni aspetti della politica dell'innovazione. Mentre negli anni cinquanta e sessanta l'interesse era centrato soprattutto sulla 'politica della scienza', più recentemente l'attenzione della maggior parte dei paesi dell'OECD si è rivolta in misura crescente verso la 'politica della tecnologia' e 'la politica dell'innovazione'. Peraltro in quasi tutti i paesi viene riconosciuta la fondamentale importanza della base scientifica nazionale, anche se prosegue il dibattito sulle dimensioni più appropriate dei finanziamenti (v. Pavitt, 1992).
Le politiche nazionali e le strategie aziendali sono state fortemente influenzate anche dai risultati delle ricerche sull'innovazione riguardanti i rapporti fra produttori e utilizzatori e il carattere sistemico delle innovazioni. Nello studio del processo dell'innovazione si è passati dai primi modelli imprenditoriali, relativi a singoli progetti, a modelli sistemici, capaci di offrire un quadro più realistico di un fenomeno così complesso, non riducibile a una serie di eventi isolati (v. MERIT, 1993). Rothwell (v., 1992) ha sintetizzato in una descrizione schematica (v. tabella) l'evoluzione di questi modelli tra gli anni cinquanta e gli anni novanta, inquadrandone i caratteri essenziali.
Ma forse il mutamento più importante in atto in questo campo è lo spostarsi dell'interesse verso le strategie di diffusione dell'innovazione. Questa tendenza si è manifestata soprattutto nel più recente rapporto dell'OECD (v., 1991) sul progetto TEP (Tecnologia, Economia, Politica), in cui i risultati delle ultime ricerche sono riassunti e messi in relazione con le possibili strategie. I principali motivi del suddetto mutamento d'interesse sono i seguenti.
1. Come si è visto, e com'è stato dimostrato in particolare da Rosenberg (v., 1976 e 1982), la distinzione analitica tra innovazione e diffusione non implica che i due fenomeni possano effettivamente essere del tutto separati: in generale la diffusione di nuove tecnologie è accompagnata da continui perfezionamenti dell'innovazione originaria. Come hanno scritto Kline e Rosenberg (v., 1986, p. 275): "È un grave errore trattare l'innovazione come qualcosa di omogeneo e di ben definito, introdotto nell'economia in un preciso momento [...]. In realtà le innovazioni più importanti subiscono nel loro sviluppo profondi mutamenti, che possono cambiarne completamente la rilevanza economica, e spesso lo fanno. I successivi perfezionamenti di un'invenzione possono essere economicamente molto più importanti dell'invenzione stessa nella sua forma originaria [...]. Si considerino le 'prestazioni' del telefono verso il 1880, dell'automobile nel 1900 o dell'aeroplano quando nel 1903 i fratelli Wright compirono il primo volo con un mezzo 'più pesante dell'aria': in quelle forme si trattava solo di novità precarie, prive di valore economico".
In altre parole la diffusione, col suo continuo flusso di innovazioni incrementali e di perfezionamenti, apportati e suggeriti, direttamente e indirettamente, dagli utilizzatori, fa parte integrante del processo di mutamento tecnologico. Di conseguenza le politiche tecnologiche orientate verso la ricerca, lo sviluppo e l'innovazione dovrebbero agire direttamente anche sul processo di diffusione; analogamente le politiche dirette verso la diffusione delle innovazioni (si pensi al MITI - il Ministero giapponese per il commercio internazionale e l'industria - e al suo ruolo nel trasferire in Giappone le tecnologie estere) dovrebbero essere programmate in modo da influire sulla ricerca, lo sviluppo e l'innovazione.
2. In presenza di un insieme di innovazioni interrelate capace di agire, come la tecnologia dell'informazione, in modo aspecifico e capillare, l'effettivo aumento della produttività dipenderà ancor più dalla stretta interazione tra le innovazioni migliorative e la loro diffusione nello specifico ambiente dell'utilizzatore (il cosiddetto 'apprendimento attraverso l'uso'). Il rapido sviluppo dei servizi di software è una tipica manifestazione di questa ulteriore integrazione sistemica tra le attività di ricerca e sviluppo, le innovazioni incrementali, l'apprendimento attraverso l'uso e la diffusione.
3. I tempi lunghi richiesti dalla diffusione e i limitati effetti positivi talora ottenuti dipendono sia dalle caratteristiche tecniche dell'innovazione, sia dalle caratteristiche delle aziende e delle industrie fornitrici e di quelle utilizzatrici, sia infine dalla situazione macroeconomica generale. Nel caso di tecnologie profondamente innovative, come quella dell'informazione, l'apprendimento attraverso l'uso e l'adattamento allo specifico ambiente dell'utilizzatore possono essere processi lunghi e faticosi. Una politica tecnologica che - in contrasto con le politiche riguardanti la ricerca, lo sviluppo e l'innovazione, attuate in molti paesi - sia più orientata in senso sistemico e sia tale da favorire anche la diffusione può offrire ampi spazi per un'integrazione nella politica macroeconomica generale; un esempio interessante è dato dai programmi di sviluppo e d'informazione realizzati negli anni ottanta, almeno in parte con successo, nel settore della microelettronica.
4. In un ambito più ristretto, visto che le attività di ricerca e sviluppo per scopi militari dispongono ancora di sovvenzionamenti ingenti, sarebbe opportuno intensificare le politiche di diffusione dirette a stimolare la 'ricaduta tecnologica' di quelle attività sulle applicazioni civili. Un primo passo in questa direzione è stato compiuto dagli enti militari statunitensi di ricerca e sviluppo con l'istituzione di specifici programmi d'informazione per le aziende civili private; ma ciò non basta: è anche necessario rendere disponibile per usi civili una parte del potenziale del sistema militare di ricerca e sviluppo.
5. Le politiche di diffusione possono svolgere un ruolo particolare soprattutto per quanto riguarda le tecnologie estere. Queste politiche sono della massima importanza per le industrie che si trovano piuttosto lontane dalla frontiera tecnologica internazionale; ma anche le industrie tecnologicamente più avanzate vanno aiutate a cercare e ad applicare le migliori tecnologie disponibili a livello mondiale. Nessun paese può essere alla testa del progresso tecnico in tutti i settori, e ogni paese può imparare dall'esperienza degli altri. In ogni caso le tecnologie che richiedono il maggior impegno sono quelle d'avanguardia destinate a utilizzazioni civili.
Come si concretino all'atto pratico queste politiche di diffusione dipende molto dalle caratteristiche specifiche del singolo paese e dalla sua struttura istituzionale. In alcuni paesi, come il Giappone, può trattarsi di una semplice estensione delle politiche già in atto; in altri paesi si può avere un mutamento più radicale per cui, anziché cercare di svolgere un ruolo pionieristico nelle tecnologie d'avanguardia, ci si limita ad adottare in tutti i settori dell'industria e dei servizi le tecnologie già esistenti, assecondandone la diffusione e introducendovi miglioramenti incrementali. Sia nei paesi europei che negli Stati Uniti gli ingenti aiuti governativi allo sviluppo e alla ricerca hanno costituito talvolta una cattiva allocazione delle risorse, in quanto tali aiuti erano destinati in gran parte a settori e a programmi (in particolare a giganteschi programmi aeronautici, nucleari e militari) che ben difficilmente avrebbero potuto produrre benefici economici. In effetti i finanziamenti a favore delle attività di ricerca e sviluppo possono risultare spesso mal impiegati se vengono a mancare le successive fasi di produzione e di marketing; la considerazione di fattori più strettamente economici nelle decisioni in questo campo può contribuire a prevenire o a correggere un'allocazione errata.
Negli anni settanta la politica dell'innovazione ha cominciato a muoversi nelle direzioni sopra indicate; le iniziative già avviate forniscono una valida base per lo sviluppo di una politica tecnologica di più ampio respiro, interessata non solo all'ulteriore sviluppo delle tecnologie chiave, ma anche a una più larga diffusione del nuovo paradigma tecnico-economico. Occorrerà inoltre prestare maggior attenzione ai legami tra politica dell'innovazione e strategia industriale generale, il che significa mettere in relazione la ricerca, lo sviluppo e l'innovazione con gli investimenti, gli approvvigionamenti, il marketing e la ristrutturazione industriale. In tutti questi settori un dialogo più serrato fra gli addetti alla ricerca innovativa e i responsabili delle decisioni strategiche potrà essere fecondo di risultati.
Infine nel formulare le politiche dell'innovazione sarà sempre più necessario tener conto della 'valutazione della tecnologia' (technology assessment). Non si può supporre che ogni innovazione vantaggiosa per le aziende private sia senz'altro anche socialmente desiderabile: le conseguenze sull'ambiente possono obbligare a mettere al bando certe innovazioni o a modificare prodotti e procedimenti, come dimostra chiaramente il caso dei composti clorurati e fluorurati, con i loro effetti sullo strato di ozono. Le soluzioni internazionali proposte per questo problema fanno ritenere probabile che l'ingegnosità umana sappia trovare il modo di utilizzare gli effetti benefici delle innovazioni evitandone quelli più nocivi; sarà questo il compito più difficile e più gravido di responsabilità che le politiche dell'innovazione dovranno affrontare nel secolo venturo (v. Freeman, 1982²).
(V. anche Economia internazionale; Industria; Industrializzazione; Investimenti; Scienza e società; Sviluppo economico; Tecnica e tecnologia).
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