Nel processo civile, ragione ostativa all’esame dell’atto introduttivo del giudizio da parte del magistrato, sia in primo grado (art. 5, 1° co., d.lgs. n. 28/2010), sia nelle fasi di gravame (artt. 348, 369, 399 c.p.c.; Impugnazioni. Diritto processuale civile). Muovendo da tale ipotesi, si ritiene generalmente che la causa dell’improcedibilità sia sempre ascrivibile a un’omessa attività della parte istante, quale, per esempio, il mancato deposito dell’atto nei termini prescritti, ma si trascura di considerare come, in via ulteriore rispetto alle norme finora richiamate, nell’ambito di applicazione dell’istituto dovrebbero rientrare anche ipotesi innominate, tra le quali assumono particolare rilievo i casi di cessata materia del contendere. Laddove si accetti tale estensione e se ne analizzino le singole fattispecie (transazione intervenuta tra le parti, perimento del bene, pagamento della sanzione amministrativa), si constata facilmente come esse rispondano a una ratio diversa dall’inattività, e non riconducibile a unità: da qui la difficoltà di individuare con precisione il tratto caratterizzante l’istituto. Anche a seguito di tale precisazione, rimane comunque fermo che, diversamente da quanto si riscontra in tema di inammissibilità, le cause di improcedibilità non sono mai riconducibili al contenuto dell’atto introduttivo del giudizio, ma attengono sempre a un’attività estrinseca e successiva rispetto a tale atto.
Per quanto attiene agli effetti dell’improcedibilità è necessario distinguere: la dichiarazione di improcedibilità dell’atto introduttivo del primo grado di giudizio non impedisce la riproposizione della domanda, dal momento che la chiusura del giudizio in rito non estingue il diritto di azione; al contrario, l’improcedibilità dell’atto di impugnazione consuma il relativo potere, anche se il termine non è ancora scaduto (art. 387 c.p.c.), con conseguente passaggio in giudicato formale della sentenza impugnata.
Impugnazioni. Diritto processuale civile