Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
I crepuscolari italiani (su tutti Gozzano e Palazzeschi) avviano un processo di corrosione ironica della serietà della letteratura che avrà ripercussioni lungo tutto il Novecento europeo, nello statuto dell’opera letteraria come nell’immagine stessa dell’autore. Una vena profondamente parodica e surreale, affacciatasi al secolo con i movimenti d’avanguardia, riemerge dopo la forte cesura del secondo conflitto mondiale con il teatro dell’assurdo e gli influssi della linguistica e delle scienze: tre nomi come Queneau, Calvino e Perec sono accomunati da tali interessi sperimentali, combinatori.
Il gioco del linguaggio
Guido Gozzano
Totò Merumeni, I II III
S’ode un latrato e un passo, si schiude cautamente
la porta... In quel silenzio di chiostro e di caserma
vive Totò Merùmeni con una madre inferma,
una prozia canuta ed uno zio demente.
II.
Totò ha venticinque anni, tempra sdegnosa,
molta cultura e gusto in opere d’inchiostro,
scarso cervello, scarsa morale, spaventosa
chiaroveggenza: è il vero figlio del tempo nostro.
Non ricco, giunta l’ora di “vender parolette”
(il suo Petrarca!...) e farsi baratto o gazzettiere,
Totò scelse l’esilio. E in libertà riflette
ai suoi trascorsi che sarà bello tacere.
Non è cattivo. Manda soccorso di danaro
al povero, all’amico un cesto di primizie;
non è cattivo. A lui ricorre lo scolaro
pel tema, l’emigrante per le commendatizie.
Gelido, consapevole di sé e dei suoi torti,
non è cattivo. È il buono che derideva il Nietzsche
“...in verità derido l’inetto che si dice
buono, perché non ha l’ugne abbastanza forti...”
Dopo lo studio grave, scende in giardino, gioca
coi suoi dolci compagni sull’erba che l’invita;
i suoi compagni sono: una ghiandaia rôca,
un micio, una bertuccia che ha nome Makakita...
III.
La Vita si ritolse tutte le sue promesse.
Egli sognò per anni l’Amore che non venne,
sognò pel suo martirio attrici e principesse
ed oggi ha per amante la cuoca diciottenne.
G.Gozzano, I colloqui
Agli albori del nuovo secolo l’immagine seria del letterato e della letteratura viene percorsa ed erosa da nuovi modelli, nuovi comportamenti che la scrittura registra provocando il disorientamento, e spesso lo sdegno, nei lettori. Di fronte all’immagine autocelebrativa promossa da Gabriele d’Annunzio, in Italia la poesia crepuscolare adotta toni e motivi scherzosi e insieme dimessi per dissacrare la concezione magica o sacerdotale dell’artista, per legare all’idea della “perdita d’aureola” – intuita da Charles Baudelaire come la sconsacrazione della stessa figura di poeta – un ritratto della realtà vissuta dall’autore nel quale la semplicità domestica di tutti i giorni convive con aspetti autoironici e con figure che muovono al riso. È quanto avviene nel mondo del torinese Guido Gozzano, la cui breve esistenza viene riflessa in immagini poetiche di indubbia forza ironica. Per Gozzano l’arte è un antidoto alla serietà e alle incombenze della vita adulta, come sintetizzato dalla confessione di In casa del sopravvissuto, e nei Colloqui (1911): “Penso, mammina, che avrò tosto venti- / cinqu’anni! Invecchio! E ancora mi sollazzo / con i versi. È tempo d’essere il ragazzo / più serio, che vagheggiano i parenti”. La rispettabile vita borghese e la cultura dell’autore si scontrano poi con le grazie contadine di Felicita, nel poemetto La signorina Felicita ovvero la felicità, che attende con il padre alle cure di una vetusta villa nel Canavese. La desublimazione degli alti modelli poetici classici avviene per mezzo del ritratto della giovane, un insulto alla bellezza canonica, quasi uno scarabocchio compiuto da una mano infantile: “Sei brutta, priva di lusinga / […] E rivedo la tua bocca vermiglia / così larga nel ridere e nel bere, / e il volto quadro, senza sopracciglia, / tutto sparso d’efelidi leggiere / e gli occhi fermi, l’iridi sincere / azzurre d’un azzurro di stoviglia...”. Ancora dai Colloqui emerge il profilo, neanche troppo celatamente autobiografico, del venticinquenne Totò Merùmeni, disilluso, il quale vive al riparo dalla vita insieme a “una madre inferma, / una prozia canuta e uno zio demente”. Il rifiuto di una compassata virtù poetica si tinge, in Gozzano, di aggettivi stridenti, di un sorriso malinconico che mette alla berlina e allo stesso tempo si alimenta di una realtà polverosa, di un mondo piccolo e risibile che soffre del contatto con il presente. Una non minore insofferenza per lo statuto canonico del mestiere di poeta è condivisa da Aldo Palazzeschi (pseudonimo di Aldo Giurlani, modellato sul cognome della nonna materna), vicino ad alcune esperienze crepuscolari come ad altre futuriste – e dunque, rispetto a Gozzano, maggiormente orientato verso il fervore avanguardistico dell’epoca. Se l’esperienza romanzesca di Palazzeschi proietta sulla pagina tensioni autobiografiche e inquietudini omoerotiche (in particolare il giocoso : riflessi, del 1908, oltre al caso di “antiromanzo”, o favola romanzesca, costituito dal Codice di Perelà , del 1911, incentrato sulle avventure del commovente uomo di fumo Perelà), in lui il fare poetico non è mai disgiunto da un avvertibile controcanto umoristico; nel giudizio di Edoardo Sanguineti, la scoperta dell’autore è “quella della necessaria mortificazione degli splendori squisiti del liberty, dell’impossibilità del tragico come forma di sublime: e il conseguente affermarsi di una poetica del grottesco e della provocazione, dell’irrisione e del buffo, condotta in nome del lasciatemi divertire!”. Nella raccolta L’incendiario (1910), Palazzeschi intesse di protratte “licenze poetiche” una poesia sconvolgente, appunto intitolata Lasciatemi divertire (Canzonetta), scritta con “robe avanzate, […] la… / spazzatura delle altre poesie”, dove “Il poeta si diverte, / pazzamente, / smisuratamente. / Non lo state a insolentire, / lasciatelo divertire / poveretto, / queste piccole corbellerie / sono il suo diletto. // Cucù rurù, / rurù cucù, / cuccuccurucù!”. Senza giungere agli estremi delle parole in libertà, care ai futuristi, di Lasciatemi divertire, Palazzeschi lascia altrove un’immagine di sé conforme al gusto gozzaniano per l’autoirrisione, questa volta però animata da una confessata natura clownesca: in Chi sono?, del 1909, rifiutando l’etichetta di “poeta”, si rappresenta come “Il saltimbanco dell’anima mia”. Se l’ironia crepuscolare attua una sorta di difesa, di ripiegamento verso le zone intime, protette dell’io e del passato, allora quella palazzeschiana si fa gioco esibito con i modi del linguaggio verbale, allineandosi così alle più importanti manifestazioni avanguardistiche europee: l’ideale alla base di diverse esperienze, quella futurista in Italia e in Russia come quella dadaista e surrealista in Francia è lo stravolgimento delle forme e dei canoni della tradizione, il sovvertimento delle antiche gerarchie nella scrittura e nella letteratura a favore di una percezione sensoriale diretta (in primo piano balzano allora il rumore, il peso e l’odore degli oggetti). Ne deriva una serie di analogie continue, di “intuizioni della materia” che avvicinano la letteratura alla pittura. Così, nelle poesie di Marinetti come in quelle di Corrado Govoni, altro fiancheggiatore dei futuristi, l’elemento visuale, la disposizione grafica del testo assumono un ruolo primario, concentrando l’attenzione del lettore sulle forme inusitate che il testo stesso riveste: le poesie di Zang Tumb Tumb di Marinetti (1912) associano a parole, rumori, cifre, segni grafici in libertà. Ne viene un effetto di intensificazione delle stesse impressioni sensoriali, come in Turco pallone frenato, dove il titolo del componimento viene posto in grassetto, in una forma circolare che evoca appunto il pallone, all’interno del testo, intersecato in obliquo da parole come rombi, suoni assordanti (“vibbbrrrrrrrarrre”). In Govoni assistiamo a un consimile sabotaggio dei criteri tipografici: nelle sue liriche (come quelle di Rarefazioni e parole in libertà, raccolta del 1915, appartenente al periodo futurista dell’autore), spesso la consistenza del testo porta a trovarci di fronte a vere e proprie “tavole”, poesie illustrate dove le parole, isolate nel testo come autentici slogan, convivono accanto a disegnini ora comici ora pensosi (tale ambivalenza è proposta dal buffo Palombaro, immagine disegnata del poeta che si immerge con il suo scafandro nelle acque profonde circondato da cavallucci e stelle di mare, attinie, meduse, oloturie: ma le stelle marine sono “carnivore”, e il palombaro è “becchino mascherato / che ruba cadaveri d’annegati / uomo pneumatico / assassino ermetico”). Nella cultura francese, è Guillaume Apollinaire, in raccolte quali Alcools (1913) e soprattutto Calligrammes (Calligrammi, 1918), che condensano un ventennio di attività poetica, a giocare con la forma normativa del testo. L’autore sperimenta la composizione del testo lirico in figure tipograficamente inconsuete, i calligrammi: disloca le parole in forme grafiche raffinate, quasi ideogrammi orientali, che riproducono l’intensità delle sensazioni libere, slegate dalla tirannia formale della scrittura poetica convenzionale. L’effetto è enfatizzato per mezzo della rinuncia ai segni di interpunzione, del ricorso a frasi ininterrotte che aspirano a una forma di “simultaneità”, a un tempo dove diverse sensazioni, diversi momenti della vita si sovrappongono. Sempre in Francia, il punto massimo di distanza dalle convenzioni e dall’autorevolezza della tradizione è forse raggiunto dal movimento Dada, una parola che “non significa nulla”. Allora, bisogna disarticolare la scrittura, far trionfare la follia all’interno dei testi: in questo, va notato, l’alta posta in gioco, la liberazione dell’uomo nella propria vita, fa sì che i partecipanti al gioco stesso ne osservino le regole con la massima serietà e scrupolosità. È quanto raccomanda uno scrittore profondamente influenzato dai proclami dadaisti, André Breton: nel primo Manifeste du Surréalisme (Primo manifesto del Surrealismo, 1924) si richiama alla memoria cara di Guillaume Apollinaire per poi affermare l’idea di surrealismo come “automatismo psichico puro col quale ci si propone di esprimere, sia verbalmente, sia per iscritto, sia in qualsiasi altro modo, il funzionamento reale del pensiero” – un’espressione della libertà assoluta della parola, esterna ai condizionamenti della ragione. L’idea di gioco surrealista, la massima forma di spontaneità creativa, risiede appunto nel reinventare la percezione della realtà, della vita quotidiana, attraverso accostamenti mai visti, intuiti mediante una profonda capacità di “mettere insieme elementi estranei tra loro” (sono parole riprese dal Freud dell’Introduzione alla psicanalisi tradotta in francese nel 1922, un testo di fondamentale importanza per i surrealisti, come ha notato Bertrand Russell). Breton cerca di liberare le associazioni poetiche tradizionali dalla mediazione razionale, riconducendo l’immaginazione poetica alla “scintilla dell’illuminazione che risultava da quell’attività che egli definiva surrealista” (ancora Russell), e che deriva la propria forza, la propria immediatezza da processi puramente inconsci. Nel primo dopoguerra è un senso avvertito di sperimentazione, di innovazione a oltranza, ad animare i progetti letterari modernisti: un esempio per tutti è costituito dalla dissoluzione della forma romanzesca attuata dal James Joyce di Ulisse (Ulysses, 1922) e, in maniera ancora più evidente, di Finnegans Wake (La veglia di Finnegan, 1939).
La letteratura combinatoria
Intorno agli anni del secondo conflitto mondiale, e dopo, l’irrisione comica, la volontà di dare vita a maschere, travestimenti, pastiche, stravolgimenti retorici, tutto questo sembra di necessità lasciare spazio a una tensione verso l’approfondimento storico, il valore significativo della memoria (basti pensare, per la situazione italiana, alle vicende della memorialistica e della narrativa resistenziale). Tra le eccezioni a questa tendenza, vistosa appare quella impersonata dal teatro di Eugène Ionesco , rumeno trasferitosi a Parigi. Ionesco pare riprendere modalità eminentemente surrealiste (in primo luogo, l’improbabilità delle situazioni, l’assurdo), permeando la propria commediografia di risorse letterarie, o meglio antiletterarie. Nella sua produzione si conciliano, infatti, le due linee distintive del gioco novecentesco con la letteratura: il rifacimento delle convenzioni linguistiche e letterarie, e un’insistente giocoleria comica, nella quale il vaudeville dei tempi passati si fonde con inquietanti riflessioni sui risvolti delle relazioni umane, in un gusto per le incongruenze e per il nonsense pienamente novecentesco. La cantatrice calva (La cantatrice chauve, rappresentato per la prima volta nel 1950), forse il testo più noto dell’autore, presenta come sottotitolo Anti-commedia: i suoi protagonisti, i signori Smith e Martin, sono rappresentanti comuni della borghesia inglese che non hanno granché da dirsi, infarciscono le proprie giornate di frasi vuote e banali (appaiono dunque una parodia del personaggio borghese consegnatoci dal romanzo europeo ottocentesco), fino a concludere i propri dialoghi in un crescendo di assurdità. L’opera diviene così “un’immensa battuta di spirito, un immenso gioco di parole, un susseguirsi di strizzate d’occhio che sottolineano l’intenzione ludica” come afferma Emmanuel Jacquart: sarà una tecnica proseguita da altri scrittori dell’assurdo (Beckett, Adamov) nelle loro ideazioni teatrali. A ben vedere, Ionesco non è il solo in Francia a richiedere effetti esilaranti dalla scrittura, in quegli anni. Raymond Queneau , in gioventù frequentatore dei surrealisti e successore di Alfred Jarry (l’autore di Ubu roi – Ubu re, del 1896 – commedia provocatoria, dai forti accenti parodici nei confronti delle tragedie shakespeariane, che influenza non poco Ionesco) alla guida del surreale collegio di Patafisica, è una figura di scrittore contraddistinta da una sconfinata curiosità, la quale si traduce in una produzione che assume i caratteri della sfida enciclopedica: nella sua opera, Queneau (che scrive, per un certo periodo, un libro all’anno) cerca programmaticamente di coprire la totalità dei temi a disposizione della scrittura, da punti di vista tra loro apparentemente lontanissimi. L’intento ludico della sua scrittura emerge con un libro difficile da racchiudere sotto un’etichetta precisa, gli Esercizi di stile (Exercices de Style, 1947), una sorta di riscrittura del genere “manuale di stile” compiuta attraverso la declinazione di una banale paginetta di vita quotidiana in svariati registri stilistici, combinati all’impiego delle più spericolate figure retoriche. Ma la più rivoluzionaria delle figure di Queneau è la piccola eroina consumista di Zazie nel metró (Zazie dans le métro, 1959): nel romanzo assistiamo allo scontro con i grandi e alle continue fughe di Zazie, piovuta a Parigi dalla provincia nelle mani dello zio Gabriel, di dubbia identità sessuale. Nella città la ragazzina chiederà insistentemente di vedere il metró senza riuscirvi, per colpa dello sciopero generale. La forza sovversiva di Zazie consiste nell’ordire intorno a sé una serie continua di gag, di parole e parolacce in libertà che sovvertono la morfologia e la sintassi del francese standard per mezzo di argot e neologismi (celeberrima la grafia degli americani blue jeans, fortemente desiderati da Zazie e sottratti con l’inganno a un presunto satiro, sconvolta in bloudjinnzes). Un’operazione di grande libertà stilistica, questa volta nell’ordine dei piani narrativi anziché al solo livello morfologico, è poi quella compiuta ne I fiori blu (Les fleurs bleues, 1965, da noi tradotti da Italo Calvino), dove le vicende di Cidrolin, che vive in un barcone ormeggiato sulla Senna componendo nottetempo scritte infamanti sul suo conto, si fondono senza soluzione di continuità con quelle del duca d’Auge, personaggio che attraverserà sette secoli di storia per congiungersi alla frenetica vita della metropoli contemporanea. Queneau riscrive le regole del romanzo storico, gioca in continuazione sui significanti e i significati che circondano i personaggi per riprodurre un quadro storico al tempo stesso suggestivo e imprevedibile. All’inizio degli anni Sessanta, lo stesso autore aveva fondato a Parigi, insieme al matematico François Le Lionnais, un movimento dichiaratamente non-letterario, ma in realtà attivo proprio nello scardinare giocosamente le regole della letteratura stessa, l’Oulipo (OUvroir de LIttérature POtentielle, Laboratorio di letteratura potenziale), frequentato da altri scrittori come l’italiano Calvino o il giovane Perec. All’interno del gruppo si elaborano griglie, scacchiere, sistemi matematici per sperimentare a tavolino un’idea combinatoria di letteratura e insieme una “associatività interattiva attorno a un progetto di Gaia Scienza, intesa come trattazione ridente, non seria e non seriosa, di soggetti fondamentali” (Andrea Pasquino). In questo senso allora muovono le ricerche formali del periodo oulipiano di Georges Perec, animate da contraintes ovvero costrizioni, imposizioni formali di obblighi per la scrittura, come il lipogramma, l’abolizione della vocale e per tutto il corso di un romanzo (La disparition – La sparizione, 1969), oppure di tutte le vocali ad eccezione della “e” (Les revenentes – I fantasmi, 1972). L’opera più grandiosa concepita da Perec resta però, con tutta probabilità, il colossale romanzo (romans, cioè “romanzi”, lo definiva l’autore) La vita: istruzioni per l’uso (La Vie: mode d’emploi, 1978), dove la pianta dell’edificio parigino di rue Simon-Crubellier 11 serve da matrice per lo svolgimento e l’intreccio di storie familiari o di individui al confine del leggendario, una scacchiera quadrata dove si snodano, secondo la mossa del cavallo, i singoli capitoletti che raccontano gli interni del palazzo. Ne deriva un’opera corale (paradossalmente corale, in assenza di parole o gesti degli inquilini, tutta mediata dalle loro memorie accumulatesi nell’appartamento), un prodigioso lavoro descrittivo che assolve anch’esso, come l’opera di Queneau vista nel suo insieme, a un tentativo enciclopedico di misurare, mappare il mondo conosciuto. A questo stesso fine pare rispondere il grande progetto, rimasto incompiuto per la morte dell’autore, di Luoghi (Lieux, iniziato nel 1969), una sofisticata architettura di notazioni (i rilievi, le descrizioni effettuate una volta all’anno di un luogo preciso) e di ricordi incrociati (provare a raccontare quello che a suo tempo si era visto di un luogo). Nella temperie postmodernista, sembra davvero che gli ultimi decenni del secolo in letteratura abbiano segnato un percorso verso la più sbrigliata sperimentazione, verso una giocosa combinazione di motivi in una scrittura che pare procedere da una generazione spontanea, reinventando così il sogno surrealista della “scrittura automatica”.
Il cerchio di questi anni si chiude allora su Italo Calvino e il suo periodo di adesione alle proposte oulipiane: in primo luogo, la sfrenata libertà immaginativa che dà vita ai mondi ora sognanti ora umoristici delle Cosmicomiche (1965) e di Ti con zero (1967), dove il mito e la quotidianità dell’esistenza vengono riletti nelle forme stranianti della condizione extraterrestre. L’interesse di Calvino per le possibilità combinatorie è poi alla base di un libro sui generis come Il castello dei destini incrociati (1973), nel quale l’attenzione al gioco è apertamente tematizzata nel mazzo di tarocchi che viene via via dispiegandosi nelle pagine accanto ai racconti, che costituiscono in realtà l’illustrazione verbale delle storie stesse che Calvino, influenzato dalle trattazioni dei formalisti e dei semiologi russi al riguardo, intravede nelle carte. L’ultima, sorprendente sperimentazione romanzesca di Calvino coincide con i molteplici incipit di romanzo intrecciati in Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979), apoteosi delle possibilità narrative e insieme apologia della libertà di autore e lettore sancita dalla ventata ludica del postmoderno: protagonista è un Lettore che vede frustrate le proprie aspettative di concludere la lettura del romanzo cui sta attendendo. In un incrocio ardito di spy story, di una trama sentimentale e di un labirintico plot postmodernista, il libro che non si trova si raccorda, in conclusione, al libro che il lettore reale sta leggendo, quando il Lettore fittizio non spegnerà a letto la luce insieme alla moglie-Lettrice prima di essere giunto alla parola “fine” del romanzo che lo avvince, intitolato guarda caso Se una notte d’inverno un viaggiatore, e firmato Italo Calvino. Il gioco novecentesco si è spinto oltre il controllo di autore e lettore: quale realtà stiamo effettivamente vivendo?