Termine inglese (anche hot spot, lett. punto caldo, o punto di accesso) impiegato per designare strutture appositamente allestite negli Stati di frontiera dell’Unione europea allo scopo di identificare, registrare e avviare verso le procedure successive individui giunti irregolarmente come parte dei consistenti flussi migratori che a partire dagli inizi del XXI secolo hanno massicciamente interessato il bacino del Mediterraneo. Il termine, già utilizzato con accezioni diverse in alcuni ambiti specialistici (ad es., in ecologia, per descrivere un’area individuata come prioritaria per la conservazione di biodiversità, e in informatica, a designare spazi, solitamente interni a una struttura pubblica, in cui sia possibile ricevere un segnale wireless per la connessione a Internet), è entrato nel lessico della politica internazionale nel maggio 2015 (essendo citato anche nella traduzione italiana punto di crisi) a seguito dell'uso fattone nell’Agenda europea sulla migrazione redatta dalla Commissione europea, all’interno della quale vengono tracciate linee-guida atte a contenere, regolare e gestire il fenomeno migratorio. Sebbene il termine sia talora impiegato anche per indicare una zona alla frontiera esterna dell’Unione europea interessata da un’ingente pressione migratoria, nelle intenzioni del documento gli h., ubicati in prossimità dei luoghi di ingresso dei migranti negli Stati europei di frontiera, vengono intesi come centri integrati, con personale europeo e con la collaborazione di tecnici di agenzie europee, in cui provvedere all’identificazione e alla registrazione dei cittadini di Paesi non appartenenti alla UE giuntivi in modo irregolare, al fine di avviarli in tempi rapidi verso il sistema nazionale di asilo (qualora venga presentata domanda e si renda necessaria la protezione internazionale), verso il sistema di ricollocazione di emergenza, ovvero verso il sistema di rimpatrio. La creazione di centri sorvegliati istituiti negli Stati membri su base volontaria è stata approvata dal Consiglio europeo dedicato al tema tenutosi nel luglio 2018; di fatto, a tale data l’Unione europea non ha stanziato fondi per la creazione di tali strutture, e centri di identificazione e di espulsione (CIE) già esistenti – in cui erano state peraltro ripetutamente segnalate violazioni dei diritti umani, quali il prolungamento del periodo di detenzione oltre le 48 ore previste dalla normativa e condizioni materiali di estremo degrado – sono stati riconvertiti in h., come nei casi italiani di Lampedusa, Pozzallo, Trapani, Messina e Taranto, e in Grecia nelle isole Chios, Leros, Samos, Kos e Lesbo.