Gregorio V
Bruno, il futuro papa, era uno dei figli del conte Ottone di Worms (morto nel 1004), nipote dell'imperatore Ottone I e cugino di Ottone III.
Dal 978 al 985 e una seconda volta tra il 995 e il 1004, Ottone di Worms fu nominato dal suo sovrano duca di Carinzia e marchese di Verona. Corrado, uno dei fratelli di Bruno, successe al padre come duca di Carinzia (1004-1011). Il fratello maggiore, Enrico, morì intorno al 995, ma suo figlio Corrado (II) fu eletto più tardi re (1024-1039) e divenne nel 1027 imperatore. Bruno fu educato nella scuola cattedrale di Worms: la sua formazione va collocata negli anni dell'episcopato di Ildebaldo (979-998), che fu al contempo cancelliere di Ottone II e Ottone III per le regioni a nord delle Alpi. Ai tempi di Ottone III Bruno entrò a far parte della cappella imperiale; paragonato ai suoi contemporanei transalpini Bruno poteva passare per un uomo colto, in grado di leggere e meditare i Padri della Chiesa e soprattutto Gregorio I, il cui nome scelse più tardi quando fu eletto papa.
Quando Ottone III, nell'aprile 996, si fermò alcuni giorni a Ravenna, un'ambasceria dei Romani lo raggiunse per informarlo della morte di Giovanni XV. Dopo essersi consultato con i suoi più intimi, Ottone III designò come candidato al soglio il suo parente e cappellano Bruno e incaricò dunque l'arcivescovo e arcicappellano Willigis di Magonza e il vescovo Ildebaldo di Worms di accompagnarlo a Roma. Quivi il candidato di Ottone III fu accolto con grandi onori, eletto da clero e popolo e consacrato all'inizio di maggio col nome di Gregorio V. Le prime settimane del pontificato furono impegnate soprattutto nei preparativi per l'incoronazione imperiale di Ottone III, che ebbe luogo, per mano di G., il 21 maggio 996, giorno dell'Ascensione. L'indomani, grazie all'intercessione di G., Ottone III graziò Crescenzio II Nomentano, signore della città, che era stato condannato all'esilio.
Durante il soggiorno romano di Ottone III, papa ed imperatore concessero privilegi a destinatari italiani e transalpini, documenti in cui compaiono a turno come intercessori. Nel maggio 996 si riunì inoltre a S. Pietro un sinodo, presieduto da G. e da Ottone III: al centro delle discussioni vi erano lo scisma apertosi nel 991 per la cattedra arcivescovile di Reims e il ritorno di Adalberto di Praga nella sua sede vescovile, ritorno richiesto dall'arcivescovo di Magonza nella sua qualità di metropolita. G. consacrò inoltre il vescovo Erluino di Cambrai, il quale, a causa dello scisma di Reims, non era stato ancora confermato. Quando l'imperatore, nell'agosto del 996, lasciò l'Italia, affidò al marchese Ugo di Tuscia e a Corrado, conte di Spoleto e Camerino, il compito di appoggiare militarmente il papa. A Corrado Ottone III affidò anche le sette Contee della Pentapoli, intorno alla cui sovranità papa ed imperatore si trovavano in disaccordo.
Nell'autunno del 996 i Romani, capeggiati da Crescenzio II Nomentano, cacciarono G. dalla città. Dopo che due tentativi di rientrare a Roma con la forza erano falliti, G. si diresse a Spoleto. In questa città egli ricevette Abbone, abate di Fleury (998-1004), che era stato inviato da Roberto II di Francia per discutere la soluzione dello scisma di Reims. Benché re Roberto e l'imperatore Ottone III favorissero la causa di Gerberto di Aurillac quale arcivescovo di Reims, G., per motivi giuridici, si espresse in favore dell'arcivescovo Arnolfo; egli consegnò perciò ad Abbone di Fleury il pallio per l'arcivescovo e lo incaricò di adoperarsi presso re Roberto perché gli fosse restituita la sua sede. Alla fine del 996, G. si recò a Ravenna per ottenere l'appoggio dell'arcivescovo Giovanni (983-997) e dei vescovi suoi suffraganei. Da Ravenna proseguì per Pavia, dove si riunì - all'inizio di febbraio del 997 - un sinodo presieduto dal papa, cui parteciparono gli arcivescovi di Milano e di Ravenna con alcuni dei loro suffraganei e il vescovo di Pavia. Alla conclusione delle discussioni fu intimato a Roberto di Francia, pena la scomunica, di giustificarsi per il suo matrimonio incestuoso con Berta di Borgogna. Inoltre l'arcivescovo di Napoli venne colpito da scomunica per la sua elezione irregolare. Anche l'arcivescovo Giselher di Magdeburgo fu invitato a presentarsi a Roma il Natale successivo per rispondere del suo illegittimo trasferimento dalla sede di Merseburgo a quella di Magdeburgo. Il sinodo decise anche la scomunica di Crescenzio II Nomentano e rinnovò la normativa di papa Simmaco sulle elezioni papali, in base alla quale era assolutamente interdetto prendere decisioni sulla successione di un pontefice finché questi era in vita. Dopo la conclusione del sinodo, G. continuò ad esercitare con grande impegno i suoi diritti e i suoi doveri di papa, per dimostrare in tal modo la propria capacità di azione. Egli concesse così il pallio all'arcivescovo di Canterbury Alfrico e si mantenne in stretto contatto con Abbone di Fleury, onde ottenere la reintegrazione dell'arcivescovo Arnolfo di Reims. In contrasto con il suo ostentato rispetto per i canoni, G. concesse al monaco Ugo, in cambio di una forte somma di denaro, la carica di abate di Farfa e procedette anche alla sua consacrazione. Mentre G. si tratteneva nell'Italia settentrionale, Crescenzio II Nomentano e un inviato bizantino, Leone, indussero Giovanni Filagato, già consigliere dell'imperatrice Teofane e arcivescovo di Piacenza, a lasciarsi eleggere papa in opposizione a Gregorio V. Probabilmente considerando conclusa la sua carriera alla corte imperiale, Giovanni accettò l'offerta di Crescenzio e di Leone e, nel febbraio-marzo 997, venne eletto papa, scegliendo il nome di Giovanni XVI; con ciò si apriva uno scisma.
Dopo essere stato cacciato dalla Città Eterna, G. aveva intensificato i suoi rapporti con la corte imperiale, che si trovava in quel momento al di là delle Alpi, e aveva chiesto ad Ottone III di intervenire in suo favore in Italia. Nel dicembre 996 l'arcivescovo di Milano Landolfo II si era recato ad Aquisgrana per informare l'imperatore della situazione italiana. Ottone III, a sua volta, inviò a G. l'abate di Fulda, che partecipò al già citato sinodo di Pavia ed ottenne inoltre dal papa una conferma dei propri diritti. Nel febbraio 997 G., per venire incontro ad un desiderio di Ottone III, concesse alla cappella palatina di Aquisgrana, prima tra le chiese transalpine ad ottenere un simile privilegio, di essere ufficiata da un clero organizzato secondo il modello romano; da allora in poi l'attività liturgica venne assicurata da sette cardinali diaconi e sette cardinali preti. La notizia di tale decisione venne comunicata all'imperatore mediante una lettera indirizzata a "Ottoni Romanorum imperatori augusto" che portava la sottoscrizione degli arcivescovi di Milano e di Ravenna e del vescovo di Pavia. Con la scelta di questa intitolazione G. voleva sottolineare la speciale responsabilità dell'imperatore nei confronti dell'Italia e di Roma. G. inviò inoltre all'arcivescovo Willigis di Magonza una relazione sulle decisioni assunte dal sinodo di Pavia, sottoscritta dai partecipanti. Nel marzo 997 Leone, abate del monastero romano dei SS. Bonifacio e Alessio, si recò, quale legato papale, alla corte di Ottone III, ancora ad Aquisgrana, per informarlo dell'elezione di Giovanni Filagato.
Nel marzo-aprile 997 la corte imperiale decise di prestare un efficace aiuto a G. e iniziò i preparativi per una nuova spedizione italiana di Ottone III. A questa decisione contribuì, oltre alle notizie portate dai legati papali ed imperiali, anche il conflitto per la sede metropolita di Reims che, dal 991, covava sotto la cenere; in merito a tale questione aspre critiche si erano levate contro la ridotta libertà di azione di cui aveva goduto papa Giovanni XV a causa delle pressioni di Crescenzio II. Dopo che, proprio per intercessione di G., Crescenzio II Nomentano non era stato mandato in esilio nel 996, l'espulsione del papa dalla città veniva considerata un affronto nei confronti dell'imperatore. Inoltre gli abati Odilone di Cluny e Abbone di Fleury premevano perché Ottone III si impegnasse attivamente in Italia. Segno evidente del progettato, personale intervento dell'imperatore in Italia è l'uso, testimoniato una prima volta dopo la Pasqua del 997 e poi sempre mantenuto, della formula "Romanorum imperator augustus" nell'intitolazione dei suoi diplomi. A partire dalla Pasqua 997, l'imperatore e G. procedettero senza tentennamenti e di comune accordo contro l'antipapa. Il 25 marzo 997, ad Aquisgrana, Ottone III concesse infatti l'abbazia di Nonantola, che era stata retta fino a quel momento da Giovanni Filagato, all'abate Leone (dei SS. Bonifacio ed Alessio). Nella primavera o all'inizio dell'estate di quello stesso anno G. riportò Piacenza al rango di semplice vescovato suffraganeo dell'arcivescovo di Ravenna. Sigefredo, un nipote di Giovanni, arcivescovo di Ravenna, divenne il nuovo vescovo di Piacenza ed ottenne, il 17 luglio 997, un diploma per la chiesa vescovile della sua città.
Nell'agosto successivo Leone, l'inviato bizantino, fece un brusco voltafaccia e si mise in viaggio per la corte imperiale ad Aquisgrana, dove - in ottobre - incontrò Ottone III. A causa della sua ambigua conduzione delle trattative in merito alla progettata alleanza matrimoniale con Bisanzio, la corte imperiale si rafforzò vieppiù nella decisione di preparare una spedizione in Italia con obiettivo Roma. Nell'autunno 997 sembra che Giovanni XVI abbia cercato di raggiungere un accordo con Ottone III, offrendosi di accettare qualsiasi condizione gli fosse stata imposta, ma la sua richiesta restò senza risposta. Nel dicembre 997 l'imperatore passò le Alpi e incontrò G. a Pavia, dove festeggiarono insieme il Natale e si consultarono sulle azioni da intraprendere contro Crescenzio II e Giovanni XVI. Al seguito di papa ed imperatore si trovavano il duca Ottone, padre di G., il duca di Baviera, i marchesi di Meissen e di Tuscia, vescovi italiani e transalpini, Odilone di Cluny e Gerberto di Aurillac. In gennaio G. ed Ottone III raggiunsero Ravenna passando per Cremona; venne loro incontro un'ambasceria del doge Pietro II Orseolo, che li accompagnò fino a Ravenna. Di qui l'esercito imperiale, nel febbraio 998, marciò su Roma. Giovanni XVI fuggì, mentre Crescenzio II Nomentano si chiuse in Castel S. Angelo. Dopo che Ottone III e G. erano entrati in città senza incontrare resistenze, Giovanni XVI inviò all'imperatore una richiesta di perdono, che non ebbe risposta. Un distaccamento guidato da Bertoldo (Birthilo) conte della Brisgovia scoprì l'antipapa in una torre fortificata nei pressi della città. Probabilmente non appena preso gli vennero cavati gli occhi e tagliati naso e lingua. L'iniziativa dell'operazione deve essere attribuita a G., perché in questo modo Giovanni Filagato cessava di essere un potenziale concorrente.
Il sinodo, che portò alla formale deposizione di Giovanni XVI, si svolse in maggio in una chiesa romana, alla presenza dell'imperatore, e venne presieduto da Gregorio V. In questa occasione l'antipapa, che non ebbe possibilità di giustificarsi, fu scomunicato, deposto e privato degli ordini. Dopo la deposizione Giovanni Filagato fu mostrato per le vie della città seduto su un asino, che montava al contrario; in mano teneva la coda, a guisa di briglia, mentre sul suo capo era stato posta la pelle di un animale. Questo spettacolo ignominioso, la cui responsabilità deve esser fatta risalire a G., oltre a pubblicizzare al di là di ogni dubbio la deposizione del suo avversario, doveva probabilmente servire anche a terrorizzare eventuali oppositori.
Mentre G. e Ottone III erano chiaramente di diverso avviso per quanto riguardava le misure punitive da prendere contro Giovanni XVI, erano invece perfettamente d'accordo sul trattamento da infliggere a Crescenzio II. Il 28 aprile 998, dopo un assedio di Castel S. Angelo che si protrasse a lungo, questi cercò invano di ottenere dall'imperatore di potersi sottomettere e consegnare formalmente. Mentre Crescenzio rientrava a Castel S. Angelo fu attaccato e sopraffatto insieme con gli altri assediati. D'accordo con G., Ottone III lo fece decapitare; il corpo venne gettato nel fossato dai merli del castello e in seguito appeso per i piedi in cima a Monte Mario. Dodici dei suoi fautori vennero a loro volta impiccati e appesi ai patiboli su Monte Mario. Dopo che G. e Ottone III furono rientrati in Roma, l'attività del papa si fece assai più efficace, come si deduce dal numero di diplomi papali ed imperiali nonché dalla documentazione giudiziaria del periodo. Già in precedenza G. aveva regolato l'elezione abbaziale del monastero di S. Savino di Piacenza, cui aveva concesso anche la conferma dei beni, che vennero significativamente ampliati da Ottone III e dal vescovo Sigefredo. A Roma, il monastero di Cluny, per intercessione dell'imperatore, ottenne da G., con un celebre documento, non solo la conferma dei beni, ma anche l'esenzione e il diritto alla libera scelta dell'abate. Analoghe conferme delle proprietà e dei diritti ricevettero anche S. Ambrogio di Milano, i monasteri imperiali di Lorsch e Reichenau, l'abbazia di Montmajour nel Regno di Borgogna e la chiesa canonicale di Besalù in Spagna. Conferme di beni vennero concesse anche ai monasteri di Villeneuve-lès-Avignon e S. Massimino di Treviri. Sono inoltre conservati alcuni documenti papali ed imperiali relativi a procedimenti giudiziari che si svolsero allora a Roma. Così, ad esempio, nell'aprile 998, alcuni preti della chiesa di S. Eustachio citarono davanti a G. e Ottone III l'abate Ugo di Farfa, che aveva avanzato pretese su tre chiese nelle terme alessandrine. Le discussioni sulla controversia tra S. Eustachio e Farfa si protrassero per molto e, il 9 aprile 998, giudici papali ed imperiali decisero a favore di Farfa. G. ed Ottone III appoggiarono l'abate di Farfa anche nelle sue controversie patrimoniali con il conte Benedetto II in merito a beni situati in Sabina. All'inizio del 999 G. si pronunciò invece contro Ugo di Farfa e a favore dell'abate Gregorio dei SS. Cosma e Damiano, che avrebbe comprato l'appoggio papale con doni in denaro.
Nell'aprile 998 G. consacrò l'abate Alawich di Reichenau e, per intercessione dell'imperatore, gli concesse di portare durante la celebrazione dell'ufficio divino, ad imitazione degli abati romani, sandali e dalmatica. In futuro, inoltre, gli abati di Reichenau avrebbero sempre avuto diritto alla consacrazione papale. Il pontefice, in questa occasione, avrebbe ricevuto in dono un manoscritto contenente sacramentario, epistole e vangeli nonché due cavalli bianchi. Nella primavera 998 l'attenzione del papa si rivolse agli arcivescovi di Benevento e Ravenna. Per venire incontro ad una richiesta di Ottone III, G. confermò all'arcivescovo Alfano di Benevento la dignità di metropolita, gli concesse il pallio e il diritto di consacrare quattordici vescovi, delle cui sedi si dava l'elenco preciso. Venne inoltre minacciato di scomunica chiunque avesse attentato ai beni della Chiesa di Benevento, in primo luogo i Bizantini. Alla fine di aprile 998 anche la controversia per la sede metropolita di Reims giunse infine a conclusione. Su proposta di Ottone III, Gerberto di Aurillac, il perdente nel conflitto, venne elevato alla sede arcivescovile di Ravenna; a Gerberto G. concesse il pallio nonché la promessa del Distretto di Ravenna e della Contea di Comacchio alla morte dell'imperatrice Adelaide (che morì effettivamente tra il 16 e il 17 dicembre dell'anno successivo), la quale li aveva ricevuti in vitalizio nel 967. Inoltre G. ottenne la sottomissione dei vescovati di Montefeltro e Cervia a Ravenna, di cui aveva già confermato la subordinazione nel 997 all'arcivescovo Giovanni. I privilegi papali in favore di Gerberto di Ravenna furono accompagnati da diversi diplomi di Ottone III, contenenti conferme di beni ed ulteriori donazioni.
Dopo il sinodo del maggio 998, nel corso del quale - oltre alla deposizione di Giovanni XVI - si era risolto anche lo scisma della Chiesa di Vich, nel gennaio 999 si tenne un secondo sinodo, che si svolse in S. Pietro alla presenza di Ottone III e sotto la presidenza di G.; tale sinodo venne definito dal papa "concilium generale", in quanto vi presero parte gli arcivescovi di Ravenna e di Capua e ben ventisei vescovi. La maggioranza proveniva dalla provincia ecclesiastica di Roma e dal resto dell'Italia, ma tra di loro si trovavano anche due vescovi del Regno di Borgogna e altrettanti provenienti dalle regioni transalpine dell'Impero. Le delibere sinodali riguardarono essenzialmente la Francia e le regioni tedesche dell'Impero. A re Roberto II di Francia venne richiesto di lasciare immediatamente la moglie Berta, pena la scomunica in caso di inadempienza, e vennero inflitti ad entrambi sette anni di penitenza. Il vescovo Erchambaldo di Tours, che aveva celebrato il matrimonio tra Roberto e Berta, nonché tutti i vescovi che avevano partecipato alla cerimonia vennero sospesi dal loro ufficio in attesa di presentarsi a Roma per rispondere del loro operato. Il sinodo prese anche alcune misure in merito all'elevazione episcopale di Stefano di Le Puy, che era avvenuta contravvenendo i canoni. L'assemblea si espresse inoltre a favore del ristabilimento della diocesi di Merseburgo, che, nel 981, era stata soppressa da papa Benedetto VII e dall'imperatore Ottone II senza che fosse intervenuta una decisione da parte di un qualsiasi sinodo o concilio. Questa, come altre decisioni, erano dirette a colpire l'operato dell'arcivescovo Gisilher di Magdeburgo, cui fu richiesto di dimostrare che la sua elezione era avvenuta nel rispetto dei canoni. In caso contrario, egli sarebbe dovuto tornare a Merseburgo, di cui era stato in precedenza vescovo. Ma, nel caso egli avesse ottenuto in modo illecito la dignità metropolitica, avrebbe dovuto rinunciare ad entrambe le sedi. Le decisioni contro Giselher furono certamente prese in seguito all'intervento di Ottone III. Giselher, che si mostrava irremovibile nella difesa dei diritti eminenti concessi all'arcivescovato di Magdeburgo ai tempi di Ottone I, ostacolava i nuovi indirizzi della politica imperiale, soprattutto nei riguardi della Polonia. Da Roma G. venne incontro anche alle lamentele di alcuni vescovi dell'Italia settentrionale in merito all'oppressione esercitata dal marchese Arduino nei confronti della Chiesa vescovile di Ivrea. G. chiese al marchese, pena la scomunica, di cessare ogni attacco al vescovato di Ivrea e di risarcire i danni entro la Pasqua del 999. Secondo alcune fonti, tra cui la Vita di s. Nilo, G. sarebbe morto di morte violenta, ma non esistono prove in merito. Le fonti non sono concordi nel fissare la data del decesso e indicano 4, 11, 12 e 18 febbraio e 12 marzo. Ottone III lo fece seppellire a S. Pietro, presso la tomba di Gregorio I, il che corrispondeva certamente al desiderio di G., che a quel papa aveva ispirato la propria azione.
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