VICK, Graham
Regista di opera lirica inglese, nato a Birkenhead (Merseyside) il 30 dicembre 1953. Fautore di un teatro dal forte impegno civile, da buon anglosassone non dimentica come la regola prima del teatro sia quella di ‘dire’ qualcosa e che la si può dire al meglio se si ‘racconta’ qualcosa, possibilmente capace di inchiodare l’interesse dello spettatore, provocando reazioni emotive più forti possibili, ma che sa anche divertirsi e divertire, come nel Falstaff verdiano del 1999, ambientato in un Medioevo ipercolorato in stile cartoon espressionista che ha inaugurato il Covent Garden di Londra dopo la ristrutturazione. Insignito del titolo di chevalier de l’Ordre des arts et des lettres, nel 2009 gli è stata conferita la carica di commander of the Order of the British empire per l’attività in campo operistico.
Dopo aver studiato al Royal Northern College of music di Manchester, a 24 anni ha diretto Savitri di Gustav Holst per la Scottish Opera (di cui è stato il direttore di produzione dal 1984 al 1987). Nel 1980, con 300 giovani disoccupati, ha messo in scena West side story di Leonard Bernstein in un mulino abbandonato nello Yorkshire, con l’intenzione di portare l’opera nelle provincie e nelle isole.
La sua carriera internazionale è cominciata – al pari del suo connazionale Richard Jones (v.) – in Italia, al Festival di Batignano, dove, nel 1981, ha realizzato Zaide di Wolfgang Amadeus Mozart, impiegando per i dialoghi un testo di Italo Calvino. Attivo all’English National Opera (che con la Scottish Opera è uno dei teatri inglesi dalle istanze innovative più spiccate), è stato anche assiduo collaboratore del Covent Garden (a partire dal 1989 con Un re in ascolto di Luciano Berio e poi con Mitridate, re di Ponto di Mozart, Die Meistersinger von Nürnberg di Richard Wagner, King Arthur di Henry Purcell, The midsummer marriage di Michael Tippett, La vedova allegra di Franz Lehar, Tamerlano di Georg Friedrich Händel, fino alla prima mondiale nel 2015 di Morgen und Abend di Georg Friedrich Haas).
Nel 1987 ha fondato la Birmingham Opera Company, di cui continua a essere direttore artistico e dove, tra l’altro, ha messo in scena The Ring saga da Wagner, Les Boréades di Jean-Philippe Rameau, Fidelio di Ludwig van Beethoven, Curlew River di Benjamin Britten, Il ritorno di Ulisse in patria di Claudio Monteverdi, La traviata di Giuseppe Verdi, Ariadne sells out da Richard Strauss, Idomeneo, re di Creta di Mozart, Otello di Verdi, dove si è avvalso di un tenore nero per il ruolo di protagonista, The ice break di Tippett, Khovanskygate: a national enquiry da Modest Musorgskij, e le prime assolute di Ghanashyam di Ravi Shankar, Life is a dream di Jonathan Dove e Mittwoch aus Licht di Karlheinz Stockhausen, mentre dal 1994 al 2000 è stato anche direttore di produzione del Festival di Glyndebourne (Lulu di Alban Berg, Pelléas et Mélisande di Claude Debussy, Evgenij Onegin e Dama di picche di Pëtr I. Čajkovskij, Ermione di Gioacchino Rossini, Manon Lescaut di Giacomo Puccini e la trilogia Da Ponte-Mozart).
Costante nelle sue produzioni è l’interesse per il rapporto – inevitabilmente conflittuale – tra individuo e società, che V. esplora da ogni angolo espressivo possibile: dalla Lucia di Lammermoor stilizzata e atemporale presentata al Maggio musicale fiorentino del 1996 (a Firenze ha anche realizzato nel 2013 una nuova produzione della prima versione del Macbeth verdiano per il Teatro alla Pergola, in un torbido mondo di mafia, droga e prostituzione) fino al crudo, volgare realismo della Traviata di Verdi messa in scena all’Arena di Verona nel 2004, che ha suscitato accese reazioni. Talora è l’individuo a interessarlo maggiormente, tracciandone il cammino esistenziale o di scoperta di sé in rapporto con gli altri, come a Salisburgo nel 2005 nel Die Zauberflöte di Mozart che parte dalla stanza dell’adolescente Tamino impegnato a dominare o quantomeno incanalare i propri istinti.
I suoi interessi spaziano in un vasto repertorio che va da quello tedesco (con le produzioni wagneriane di Der Ringdes Nibelungen, Tristan und Isolde, Parsifal, Tannhäuser, ma anche Moses und Aron di Arnold Schönberg, Aufstieg und Fall der Stadt Mahagonny di Kurt Weill e Die Gezeichneten di Franz Schreker) a quello slavo (Boris Godunov di Musorgskij, Guerra e pace e Lady Macbeth di Mtsensk di Sergej S. Prokof́ev, L’affare Makropulos di Leóš Janáček), da quello italiano (con le messe in scena verdiane di Don Carlo, Trovatore, Forza del destino, Rigoletto, Ernani, Simon Boccanegra, Macbeth e Otello, spettacoli questi due ultimi che hanno inaugurato la stagione della Scala di Milano nel 1997 e nel 2001, Aida ‘a stelle e strisce’ al Festival di Bregenz del 2009, con la Statua della libertà costruita nella scena del trionfo, e ancora una nuova produzione di Otello a Zurigo nel 2011; Mefistofele di Arrigo Boito, Anna Bolena di Gaetano Donizetti, fino a Outis di Luciano Berio) a quello francese (Le roi Arthus di Ernest Chausson, OEdipe di George Enescu, Werther di Jules Massenet, Les Troyens di Hector Berlioz).
Tra gli innumerevoli spettacoli, meritano una particolare menzione quelli realizzati per il Rossini Opera Festival di Pesaro. Nel 1997 ha messo in scena Moïse et Pharaon sfruttando l’enorme spazio del Palasport per mostrare un intero popolo che, nel momento della preghiera, celebra una cerimonia della memoria di enorme suggestione. Nel 2011, la prima versione napoletana di quella stessa opera, Mosè in Egitto, è stata interpretata in chiave violentemente politica, trasferita ai giorni nostri: nessuna cesura ambientale tra i due mondi, l’egiziano e l’israeliano, entrambi dilaniati dalla guerra, che nell’invocare ciascuno il proprio Dio ne negano ogni influsso morale e in nome di un Dio, di un qualsiasi Dio, continuano a commettere atrocità. Nel 2013 ancora un impianto fortemente politico, ma sganciato da una precisa connotazione storica, per Guillaume Tell, ambientato entro una candida scatola che pare escludere quella Natura ritenuta occulta protagonista dell’opera; ma è perché V. dà alla Natura un significato universale ed eterno: la storia della presa di coscienza collettiva da parte di un popolo che non è solo svizzero, ma Popolo. La lunga scena di danza viene risolta in pantomime dove la crudeltà della classe dominante guarda da vicino al Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini. La presa di coscienza di Arnoldo, che lascia la parte dei vincitori per tornare dai suoi, è parallela alla celebrazione del nucleo familiare come somma di tradizioni fondanti per il vivere civile: e la freccia finale che uccide la tirannide, Guglielmo la scocca stando seduto al desco, circondato dai suoi.