giustizia
Una componente indispensabile per qualsiasi forma di vita associata
Nessuna società, per quanto piccola, può sussistere senza un insieme di norme che regoli i rapporti tra i suoi membri. Ma cos'è che rende condivise quelle regole e che spinge quindi gli individui a rispettarle? È il fatto che la maggior parte degli interessati le considera sufficientemente giuste. In altre parole, qualsiasi forma di vita sociale richiede una decisione su cosa sia la giustizia. Molteplici sono le concezioni della giustizia elaborate dalla civiltà occidentale: essa è stata identificata con un ordine divino o naturale che assegna a ciascuno il suo ruolo, con una tecnica giuridica il cui scopo è garantire la convivenza pacifica, o con alcuni valori come l'utilità, l'eguaglianza sociale, la libertà
Per gli antichi Greci la giustizia consiste nella conformità a un ordine naturale voluto dagli dei, in virtù del quale ogni cosa ‒ dagli astri nel cielo agli organi nel corpo umano, dall'individuo nella famiglia al cittadino nello Stato ‒ occupa un posto determinato e svolge una specifica funzione. Esiste dunque un ordine naturale delle cose, una legge che assegna a ogni elemento il suo ruolo: e la giustizia consiste nell'adeguarsi a quell'ordine naturale, a quella legge. Giustizia, legge e natura coincidono. Agli antipodi della giustizia sta la la hỳbris ("orgoglio, tracotanza"), ossia l'ambizione di occupare un posto superiore alla propria destinazione: ma un simile atteggiamento suscita la collera e la punizione da parte degli dei.
Con i sofisti (sofistica), nel 5° secolo a.C., l'unità di giustizia, legge e natura viene messa in discussione: le leggi appaiono come l'espressione di decisioni umane, dettate dall'utilità e dagli interessi. E ciò che è giusto per legge non sempre coincide con ciò che è giusto per natura: anzi, spesso le leggi riflettono gli interessi di coloro che detengono il potere. Nella Repubblica Platone fa esporre questo punto di vista dissacrante al sofista Trasimaco, secondo il quale "il giusto non consiste in altro se non in ciò che giova al più forte".
Ma non tutti i sofisti la pensano così. Protagora cerca di salvare una nozione condivisa di giustizia identificandola con la legge che ogni città si dà liberamente. Ippia e Antifonte obiettano però che le leggi fatte dalle città, oltre a essere diverse tra loro, sono spesso ingiuste: a esse ‒ cioè al diritto positivo, fatto dall'uomo ‒ contrappongono il diritto naturale, ossia il diritto conforme alla natura delle cose, che è uguale in ogni tempo e in ogni luogo. A differenza, però, di Trasimaco ‒ che identifica il diritto naturale con la natura, dove vige il diritto del più forte ‒, Ippia e Antifonte identificano il diritto naturale con la ragione, in virtù della quale tutti gli uomini sono uguali tra loro.
Platone tenta di ristabilire una concezione oggettiva della giustizia, senza la quale, a suo parere, gli uomini non possono convivere. A questo tema egli dedica la sua opera più celebre, la Repubblica, dove la giustizia viene definita come la suprema virtù ordinatrice: essa consiste nell'attribuire a ogni elemento il posto che gli spetta, tanto all'interno dell'animo umano, quanto all'interno dello Stato.
L'anima umana, secondo Platone, è composta di tre parti: la parte razionale, la parte delle passioni nobili e la parte degli istinti e dei desideri. Ognuna di queste parti deve avere la sua giusta espansione e svolgere il ruolo che le è proprio, sotto la guida della parte più elevata, che è quella razionale. Analogamente, lo Stato è composto di tre classi: governanti, guerrieri e produttori. Nei primi deve prevalere l'anima razionale, la cui virtù è la sapienza; nei secondi l'anima passionale, la cui virtù è il coraggio; negli ultimi l'anima concupiscibile, la cui virtù è la moderazione. Lo Stato è giusto quando ogni classe, composta degli individui adatti, svolge il suo compito.
La giustizia non coincide quindi con la semplice eguaglianza, ossia con il trattare tutti in modo uguale, ma con "l'ottima eguaglianza", che consiste nel dare a ognuno ciò che gli spetta secondo il suo reale valore, secondo il principio "a ciascuno il suo". Torna così in Platone, argomentata razionalmente, l'antica idea della giustizia come ordine delle cose.
Anche per Aristotele la giustizia è la più importante delle virtù: per un verso essa è la sintesi di tutte le virtù etiche, perché consiste nel saper determinare il 'giusto mezzo' tra eccessi opposti, mentre per un altro è una specifica virtù connessa ai rapporti sociali. In questo ambito la giustizia svolge due funzioni fondamentali: quella di riparare i torti e quella di distribuire i beni e gli onori.
Nel primo caso Aristotele parla di giustizia commutativa, simboleggiata dalla bilancia e ispirata al concetto di eguaglianza. Quando una persona subisce un danno, la giustizia consiste nel riparare quel danno, ripristinando l'equilibrio violato. Ma come avviene tale riparazione? Dipende dal tipo di danno. Se questo deriva dalla violazione di un contratto volontario (acquisto, vendita, deposito, locazione), la giustizia consiste nel compensare la parte offesa mediante un risarcimento (giustizia compensativa). Se invece si tratta di un danno che nasce da un delitto (furto, percosse, omicidio e così via), allora la riparazione consiste in una pena inflitta al colpevole, che deve essere proporzionata al delitto commesso (giustizia correttiva).
La giustizia distributiva, invece, consiste nel distribuire beni materiali od onori tra coloro che fanno parte della comunità politica: essa non si ispira quindi alla semplice eguaglianza, perché deve stabilire una proporzione tra i beni da distribuire e i meriti degli individui.
Va infine ricordato che Aristotele fonda il diritto sulla giustizia e che distingue tra diritto positivo, contenuto nelle leggi dei vari Stati, e diritto naturale, vigente ovunque anche se non sancito dalle leggi. Il diritto positivo e il diritto naturale, per il filosofo greco, non dovrebbero entrare in conflitto, perché il primo regola le azioni indifferenti (sacrificare una o due capre in un certo rito religioso, pagare una certa somma di tasse o un'altra), mentre il secondo regola le azioni moralmente necessarie (rubare, uccidere e così via). Ma se si dovesse verificare un conflitto, resta inteso che il diritto naturale, universale e immutabile, è superiore al diritto positivo.
L'idea che esista un diritto naturale, conforme alla natura delle cose e quindi intrinsecamente giusto, e che esso sia superiore al diritto positivo, costituisce il cuore della dottrina del diritto naturale (detta anche giusnaturalismo), che verrà sostenuta con forza dai filosofi stoici.
Secondo lo stoicismo, che ebbe larga diffusione nel mondo romano, il diritto naturale è l'espressione di una legge necessaria e universale che governa tutto il Cosmo, uomo incluso: esso è quindi eterno e immutabile e soltanto la sua applicazione, garantendo la giustizia, rende possibile la convivenza umana. Tale idea verrà formulata con insuperata chiarezza da Cicerone (1° secolo a.C.), secondo il quale esiste una legge 'vera', conforme alla ragione, immutabile ed eterna, che non varia a seconda dei luoghi e con il passare del tempo e che l'uomo non può violare se non rinnegando la propria natura. La giustizia consiste nel rispettare tale ordine razionale, dando "a ciascuno il suo".
Anche il grande giurista Ulpiano (2°-3° secolo d.C.) definisce la giustizia come "volontà costante e perpetua di dare a ciascuno il suo"; ma stabilire in cosa consista il 'suo' spetta alla legge e secondo Ulpiano "ha vigore di legge ciò che piace al principe". In tal modo, la volontà del sovrano diviene l'unico criterio che rende giusta una legge, mentre nella prospettiva di Cicerone è la razionalità della legge, ossia la sua conformità al diritto naturale, a renderla giusta.
La concezione ciceroniana del diritto naturale influenzò profondamente il pensiero cristiano e medievale, che collocò l'origine della legge naturale in Dio, ma si divise sulla sua interpretazione.
Per alcuni pensatori cristiani, come Agostino d'Ippona (4°-5° secolo) e Guglielmo di Occam (14° secolo), la legge naturale coincide con la volontà di Dio. La giustizia è quindi l'esito di una decisione divina, comunicata all'uomo tramite la rivelazione o la ragione; ne consegue che Dio, in qualsiasi momento, può modificare la legge naturale. Per altri pensatori cristiani, come Tommaso d'Aquino (13° secolo), la legge naturale è il modo in cui si manifesta all'uomo l'ordine razionale impresso da Dio al Cosmo: in questa prospettiva la giustizia non è l'esito di una decisione, ma un ordine oggettivo che l'uomo scopre nella natura delle cose.
Queste differenti interpretazioni della legge naturale hanno implicazioni decisive per la definizione del concetto di giustizia in ambito politico. La prima interpretazione conduce a una concezione formale della giustizia, riassumibile nell'espressione latina ius quia iussum ("è diritto perché così è stato ordinato"); la seconda conduce invece a una concezione sostanziale della giustizia, riassumibile nell'espressione ius quia iustum ("è diritto perché è giusto"). Nel primo caso la giustizia nasce da una decisione volontaria, assunta da chi ha l'autorità per farlo (Dio, il sovrano legittimo e così via): non è il contenuto della norma a renderla giusta, bensì la volontà del suo autore. Nel secondo caso la giustizia si definisce invece sulla base del contenuto, che deve essere conforme ai precetti razionali della legge naturale: è dunque la razionalità della norma a renderla giusta, il che pone chiari limiti alla volontà del sovrano.
Dal punto di vista dell'etica religiosa, la giustizia è per i cristiani una delle quattro virtù cardinali, insieme alla temperanza, alla fortezza e alla prudenza. Ben altro problema è quello della giustificazione dell'uomo, ossia di ciò che lo rende giusto di fronte agli occhi di Dio e dunque meritevole di salvezza: è sufficiente l'intervento divino (la grazia tramite la fede) o è necessaria anche la collaborazione umana (le opere)? Per i cattolici sono necessari entrambi, mentre per i protestanti soltanto la grazia può rendere l'uomo giusto.
Alle origini della modernità troviamo un paradosso: il fondatore del giusnaturalismo moderno ‒ l'inglese Thomas Hobbes (16°-17° secolo) ‒ elabora una concezione della giustizia del tutto formale, anticipando così le tesi del giuspositivismo, ossia di quella corrente di pensiero che negherà l'esistenza del diritto naturale (inteso come insieme di norme oggettive e condivise) e affermerà che esiste soltanto il diritto positivo.
Per Hobbes prima che esista uno Stato ‒ e quindi un sovrano che emana leggi positive ‒ non esistono né giustizia, né ingiustizia. Infatti, in un ipotetico stato di natura (ossia in quello stato nel quale l'uomo vive prima che vengano fondate le istituzioni politiche), ogni uomo ha il diritto di fare tutto ciò che ritiene necessario per la propria autoconservazione: la ragione umana, secondo il filosofo inglese, non è in grado di cogliere l'essenza razionale delle cose, ma soltanto di suggerirci i mezzi appropriati in vista dei fini che vogliamo perseguire. E poiché l'unica cosa sulla quale gli uomini concordano è che la conservazione della vita rappresenti il bene supremo, la ragione ci suggerisce di cercare la pace: a tal fine dobbiamo uscire dallo stato di natura (dove il diritto di tutti a tutto dà luogo alla guerra di tutti contro tutti), rinunciare ai nostri diritti naturali e conferirli, tramite un patto che deve sempre essere rispettato, a un sovrano. Le leggi che il sovrano farà stabiliranno cosa è giusto e cosa è ingiusto e solo a partire da quel momento avrà senso parlare di giustizia: la giustizia si risolve, quindi, per Hobbes nella legalità e il suo fine è garantire la pacifica convivenza tra gli uomini.
Tale concezione verrà ripresa, nel corso del Novecento, dal grande giurista praghese Hans Kelsen, che è uno dei maggiori esponenti del giuspositivismo. Secondo Kelsen, è impossibile definire la 'sostanza' della giustizia, perché ciò implica la sua identificazione con un valore (la felicità, la libertà, l'eguaglianza), ossia con qualcosa che dipende da preferenze soggettive e che non ha quindi alcuna oggettività. L'unica concezione razionale della giustizia consiste nel concepirla come una tecnica giuridica che, a seconda del contesto sociopolitico, renda possibile la pacifica coesistenza tra uomini che hanno opinioni e interessi diversi. "Sebbene l'ideale della giustizia nel suo significato originario sia una cosa del tutto diversa dall'ideale della pace ‒ scrive Kelsen ‒ esiste una netta tendenza a identificare i due ideali o almeno a sostituire l'ideale della giustizia con quello della pace".
Un'altra interpretazione del concetto di giustizia è quella che la identifica con l'utilità. Ogni uomo ‒ osserva nel 18° secolo il filosofo scozzese David Hume ‒ non è né interamente egoista, né del tutto altruista; e poiché deve fronteggiare la naturale scarsità dei beni, è portato a istituire la proprietà privata e ad associarsi con i suoi simili. La necessità della giustizia, come insieme di norme che regolano la convivenza umana, nasce da questo stato di cose, cioè dall'esigenza di garantire, al tempo stesso, la proprietà privata e la vita associata. Le norme della giustizia derivano la loro forza non da una presunta razionalità, ma dal sentimento della loro comune utilità e necessità. "Aumentate a un grado sufficiente la bontà degli uomini, o l'abbondanza della natura" ‒ conclude Hume ‒ "e avrete reso inutile la giustizia, sostituendola con virtù assai più nobili e con benedizioni più preziose". I filosofi utilitaristi hanno in genere sostenuto che la giustizia coincide con quell'ordinamento che garantisce la massima felicità possibile per il maggior numero di persone.
Uno degli ideali di giustizia che più hanno influito nella storia degli ultimi due secoli è senz'altro quello della giustizia sociale, che ha rappresentato il cuore delle ideologie socialiste e comuniste, ma che ha trovato espressione anche nelle correnti politiche di ispirazione cristiana.
Sino quasi alla metà del 20° secolo, i socialisti hanno identificato la giustizia con una condizione di eguaglianza sostanziale, ossia di eguaglianza socioeconomica. A loro parere i diritti civili e politici conquistati dai liberali e dai democratici avevano reso gli individui eguali solo in astratto, in modo meramente giuridico-formale, mentre in concreto, nella sfera sostanziale dei beni economici, quegli individui erano rimasti profondamente diseguali. Ma possedere formalmente dei diritti, senza avere le condizioni materiali per fruirne, equivale a non averli affatto. L'unico modo di realizzare una società veramente giusta consiste quindi nel realizzare l'eguaglianza socioeconomica, che implica il superamento (sul breve o sul lungo periodo) della proprietà privata. Nella seconda metà del Novecento, i partiti socialisti dell'Europa occidentale hanno abbandonato l'obiettivo della soppressione della proprietà privata e hanno perseguito i loro ideali di giustizia attraverso la costruzione di uno Stato sociale (benessere, Stato del), il cui scopo è garantire a tutti i cittadini un certo standard di beni sociali ed economici (istruzione, assistenza sanitaria, pensioni, sussidi per la disoccupazione).
La preoccupazione per una distribuzione meno diseguale della ricchezza ha caratterizzato anche le correnti politiche di ispirazione cristiana, che ‒ pur non mettendo mai in dubbio il principio della proprietà privata, ma condannandone gli eccessi individualistici ‒ hanno contribuito in modo decisivo allo sviluppo del movimento cooperativo (cooperazione) e dello Stato sociale.
Quanto alla tradizione liberale (liberalismo), al suo interno vanno distinte due impostazioni. Una è maggiormente sensibile al tema della giustizia sociale ed è quindi aperta al principio dell'intervento statale al fine di redistribuire in modo più equo le risorse economiche: il suo capostipite può essere rintracciato nel pensatore inglese John Stuart Mill (19° secolo), ma i suoi sostenitori più espliciti sono stati alcuni pensatori inglesi e americani dell'Ottocento e del Novecento (Thomas H. Green, Leonard T. Hobhouse, John Dewey).
L'altra, invece, identifica la giustizia con la libertà ed esclude quindi qualsiasi eguaglianza di tipo sostanziale. Alle origini di questa impostazione può essere collocato Immanuel Kant (18° secolo), secondo il quale la costituzione civile perfettamente giusta è quella che garantisce il massimo di libertà agli individui sotto l'impero di leggi eguali per tutti.
Tale concezione ha trovato la sua espressione contemporanea più vigorosa nel pensatore austriaco Friedrich von Hayek (20° secolo), il quale ritiene che non esistano principi universalmente condivisi di giustizia sociale, giacché ognuno la intende a modo suo; ma anche se esistessero, la loro applicazione distruggerebbe la libertà individuale, perché vi sarebbe un unico modo di produrre e distribuire le risorse. L'unica forma di giustizia compatibile con la libertà, per Hayek, è quella che Aristotele chiamava giustizia commutativa e che risiede nelle norme di condotta negative (che si limitano a dirci cosa non dobbiamo fare per evitare di nuocere agli altri) elaborate dalla giurisprudenza.
Agli antipodi di Hayek si colloca il pensatore americano John Rawls, che ha impostato il problema della giustizia distributiva su base neocontrattualista: per costruire una società giusta ogni individuo dovrebbe scegliere i meccanismi sociali ignorando quale posizione andrà a occupare (velo d'ignoranza), in modo tale che sarà spinto a massimizzare i benefici per le persone meno favorite.