Giulio III
Giovan Maria Ciocchi del Monte nacque in Roma il 10 settembre 1487 da Vincenzo e da Cristofora Saracini. Il padre esercitava la professione di avvocato concistoriale. Artefice delle fortune della famiglia, originaria di Monte San Savino, dev'essere considerato, però, lo zio Antonio, auditore di Rota, arcivescovo di Siponto e Manfredonia, il quale curò l'istruzione del giovane affidandolo all'umanista R. Brandolini.
Dopo aver studiato diritto a Perugia e a Siena (conseguendo la laurea "in utroque" nel prestigioso Studio toscano, dove aveva avuto come insegnante A. Catarino) del Monte intraprese la carriera ecclesiastica. Tornato a Roma, fu posto fra i camerieri di Giulio II e quando lo zio fu elevato al cardinalato - il 10 marzo 1511 - ricevette (per rinuncia di quello) l'arcidiocesi di Manfredonia. Poco dopo partecipò al concilio Lateranense, tenendo la prolusione della quinta sessione (il 16 febbraio 1513). Nel 1521 lo zio rinunciò in suo favore anche la diocesi di Pavia, nella quale si recò solo di rado a causa delle guerre per il Ducato di Milano.
Nel giugno 1527, dopo il Sacco di Roma (del quale circolarono sue narrazioni, come la Particola di lettere del reverendo arcivescovo Sypontino riportata in M. Sanuto, XLVI, coll. 209-10), del Monte fu consegnato come ostaggio a garanzia del resto dei 400.000 ducati richiesti al papa dai lanzichenecchi e non ancora versati. Rischiò di essere giustiziato in almeno due occasioni, a causa dei ritardi nel pagamento; quindi, alla fine di novembre 1527, riuscì a fuggire a Narni e raggiunse il pontefice ad Orvieto. Clemente VII nei primi giorni del 1528 lo inviò a Venezia, per accelerare la restituzione di Ravenna e Cervia, occupate da truppe veneziane durante la calata dell'esercito imperiale. Incontrò il doge e il Consiglio dei Dieci, ma riuscì ad ottenere soltanto la promessa che la questione sarebbe stata presto risolta attraverso l'invio di un ambasciatore presso il papa: insoddisfatto, partì il 17 gennaio 1528, per tornare ad Orvieto.
L'insuccesso non parve compromettere i suoi rapporti con Clemente VII (che lo aveva designato prelato domestico): nel gennaio e febbraio 1528 esercitò, pur senza nomina formale, le funzioni di governatore di Roma, quindi (con breve dell'11 marzo 1528), ebbe l'incarico di presidente di Romagna. Qui il del Monte si dedicò anzi tutto al riacquisto di Rimini, presa da Sigismondo Malatesta durante il 1527: con l'aiuto dei nobili romagnoli Giovanni Sassatelli e Nicolò Guidi di Bagno, assistendo personalmente alle operazioni militari, riuscì a tornarne in possesso alla metà di giugno 1528. Quindi, attese alla pacificazione delle fazioni in Cesena e Forlì ed accarezzò addirittura l'idea di riprendere con la forza Ravenna e Cervia, ancora tenute dai Veneziani.
Richiamato a Corte nel luglio 1529, il 28 settembre dello stesso anno fu formalmente investito governatore di Roma e rimase nella carica fino al marzo 1532. Quindi, rinunciata la diocesi pavese in favore di Giangirolamo de' Rossi, ne ricevette in cambio un posto di chierico della Camera apostolica. Agli inizi del pontificato di Paolo III, del Monte acquistò, per circa 10.000 scudi, la carica di auditore generale (cioè presidente) del Tribunale della Camera apostolica e fu confermato prelato domestico. Nel dicembre 1534, gli fu affidato il governo di Bologna e della Romagna. Autorizzato a procedere "manu regia", ricevette istruzioni di verificare l'operato degli amministratori, di correggere i casi di malgoverno, di punire severamente gli episodi di criminalità, di spegnere le lotte di fazione nelle turbolente città della provincia. Alla fine di luglio 1535 fu richiamato in Curia: papa Farnese mostrava intenzione di conferirgli l'incarico di governatore di Roma. Nel 1536 del Monte rientrò, tuttavia, a Bologna. Il 22 dicembre 1536, fu creato cardinale, con il titolo di S. Vitale (mutato il 6 ottobre 1542 in quello di S. Prassede e, un anno dopo, in quello di Palestrina). Nel novembre 1537, ricevette la Legazione dell'Emilia settentrionale, con disposizioni di procedere ad un deciso accentramento. Riordinò l'assetto istituzionale di Piacenza e Parma (espellendo le fazioni dalla vita pubblica locale ed attribuendosi autorità di destituire le magistrature cittadine), curò l'amministrazione della giustizia e si adoperò nella ricerca di consenso al dominio pontificio.
Tornato a Roma al termine del mandato triennale, fu coinvolto, per la sua formazione giuridica e la lealtà nei confronti dei Farnese, nei progetti di riforma di Paolo III: nell'agosto 1540, entrò nella commissione "super reformatione", occupandosi del Tribunale della Rota e contribuì ai preparativi del concilio convocato a Trento: stese, infatti, alla fine di ottobre 1542, una delle istruzioni informali per Pier Paolo Parisio, Giovanni Morone e Reginald Pole nominati legati apostolici, nella quale chiarì che, senza espressa autorizzazione del papa, il sinodo non doveva essere aperto, né, tanto meno, doveva essere discussa alcuna materia con i protestanti.
Dalla fine di maggio 1543, del Monte partecipò - insieme con Gian Domenico de Cupis, Marcello Crescenzi, Alessandro Guidiccioni, Giovanni Grimani, Marcello Cervini, Gregorio Cortese, Tommaso Badia - ai lavori della deputazione del concilio: dopo la sua sospensione (decretata alla fine di settembre 1543), a causa della ripresa della guerra in Europa, la commissione verificò le possibilità di una riapertura (stabilita poi per il marzo 1545). E quando, con bolla del 22 febbraio 1545, fu formata la presidenza del sinodo, del Monte, al quale da pochi mesi era stata nuovamente affidata la diocesi di Pavia, fu creato legato, accanto ai cardinali Marcello Cervini e Reginald Pole. Con la sua nomina, Paolo III intendeva affiancare a porporati versati negli studi teologici e pronti a favorire profonde riforme nella Chiesa un esperto canonista, pratico degli affari di governo e della Curia, convinto sostenitore della superiorità del pontefice sull'assemblea conciliare. Del Monte arrivò a Trento il 13 marzo 1545, senza aver ricevuto istruzioni particolari, né sull'estensione del potere direttivo di cui era investito, né sui temi da discutere. All'inizio di giugno 1545, dopo l'avvio dei lavori preliminari, le difficoltà sembravano montare: pochi prelati erano intervenuti, i principi protestanti (a Worms) avevano reso noto che non avrebbero accettato le decisioni del concilio, il papato si preparava a sostenere con denaro e truppe la campagna di Carlo V contro la Lega di Smalcalda. In questo clima, del Monte chiarì quali dovessero essere, a suo giudizio, i compiti del concilio: emettere (dopo un formale procedimento) un giudizio di eresia a carico dei protestanti, in modo che poi fosse lecito affrontarli militarmente. La riforma della Curia e il riordino della giurisdizione ecclesiastica dovevano invece essere trattati in un secondo momento, in una città dello Stato della Chiesa o a Roma. La soluzione, dal punto di vista del diritto canonico, era del tutto legittima, ma non valutava il rischio di una insurrezione generale dei protestanti tedeschi, prima che l'imperatore fosse pronto a combatterli: a Roma non venne presa in seria considerazione. La seconda metà del 1545 fu ancora occupata da questioni procedurali. Del Monte, dalla metà di agosto, iniziò ad accusare problemi di salute: ma all'apertura solenne del sinodo (il 13 dicembre 1545), cantò la messa inaugurale. Passò, quindi, a presiedere i lavori. Respinse duramente (alla fine di gennaio 1546) la proposta del cardinale Cristoforo Madruzzo di affrontare per primi i temi della riforma: dimostrò in questa occasione di essere pronto allo scontro con chi intendesse porre in discussione la suprema autorità di papa Farnese, che aveva convocato il sinodo generale soprattutto per definire i dogmi della Chiesa. Non poté però evitare, per le pressioni dei prelati più vicini a Carlo V, che si trattasse congiuntamente di questioni dottrinali e di riforma - cosa che suscitò un profondo malumore a Roma.
Quanto all'organizzazione dei lavori, del Monte suddivise le materie fra tre Congregazioni, sotto la presidenza di ciascun legato: ma questo modo di procedere, rivelatosi piuttosto macchinoso, venne abbandonato nel marzo 1546. Nel contempo, egli aveva partecipato alla discussione sul canone della Sacra Scrittura, schierandosi per la conferma dell'elenco tramandato dalla tradizione, per sconfessare le innovazioni propugnate dai protestanti.
Tra il marzo e l'aprile 1546 alcuni prelati del concilio mostrarono chiaramente l'intenzione di trattare della residenza dei vescovi: del Monte, tornato a presiedere le sessioni il 1° aprile 1546 dopo gravi attacchi di gotta, riuscì ad evitarlo, ma dovette promettere di dibattere in futuro l'argomento. Anche la discussione sull'istruzione religiosa si rivelò molto insidiosa: del Monte dovette nuovamente intervenire a difesa dell'autorità del pontefice e del potere stesso dei legati. Quindi, nel maggio 1546, coordinò i lavori sul peccato originale e nel mese successivo riuscì a rimandare ancora la discussione sull'obbligo di residenza. Alla fine del giugno 1546 del Monte, malato, si assentò di nuovo dalle sessioni conciliari. Nelle settimane seguenti, chiese più volte di essere sostituito, ma Paolo III aveva particolarmente bisogno della sua attiva presenza in Trento, poiché l'inizio della guerra contro i principi protestanti lasciava nelle mani dei legati la decisione se trasferire o no la sede del concilio: tornò così alla presidenza nei dibattiti del 13 e 17 agosto 1546, dedicati al tema cruciale della giustificazione. Pur rinnovando le richieste di essere sostituito, del Monte preparò insieme con gli altri legati quella sospensione del concilio che Paolo III desiderava, ma della quale non intendeva assumersi, di fronte a Carlo V, la responsabilità. Quindi, lasciata al cardinal Cervini, più competente in teologia, la guida dei lavori sulla giustificazione, si concentrò sulla residenza dei vescovi. Presentò (il 7 gennaio 1547) un abbozzo di decreto, che cercava di raggiungere un compromesso, ma non riuscì ad evitare l'aspra opposizione del cardinale Pedro Pacheco, né che una nuova versione, presentata il 13 gennaio 1547, fosse bocciata. Appariva ormai chiaro che del Monte, abile nel differire gli argomenti più scottanti, non riusciva a dominare la discussione, quando erano affrontati i temi di riforma. Mantenne la presidenza anche dopo la traslazione del concilio a Bologna (decisa all'inizio di marzo 1547) e tentò di far crescere il numero dei partecipanti nella nuova sede. Dopo che i dibattiti si erano concentrati sui sacramenti, a partire dall'estate 1547, del Monte fece trattare gli abusi nella loro amministrazione: tuttavia la discussione, nonostante il tema relativamente innocuo, riuscì piuttosto aspra.
Dovette quindi esprimersi sulla richiesta, formulata a Roma (alla fine di novembre 1547) dal cardinale Cristoforo Madruzzo per conto di Carlo V, circa il ritorno del concilio a Trento: a suo giudizio, il papa doveva difendere l'autonomia e libertà del sinodo e, nel contempo, provvedere ad un ordinamento religioso interinale della Germania. Intervenne anche nelle Congregazioni conciliari del 19 e 20 dicembre 1547, dedicate a questo stesso argomento: pose come condizioni per il ritorno a Trento l'accoglimento da parte dei protestanti di tutti i decreti emanati e il trasferimento a Bologna dei prelati fedeli all'imperatore, rimasti per protesta a Trento. Ebbe successo: il testo di risposta, che corrispondeva in gran parte alla sua posizione, incontrò il favore di Paolo III (animoso nei confronti di Carlo V per l'assassinio di Pierluigi Farnese e l'occupazione di Piacenza) e fu trasmesso alla fine di dicembre 1547. Del Monte si incaricò infine, all'inizio del 1548, di ripetere ai rappresentanti imperiali, a nome dell'assemblea, che la traslazione era avvenuta legittimamente e che nessuno poteva interferire sulla libertà del concilio.
La questione, nel febbraio 1548, fu avocata da Paolo III. Quando poi, alla metà di maggio, fu reso noto l'Interim di Augusta (cioè l'ordinanza di Carlo V del 15 maggio 1548, che, per conciliare cattolici e protestanti, interveniva su questioni dottrinali e riformava la disciplina del clero sul territorio imperiale), del Monte lo criticò aspramente, indignato per l'improvvisa accondiscendenza e per la trattazione di materie sulle quali il concilio si era già pronunciato. Poiché i lavori dell'assemblea erano fermi dal 23 dicembre 1547, montava un clima di sfiducia, che del Monte tentò dapprima di arginare. Poi, appoggiato dai prelati francesi, propose la traslazione del sinodo a Roma, o in subordine, la sua sospensione. Continuò più volte a proporre questa soluzione, nonostante i rifiuti di Paolo III, che voleva evitare un'aperta rottura con l'imperatore. Per questo suo contegno, decisamente avverso alla politica religiosa di Carlo V, fu privato delle rendite della diocesi di Pavia. Ma papa Farnese gli conferì, nel luglio 1548, la Legazione di Bologna, liberandolo dalla presidenza del concilio (sciolto all'inizio del settembre successivo). Alla morte di Paolo III, il 10 novembre 1549, del Monte entrò, con gli altri prelati, in conclave. Forti pressioni da parte dell'imperatore e del re di Francia originarono in breve tempo due fazioni, poco disposte al dialogo. Cadde così, in poco tempo, la candidatura di Giovanni Salviati, reputato filofrancese. I cardinali del "partito imperiale", secondo le commissioni dello stesso Carlo V, si orientarono su R. Pole, che, dopo alcuni successi all'inizio del dicembre 1549, non riuscì a raggiungere il numero di voti necessari per l'elezione, per l'opposizione sia dei filofrancesi, sia dei cardinali più decisi ad un duro confronto con i protestanti che gli imputavano alcune ambigue convinzioni dottrinali. Tramontata la candidatura Pole, i due schieramenti si trovarono in equilibrio. Del Monte, nel frattempo, era stato inserito tra i candidati graditi ad Enrico II: vantava palesi simpatie per la Francia almeno fin dal 1546, si era trovato più volte in contrasto con i prelati vicini a Carlo V e dopo aver contribuito alla traslazione del concilio a Bologna aveva ricevuto, nell'ottobre 1548, esplicite offerte "ex parte regis in promovendo eum in pontificem" (Concilium Tridentinum, Diaria, I, 1, p. 805). Charles de Guise, capo del "partito francese", avanzò, dunque, il 14 gennaio 1550, il suo nome. I cardinali filoimperiali insistevano, invece, sul cardinale Pole, proponendo come alternativa solo Giovanni Morone. Il conclave perdeva velocemente credibilità: non era rispettata la clausura, continuavano le pressioni esterne, i cardinali conducevano uno stile di vita discutibile. Alcune norme correttive furono pubblicate il 31 gennaio 1550, quando era caduta la candidatura di Niccolò Ridolfi (gravemente malato) e fallito un nuovo tentativo in favore di Giovanni Salviati. Nei primi giorni di febbraio 1550, il cardinale Guidascanio Sforza fece nuovamente il nome di del Monte: l'opposizione della fazione filofrancese venne presto superata; i cardinali dell'altro "partito" ancora diffidavano, sebbene ignorassero che Carlo V lo aveva espressamente escluso dal novero dei papabili. L'accordo - non comprendente i porporati spagnoli - sopraggiunse, dopo una breve trattativa, il 6 febbraio 1550: l'indomani, Charles de Guise ed Alessandro Farnese guidarono l'omaggio nella cappella Paolina a del Monte, che fece comunque redigere un atto notarile comprovante l'avvenuta elezione; quindi, nella notte, prese il nome di Giulio III, per riconoscenza nei confronti di Giulio II, il quale aveva elevato lo zio Antonio al rango cardinalizio e patrocinato gli inizi della sua carriera. L'8 febbraio 1550, dopo che anche i cardinali spagnoli ebbero prestato omaggio, fu tenuta un'ultima, formale votazione.
Prima preoccupazione di G. fu l'apertura della Porta santa, cui procedette il 24 febbraio, due giorni dopo l'incoronazione. L'inaugurazione del giubileo per l'anno 1550, indetto da Paolo III, infatti, era stata impedita prima dalla morte di papa Farnese, poi dal lungo conclave. La ricorrenza sembrò accolta con minore fervore, a causa del ritardo subíto e delle tensioni confessionali, e furono soprattutto italiani a parteciparvi (fino alla chiusura, avvenuta il 6 gennaio 1551). Nondimeno, G. volle dare disposizioni per l'assistenza logistica ai pellegrini, in tutto lo Stato della Chiesa. A Roma, inoltre, si concentrarono nell'accoglienza ai devoti le iniziative di Filippo Neri (con la sua Confraternita della Ss. Trinità) e di Ignazio di Loyola, primi esempi di pratiche caritative peculiari della Chiesa postridentina.
Dal punto di vista politico, l'elezione di G. venne generalmente considerata un successo di Enrico II. Tuttavia, il neoeletto mostrò subito l'intenzione di non schierarsi, risoluto a mantenere la politica di equilibrio di Paolo III. Per questo, si circondò di personale da quegli già impiegato, come Girolamo Dandini e i cardinali Girolamo Capodiferro e Marcello Crescenzi. Accortamente, trovò altresì il modo di blandire i fautori di una radicale riforma della Curia (come i cardinali Gian Piero Carafa e Juan Alvárez de Toledo). Sotto la pressione dei rappresentanti imperiali, G. sottopose, nell'aprile 1550, la questione del concilio ai cardinali Gian Domenico de Cupis, Gian Piero Carafa, Giovanni Morone, Marcello Crescenzi, Reginald Pole, Marcello Cervini, che si pronunciarono a favore di una ripresa in Trento. Iniziarono contatti con i diplomatici accreditati in Corte di Roma e, in qualità di nunzi apostolici, furono inviati Sebastiano Pighino a Carlo V ed Antonio Trivulzio presso Enrico II. I risultati furono poco soddisfacenti: l'imperatore diede l'assenso, ma gettò pesanti ombre sulla capacità del concilio di risolvere i dissidi religiosi in Germania. Il re di Francia si mostrò apertamente contrario.
L'opposizione francese era eminentemente politica: Enrico II riscontrava infatti che ogni iniziativa di G. (compresa la restituzione di Parma ad Ottavio Farnese) andava a vantaggio del suo rivale, proprio mentre cercava di formare un vasto fronte antimperiale. Le perplessità di Carlo V erano invece dettate dalla situazione interna dell'Impero e da nette divergenze nella politica religiosa. Nondimeno, G. ruppe gli indugi: stese la bolla di convocazione (datata 14 novembre 1550 e fatta pubblicare il 1° gennaio 1551), disponendo la ripresa dei lavori in Trento a partire dal 1° maggio 1551.
Com'era prevedibile, la riapertura del concilio non incontrò il favore dei due maggiori sovrani. Carlo V dovette accettare non solo la conferma dei decreti già approvati (che annullava le speranze di un confronto dottrinario con i protestanti), ma anche una formale legittimazione della passata traslazione del sinodo in Bologna, cui si era violentemente opposto. La reazione di Enrico II fu ancora più aspra: prospettò infatti, a metà febbraio 1551, la convocazione di un concilio gallicano. I rapporti tra la Sede apostolica e la Francia sembravano degenerare negli stessi primi mesi del 1551, per le tensioni causate dalla questione di Parma.
G. aveva infatti restituito Parma ad Ottavio Farnese, compiendo passi presso Carlo V perché gli fosse resa anche Piacenza. Tuttavia, non era riuscito ad impedire che le persistenti mire imperiali sulle due città provocassero un deciso avvicinamento dei Farnese alla Francia. G. cercò di porre rimedio, tra la fine del 1550 e l'inizio del 1551, offrendo Camerino ad Ottavio, in cambio del ritorno di Parma alla Chiesa. Prospettò anche diverse soluzioni diplomatiche a Carlo V, ma senza esito. Nel gennaio 1551 la conclusione di una alleanza tra i Farnese e la Francia determinò un irrigidimento della posizione pontificia. Con un Monitorium penale (emanato l'11 aprile 1551), G. dichiarò il duca Ottavio reo di ribellione, accettò le offerte di assistenza militare degli Imperiali, giunse a prospettare la destituzione di Enrico II e l'investitura del Regno a Carlo V o a suo figlio Filippo. Non intendeva, tuttavia, abbandonare definitivamente le vie diplomatiche: inviò il nipote Ascanio della Cornia in Francia (alla fine dello stesso aprile 1551) e rinnovò le offerte ad Ottavio Farnese. Naufragati questi negoziati, il 22 maggio 1551, Ottavio fu dichiarato decaduto dal feudo e si iniziarono gli arruolamenti di truppe. Sembrava ancora che una guerra si potesse evitare: Enrico II si dichiarava pronto a rispettare le decisioni del duca di Parma; dal canto suo, Carlo V spingeva per una soluzione pacifica, non volendo essere accusato, mentre la Germania si mostrava inquieta, della violazione della pace di Crépy.
G. si trovava, a questo punto, in un vicolo cieco: aveva sperimentato nel 1527 le conseguenze di un aperto schieramento politico-militare di un pontefice. Ma i propositi di tenersi equidistante tra Francia e Impero e di riprendere il concilio lo costringevano ad atteggiamenti contraddittori: non poteva permettere - pena la fine dei lavori del sinodo generale - che si riaccendesse la guerra in Italia (com'era probabile se Ottavio Farnese, insediato in Parma, avesse stretto alleanza con i Francesi); non vedeva di buon occhio il rafforzamento delle posizioni in Italia dell'imperatore, la cui politica religiosa non condivideva; da ultimo, aveva bisogno del sostegno di Enrico II e di Carlo V per portare a termine i lavori del concilio.
Solo pochi dei contemporanei seppero giudicare appieno la complessità di questo contesto: più spesso G. venne tacciato di opportunismo, di ignavia, di comportamenti indegni della dignità rivestita (come, ad esempio, la passione per il gioco d'azzardo) e di debolezza a vantaggio dei suoi familiari. È pur vero che gravava sulla sua credibilità la nomina a cardinale (il 30 maggio 1550) di Innocenzo del Monte, il suo favorito (fatto adottare al fratello Baldovino) privo di una minima vocazione alla vita ecclesiastica.
Nel giugno 1551 iniziò la guerra: a Ferrante Gonzaga, governatore di Milano (nominato poco dopo capitano generale di Santa Chiesa) fu ordinato di muovere contro Parma; pochi giorni dopo, le truppe francesi e farnesiane fecero irruzione nel Bolognese. G. si preoccupò, in questa fase, di limitare per quanto possibile le spese e di proteggere i confini dello Stato eccelsiastico. Il piano d'azione concordato prevedeva invece che il Gonzaga attaccasse Parma e le truppe papali si concentrassero nell'assedio della piazzaforte di Mirandola. Le relazioni diplomatiche franco-pontificie si interruppero bruscamente: Enrico II richiamò da Roma l'ambasciatore, i cardinali e i prelati francesi. Il 7 luglio 1551 Paul de Labarthe de Thermes in Concistoro espresse una formale protesta ed il 4 agosto il nunzio Antonio Trivulzio venne aspramente congedato. Rapporti tanto tesi determinarono l'assenza di vescovi, abati e teologi francesi alla riapertura del concilio. Nei primi mesi del 1551 erano infatti continuati i preparativi e ne era stata nominata la presidenza (il cardinal legato M. Crescenzi, l'arcivescovo S. Pighino, il vescovo A. Lippomanni). La sessione inaugurale (scarsamente frequentata) si era tenuta il 1° maggio 1551 e si era stabilito che i lavori sarebbero ripresi il 1° settembre seguente.
La guerra combattuta sotto Parma e Mirandola faceva invece temere uno scisma: a metà agosto 1551, Enrico II valutò l'ipotesi della creazione di un patriarcato gallicano e poco dopo vietò l'invio a Roma di rendite ecclesiastiche. Indirizzò altresì ai prelati riuniti in Trento una lettera (letta il 1° settembre 1551 dall'abate Jacques Amyot), nella quale accusava G. di aver provocato lo stato di guerra, allontanando i prelati francesi dal sinodo. A Trento si reagì duramente, ma fu G. ad incaricarsi della risposta: rammentava che il concilio era legittimamente convocato e rappresentava la Chiesa universale, che una guerra come quella per Parma (la punizione di un vassallo ribelle da parte del suo sovrano) non poteva scusare l'assenza dei Francesi dal concilio, che a costoro, peraltro, sarebbe stata data ogni garanzia di sicurezza. Enrico II moderò il proprio atteggiamento, avendo constatato che l'ipotesi di scisma non incontrava alcun favore nel Regno.
Nei mesi di settembre e ottobre 1551 il sinodo generale dibatté sull'eucarestia (elaborando la dottrina della transustanziazione). Particolarmente povero fu, invece, il dibattito sulla riforma della Chiesa: l'assemblea si limitò ad esaminare e a votare in fretta un decreto presentato da Crescenzi sulla giurisdizione dei vescovi sui chierici loro sottoposti. Il 10 ottobre una Congregazione generale approvò altresì un salvacondotto per i protestanti che intendessero recarsi al concilio per sottoporre al suo giudizio i loro articoli di fede. Si stabilì, quindi, che nella sessione successiva (il 25 novembre 1551) si sarebbero votati decreti riguardanti i sacramenti della penitenza e della unzione degli infermi, provocando le proteste dei prelati spagnoli e tedeschi che vedevano allontanarsi la discussione sui temi di riforma della Chiesa. Il clima si fece più difficile con la creazione cardinalizia del novembre 1551: solo due dei nuovi porporati erano stati indicati da Carlo V; invece, G. conferì il berretto ad alcuni esperti membri della Corte di Roma (come Alessandro Campeggi, Giovanni Ricci e il filofrancese Girolamo Dandini), oltre a prelati graditi alla Serenissima e a suoi familiari come Cristoforo del Monte e Fulvio della Cornia.
Alla fine del 1551, obiettivo della politica pontificia era, anzi tutto, la ricomposizione dei contrasti con la Francia. La guerra sotto Parma si era trascinata senza episodi rilevanti per tutta l'estate del 1551, ma con ingenti spese; lo Stato della Chiesa era esposto al rischio di incursioni da parte dei Francesi o dei Turchi (loro alleati) e si temevano persino rivolte in Romagna. L'unico risultato rimasto era l'occupazione, da parte pontificia, del Ducato farnesiano di Castro. Dopo l'attacco francese alle posizioni imperiali in Piemonte, G. si rese conto che Carlo V non avrebbe impegnato troppe energie nella conquista di Parma: così, nell'ottobre 1551, inviò in Francia Girolamo Veralli con offerte di pace. Fu una missione infruttuosa, confortata solo dalla constatazione che l'eventualità di uno scisma gallicano era tramontata. Doveva invece avere pieno successo l'azione diplomatica del cardinal François de Tournon, arrivato a Roma all'inizio di febbraio 1552: chiese un armistizio che lasciasse ai Farnese Parma e Castro, offrendo in cambio l'adesione di Enrico II alla politica religiosa di Giulio III. Le trattative furono condizionate dal fiacco andamento delle operazioni sotto Parma e Mirandola, nelle quali, nondimeno, aveva perso la vita il nipote del papa, Giovan Battista del Monte. Così, il 29 aprile 1552, si giunse ad un accordo, sostanzialmente alle condizioni francesi.
Pesarono sulla decisione di G. anche i rovesci subiti dal concilio negli stessi giorni. Alla fine di novembre 1551 (quando l'assemblea si era concentrata sui sacramenti della penitenza e dell'unzione degli infermi e su aspetti secondari della riforma della Chiesa), erano presenti in Trento due delegazioni protestanti. La successiva sessione avrebbe dovuto occuparsi del sacramento dell'ordine e della messa. Tuttavia, nel gennaio 1552, l'attenzione si era spostata sul problema dell'ammissione ai lavori dei riformati. Le loro delegazioni avevano dapprima tentato di ottenere il diritto di voto; poi si erano accontentate della possibilità di fare proposte e di trattare qualunque argomento con gli incaricati del concilio. Il legato Crescenzi aveva effettivamente offerto spazi per una discussione sulle dottrine controverse, differendo sino al marzo successivo la pubblicazione dei decreti già pronti e le deliberazioni circa la comunione "sub utraque". Aveva, in questo modo, non solo favorito i protestanti, che stavano aspettando l'arrivo delle commissioni di teologi, ma anche provocato una prolungata interruzione dei dibattiti. L'inizio delle operazioni militari contro Carlo V di Enrico II, Maurizio di Sassonia e altri principi tedeschi (alla metà di marzo 1552) aveva ulteriormente compromesso le sorti dell'assemblea. G. si era così risolto, nella seconda metà di aprile 1552, alla sospensione del concilio, con il tacito consenso dell'imperatore. Sembrò aprirsi una nuova fase: la fine dei lavori conciliari e della guerra di Parma fece credere ad Enrico II che G. lo avrebbe apertamente sostenuto, per coalizzare i principi italiani in un esteso fronte antiasburgico. In effetti, nell'estate 1552, vi furono intensi contatti tra la Santa Sede e la Francia. Forse impressionato dal momento di difficoltà politico-militare di Carlo V, G. dapprima blandì le offerte francesi. Poi si limitò all'obiettivo di ristabilire amichevoli relazioni, con l'invio di Prospero Santacroce come nunzio ordinario, fra i cui compiti era quello di spronare alla conclusione di una pace con Carlo V. Nello stesso luglio 1552 fu data istruzione al nunzio straordinario presso l'imperatore, Achille de' Grassi, di tranquillizzarlo circa la politica pontificia e di favorire un accordo con i ribelli tedeschi. G. non immaginava che il trattato concluso a Passau (2 agosto 1552) avrebbe sostanzialmente garantito ai protestanti l'esercizio della propria confessione.
Il contesto internazionale fu aggravato dalla rivolta di Siena (fine di luglio 1552), dalla quale era stato cacciato il presidio spagnolo. G. partecipò alle prime trattative e garantì per il patto raggiunto all'inizio di agosto 1552, che sanciva l'indipendenza della città. Tentò di evitare che la Repubblica si affidasse militarmente ai Francesi: dapprima offrì la presenza di una guarnigione pontificia; poi, inviò in Siena come legato "a latere" il cardinale F. Mignanelli. La missione fallì: i soldati francesi rimasero a presidiare la città, mentre le proposte di riforma istituzionale non approdarono a nulla. Così, il 1° ottobre 1552, Mignanelli fu richiamato a Roma. Erano poste le basi perché la questione senese degenerasse in un aperto conflitto. Nell'autunno 1552 G., insieme ad una commissione cardinalizia ad hoc (formata da Gian Domenico de Cupis, Marcello Cervini, Pedro Pacheco, Bernardino Maffei), tentò di raggiungere un'intesa politica con la Repubblica di Venezia e il duca di Firenze, Cosimo de' Medici, che garantisse la neutralità della Repubblica di Siena. Dalla fine del 1552 G. sembrò sostenere sempre più le ragioni di Carlo V e giunse a consigliare ai Senesi la sottomissione. Dal momento che il progetto di far entrare Siena in una estesa zona neutrale nel centro Italia non era realizzabile, G. considerava una veloce esecuzione del piano imperiale contro la città l'alternativa meno rovinosa. Non intendeva, però, sbilanciarsi troppo a favore dell'imperatore: i rappresentanti francesi chiesero ed ottennero dimostrazioni di neutralità ed equidistanza della Santa Sede.
Il ritorno di G. ad una posizione più equilibrata, all'inizio del 1553, fu probabilmente dovuto agli insuccessi Oltralpe di Carlo V, costretto ad abbandonare l'assedio di Metz. I contemporanei giudicarono di nuovo incerta ed oscillante la condotta di G.: in realtà, perseverava nella politica inaugurata nella primavera del 1552, pronto a blandire il sovrano più potente, e a fornire al più debole minimi appoggi, non impegnandosi in alcuna formale alleanza. Semmai, il timore che il Regno di Napoli subisse un'invasione dei Turchi, alleati dei Francesi, costituiva per G. una ragione di preferenza per una veloce chiusura della questione senese. La guerra iniziò verso la fine dello stesso gennaio 1553. Alla fine del marzo successivo, G. esplorò ancora, ma senza esito, le possibilità di arrivare alla pace, offrendosi garante della indipendenza di Siena. In aprile inviò come legati "a latere" G. Dandini e G. Capodiferro, rispettivamente a Carlo V ed Enrico II. Ma le due missioni riuscirono un completo fallimento. Dopo l'insuccesso di nuovi negoziati condotti a Siena e a Firenze, G. decise di assumersi il peso della trattativa, recandosi, il 5 giugno, a Viterbo. Vi trovò i rappresentanti dei Senesi, dei Francesi e degli Imperiali, con i quali si spostò a Bagnaia. La proposta di una tregua di un mese non fu accettata da Francesi e Senesi, che contavano di approfittare degli insuccessi militari degli assedianti. G. fu costretto a rientrare a Roma il 19 giugno 1553. Il naufragio di questa iniziativa personale portò G. a ripercorrere strade già battute: ai primi di agosto 1553, intavolò nuove trattative preliminari di pace, ma senza esito. I legati Dandini e Capodiferro avevano continuato a chiedere una pace immediata, sulla base dello status quo, ma gli spazi di manovra si erano chiusi, poiché la guerra tra Francia e Impero si era riaccesa con violenza anche nei Paesi Bassi, in Lorena, nel Mediterraneo: così, furono richiamati a Roma.
L'attenzione di G. si era nel contempo spostata sull'Inghilterra, dove, nel luglio 1553, era succeduta al trono Maria Tudor che, educata cattolicamente, faceva sperare nella fine dello scisma anglicano. Appena ricevuta la notizia, G. aveva nominato il cardinal Pole legato apostolico e questi partì il 29 settembre 1553. Il progetto di una rapida riunione dell'Inghilterra alla Chiesa romana doveva, nondimeno, scontrarsi con le diffidenze del Parlamento inglese, le resistenze di ampi strati della società e soprattutto con l'ambizioso disegno della diplomazia imperiale di un'unione dinastica (il matrimonio di Maria Tudor con Filippo d'Asburgo), in funzione eminentemente antifrancese. Così, già alla fine di ottobre 1553, Carlo V rese noto al Pole di non ritenere tempestiva la sua missione, adducendo il rischio di rivolte, e inopportuno che egli, come gli era stato commissionato da Roma, tentasse nuove mediazioni di pace, a poche settimane dal fallimento delle legazioni dei cardinali Dandini e Capodiferro. G. reagì difendendo solo l'opportunità di esplorare ogni via per far cessare la guerra in Europa; cedette invece sulla questione inglese, comunicando al legato di assecondare gli indirizzi politici di Carlo V e di attendere che maturasse in Inghilterra un clima più favorevole. Pole rimase dunque bloccato a Dillingen e solo dopo la conclusione del contratto matrimoniale (nel gennaio 1554) raggiunse la corte imperiale a Bruxelles, ma ne registrò presto l'ostilità. Il quadro si complicò per l'inizio in Inghilterra di una estesa rivolta (guidata da Thomas Wyatt), che il legato - personalmente contrario all'insediamento di Filippo d'Asburgo sul trono - aveva già da tempo previsto. Nella successiva primavera Pole si spostò presso Enrico II, ma non ottenne speranze di arrivare ad una pace. Sconfitti i ribelli inglesi, il 25 luglio 1554 fu celebrato il matrimonio al quale il Pole non poté presenziare. Il legato chiese di essere richiamato, ma G. lo fece restare nelle Fiandre fino alla fine di novembre 1554, quando poté recarsi in Inghilterra. Nonostante la Sede apostolica avesse rinunciato al recupero dei beni ecclesiastici e al perseguimento delle violazioni alla legge canonica perpetrate durante lo scisma, a Roma fu un momento di grande euforia: G. ordinò giornate di festeggiamenti. Poco dopo incaricò il cardinale G. Morone di una missione di pacificazione religiosa della Germania (poi non portata a compimento), presso la Dieta di Augusta.
Restavano nondimeno assai flebili le speranze di pace: nel 1554, infatti, la guerra in Italia e in Piccardia si era riaccesa; le operazioni militari contro Siena erano guidate da Cosimo de' Medici, accordatosi con Carlo V. G. cercò di mantenersi equidistante. Riprese i tentativi di mediazione dopo la sconfitta di Francesi e Senesi a Marciano (2 agosto 1554). Sebastiano Gualterio, inviato in Francia, trovò un clima di forte diffidenza, tanto che G. si dichiarò disposto, per ottenere la pace, a recarsi a Siena. Seguirono altri negoziati fra il 1554 e il 1555. Ma di fronte alle evidenti intenzioni dei Francesi di continuare a combattere, cessò ogni sforzo. Lo stato di guerra in Italia e in Europa ebbe ripercussioni anche sui progetti di riforma concepiti a Roma. Fin dal febbraio 1551 era stata nominata una commissione cardinalizia che si occupasse della Dataria e della Segnatura. Dopo la sospensione del concilio, l'azione aveva preso maggiore respiro. Lo stesso G., nel Concistoro del 16 settembre 1552, aveva esposto in dettaglio gli obiettivi: nuove regole per il conclave, per impedire indebite ingerenze da parte dei prìncipi; obbligo ai cardinali di visitare la propria diocesi e divieto di accettare in commenda benefici con cura d'anime; rigorosi criteri per l'assunzione alla dignità episcopale; rispetto dell'obbligo di residenza dei vescovi; limiti al conferimento di benefici ecclesiastici; rigidi requisiti per i candidati a ricevere gli ordini sacri; profonde innovazioni nella Dataria e nella Penitenzieria. I rappresentanti di Carlo V si erano duramente opposti al progetto, alternativo alla ripresa del concilio generale. Invece, nell'inverno 1552-1553, la commissione (della quale facevano parte i cardinali Carafa, Cervini, Pole, Toledo, Morone, Veralli, Crescenzi) affrontò gran parte di questi temi e i risultati, nell'aprile 1553, vennero sottoposti al Concistoro. Seguì una pausa, dettata dal concitato contesto internazionale. Solo verso la fine dell'anno, G. iniziò a preparare un'organica bolla di riforma, che lo impegnò sino al febbraio 1554.
Il documento (intitolato Varietas temporum e formato da centocinquanta capitoli) raccoglieva gran parte delle proposte emerse, integrate con i decreti emanati dal concilio di Trento: prendeva le mosse da definizioni generali riguardanti il ruolo nella Chiesa del papa e dei cardinali, vietava il cumulo delle diocesi, sanciva l'obbligo di residenza, riformava i criteri di ammissione allo stato clericale e di conferimento dei benefici ecclesiastici, definiva l'autorità dei vescovi, limitava la concessione di grazie e dispense, disciplinava la vita del clero regolare, chiariva gli usi leciti della Sacra Scrittura ed emendava la predicazione e l'istruzione religiosa; da ultimo, condannava gli abusi delle autorità civili sulla giurisdizione ecclesiastica. Questa bolla fu presentata come una raccolta di temi da sottoporre al futuro concilio, ma di fatto si sostituiva al sinodo generale, tanto che suscitò forti malumori fra i sovrani cattolici. Per questi motivi forse non fu pubblicata, come era previsto, nella primavera 1554. Nella seconda metà dell'anno, i cardinali si pronunciarono sulle prime parti del provvedimento, ma prima che ne completassero l'esame, G. il 23 marzo 1555, morì.
La ripresa del concilio a Trento e i progetti di riforma elaborati a Roma non esauriscono la politica religiosa di Giulio III. Rivolse la sua attenzione agli Ordini religiosi in prima linea nella ripresa cattolica: accrebbe i privilegi dei Barnabiti (1550), confermò quelli dei Teatini (1551), approvò la riforma degli Agostiniani (1551). In particolare, sembrò favorire la Compagnia di Gesù, istituita da pochi anni: confermò l'Ordine (con bolla del 21 luglio 1550) e ne ampliò i privilegi (il 22 ottobre 1552), difendendoli dall'ostilità delle autorità episcopali in Spagna. Per i Gesuiti, eresse nell'agosto 1552 il Collegio Germanico in Roma. G. incoraggiò, inoltre, la evangelizzazione del Nuovo Mondo: agevolò (con breve del 20 luglio 1554) le partenze di regolari per le missioni e fondò le nuove diocesi di La Plata e San Salvador (rispettivamente, nella odierna Bolivia e in Brasile). Diresse sforzi anche verso Oriente, riuscendo a riunire alla Sede apostolica i nestoriani fedeli al "katholikòs" Simeone VIII Sullaqa, creato nel 1553 patriarca di Mossul. Sostenne, infine, la repressione delle idee riformate in Italia difendendo ed ampliando la giurisdizione del tribunale dell'Inquisizione e colpendo la diffusione per mezzo della stampa delle dottrine "eretiche". Procurò, nondimeno, "che non si dovesse ricever dispositione alcuna nel Santo Officio contra cardinali o altri prelati superiori [...] senza farlo sapere prima" (deposizione, datata 1558, di Girolamo Muzzarelli, maestro di Sacro Palazzo di G., in M. Firpo, p. 219). L'Inquisizione si mostrava infatti particolarmente sollecita nel verificare ambigue opinioni in materia di fede dei cardinali Pole e Morone e nel procedere contro le posizioni fortemente sospette di alti prelati come il vescovo di Bergamo Vittore Soranzo o il patriarca di Aquileia Giovanni Grimani. G. garantì personalmente circa l'ortodossia dei due porporati, che stimava i candidati più idonei per condurre una politica di conciliazione religiosa di respiro europeo, e fece in modo di risolvere in maniera sostanzialmente extragiudiziale diverse altre vicende. Sembra che addirittura conservasse nella propria camera da letto una cassetta contenente numerosi fascicoli relativi a procedimenti inquisitoriali in corso.
Quanto al governo dello Stato della Chiesa, G. aveva visibilmente mitigato i tratti maggiormente conflittuali della politica del predecessore, adottando innanzitutto una linea piuttosto morbida nei confronti del baronaggio (ceto nel quale, con la creazione del Marchesato di Castiglione del Lago, aveva introdotto un ramo dei propri consanguinei, i della Cornia). Altrettanto flessibile si era dimostrato nel governo delle principali città (innanzi tutto Bologna e Perugia), con il largo coinvolgimento dei locali ceti dirigenti. Solo nella capitale era stata rafforzata l'autorità dei rappresentanti pontifici, il governatore di Roma e quello di Borgo. Persino nella riforma dello "Studium Urbis" (nel 1552-1553) era apparso evidente il disegno di limitare le prerogative della municipalità romana. D'altro canto, alcuni provvedimenti avevano cercato di costruire una larga base di consenso fra i sudditi: era stata abolita l'imposta sul macinato a Roma, mentre cospicue risorse erano state investite nell'approvvigionamento frumentario; nelle province, era stata soppressa la "tassa dei cavalli", destinata al pagamento dei corpi di cavalleria. Il continuo incremento delle uscite aveva, nondimeno, obbligato G. ad alternare misure consolidate (come l'aumento della pressione fiscale) a decise innovazioni di politica finanziaria. Nel 1550 era stato istituito il "Monte Giulio", un prestito pubblico di 150.000 scudi di capitale, premiato con interessi al 12% e garantito dalle entrate delle dogane di Roma. Alla fine del 1551, era stata reintrodotta la "tassa dei cavalli" e nel 1552 a Roma quella sul macinato (anche se con aliquote più basse), impiegata tuttavia principalmente a garanzia di un nuovo prestito pubblico (di 100.000 scudi, con interessi al 10%), il "Monte della Farina". Infine, nel 1552-1553, G. aveva imposto una nuova tassa, il "quattrino della carne". L'esigenza di potenziare le entrate dell'erario nasceva in G. anche da cospicue spese causate dal suo mecenatismo: durante tutto il regno fece rappresentare commedie in Castel S. Angelo e in Vaticano (tra cui i Menecmi e l'Aulularia di Plauto, l'Eunuco di Terenzio, la Cassaria di Ariosto); garantì protezione a letterati come P. Giovio e P. Aretino (anche se al di sotto delle aspettative di entrambi), patrocinò gli esordi come compositore di G.P. da Palestrina. Soprattutto, si distinse nel patronage artistico.
Appena eletto, commissionò un complesso "apparatus" per la cerimonia di incoronazione (formato da archi decorati, stucchi, fregi ed altre opere effimere): vi lavorarono, fra gli altri, B. Ammannati, T. Zuccari e F. Salviati. Quindi, dalla fine del 1550, dopo aver assegnato l'abituale residenza romana (sul sito dell'odierno palazzo Braschi) a Giovan Battista del Monte, si concentrò su progetti che dovevano assicurare lustro al proprio lignaggio. Decise la risistemazione della "vigna" di Roma, fuori della porta del Popolo (acquistata nel 1519). Secondo quanto riporta G. Vasari, che intorno al 1548 si era occupato di palazzo del Monte a Monte San Savino, fu opera propria il primo disegno della futura villa Giulia, poi rivisto dal Buonarroti. Infatti, dal febbraio 1551, G. aveva iniziato ad acquistare una serie di terreni confinanti con i suoi giardini, pensando di dividere l'area in due parti: una per lo sfruttamento agricolo; una occupata da una villa, luogo di svago. Diversi progetti si susseguirono tra l'inizio del 1551 e la fine del 1552. Ai primi disegni del Vasari si aggiunsero i progetti dell'Ammannati e di J. Barozzi da Vignola: preponderante il ruolo del primo, che prese in mano la direzione dei lavori, concentrati dapprima sul Casino, quindi sul Ninfeo (comprendente la fontana dell'Acqua Vergine) e sulla Loggia (progettata dallo stesso Ammannati). Realizzarono le decorazioni pittoriche (con grottesche e soggetti in prevalenza mitologici) P. Fontana, P. Venale e T. Zuccari. La principale attrazione del complesso, dove G. si intratteneva non di rado (talvolta allietato da buffoni di corte), era costituita da una collezione di statue e copie di busti di soggetto antico (divinità classiche, consoli ed imperatori romani), con ricco impiego di marmi preziosi. Si trattava insomma di una "villa all'antica", che suscitò l'entusiasmo dei contemporanei. G. concepì progetti ancora più ambiziosi, ispirandosi al modello del patronage farnesiano. Ipotizzò la trasformazione del mausoleo di Augusto in palazzo: ma l'idea fu presto abbandonata. Quella parte del rione romano di Campo Marzio gli interessava particolarmente: riprese il progetto dell'apertura della "via Trinitatis", già concepito da Paolo III, che doveva congiungere la collina del Pincio al Tevere. In più, acquistò nella zona le residenze e le proprietà dalla famiglia Cardelli. L'obiettivo era di costruire un palazzo per il fratello Baldovino e uno per il nipote Fabiano, collegandoli attraverso un giardino porticato: nell'autunno 1552 il proposito prese corpo. B. Ammannati iniziò i lavori al palazzo ex Cardelli (poi passato ai Medici e denominato "palazzo di Firenze"): allargò il cortile, spostò l'asse dell'atrio, costruì il cosiddetto "palazzetto", prolungò il lato esterno. Vi furono quindi fatti eseguire affreschi attribuiti a P. Tibaldi, T. Zuccari, P. Fontana. Il palazzo di Fabiano, che, progettato da Ammannati, avrebbe dovuto affacciarsi sulla "via Trinitatis", non superò invece lo stadio iniziale. Anche altri interventi di G. furono rivolti alla manifestazione del potere familiare: in Monte San Savino fece riprendere i lavori per la costruzione di un palazzo di famiglia. In S. Pietro in Montorio eresse (intorno al 1552) la cappella del Monte, commissionò al Vasari il disegno (ritoccato probabilmente da Michelangelo) delle tombe di famiglia e fece eseguire dall'Ammannati le statue che le adornavano. Infine commissionò a Michelangelo il progetto per l'edificazione delle tombe dei suoi parenti in S. Giovanni dei Fiorentini, a testimonianza di una forte aspirazione all'ingresso dei propri consanguinei - ai livelli più alti - nell'aristocrazia legata ai Medici.
Si trattò insomma di una committenza rivolta quasi esclusivamente al consolidamento della posizione raggiunta dai del Monte. G., infatti, il 27 novembre 1553 donò a Baldovino e ai suoi discendenti il palazzo ex Cardelli e la villa Giulia. Limitato fu invece il patronage artistico-religioso, nel quale si possono ricondurre solo a fatica i progetti di Michelangelo per il cortile del Belvedere in Vaticano. Anche la chiesa di S. Andrea sulla via Flaminia, costruita nel 1552-1553 su progetto del Vignola (e decorata da P. Tibaldi e da G. Siciolante detto il Sermoneta), dev'essere considerata più una cappella privata - eretta in forme classiche - dedicata ad un santo cui era particolarmente devoto, che un edificio per il culto pubblico. Persino per la decorazione di alcune nicchie delle Logge dei Palazzi Vaticani (ad opera di Daniele da Volterra), i motivi prescelti - paesaggi - richiamavano l'amore di G. per la caccia e la vita campestre.
Altre committenze rispondevano ad esigenze di propaganda politica: la "Fontana Publica" eretta sulla stessa via Flaminia era ornata da statue e motivi che rendevano omaggio agli sforzi di G. per assicurare alla zona approvvigionamento idrico. Nelle medaglie ricorrono simili temi esaltanti la prosperità pubblica, accanto ad altri (soprattutto dopo il 1551) che evocano il grave peso di responsabilità sostenuto in un contesto internazionale sfavorevole. Da ricordare, infine, ricorrenti scelte iconografiche dettate da assonanze onomastiche: il tema del "Monte" e i riferimenti al più celebre "Iulius" (Gaio Giulio Cesare). A questo riguardo, G. si avvalse dell'opera e della consulenza del letterato Anton Francesco Rainerio, che in più opere celebrò le gesta del pontificato.
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