Paolo III
Terzogenito - prima di lui sono nati Angelo e Girolama; dopo di lui nasceranno Beatrice e Giulia - di Pierluigi di Ranuccio Farnese e di Giovannella figlia del signore di Sermoneta Onorato Caetani, nasce a Canino, feudo di famiglia nel Viterbese, il 28 febbraio 1468, venendo battezzato col nome di Alessandro. Già elemento propulsivo nell'affermazione farnesiana il nonno paterno del futuro pontefice. E ulteriore spinta dinamica, nel 1463, il matrimonio - a combinare il quale s'è adoperato il patriarca d'Aquileia cardinale Ludovico Scarampi Mezzarota, amico del nonno materno - dei genitori: ancor perimetrata attorno al lago di Bolsena, la presenza farnesiana, coll'imparentamento con una famiglia aristocratica romana sciorinante il lustro di cardinali e vantante un papa della stazza di Bonifacio VIII, può volgere lo sguardo dalla periferia al centro, dai feudi a Roma. Militari per tradizione i Farnese: condottiero di vaglia Ranuccio, uomo d'armi pure Pierluigi e avviato alle armi anche Angelo, il suo primogenito. Né inidoneo alla milizia lo stesso futuro papa, per quel tanto che è lecito desumere dalla sua precoce passione per caccia e cavalli. Ma subito destinato nella strategia ascensionale della famiglia - a disegnare la quale è la madre, donna energica e volitiva, quella che più decide - alla carriera ecclesiastica; e suggerimenti in tal senso vengono dallo zio materno di Farnese, il protonotario apostolico Jacopo Caetani. Donde l'accurata istruzione di netta impronta umanistica - e questa segnerà per sempre il futuro del papa: scriverà elegantissime lettere in latino, si diletterà di comporre in greco; proteggerà i letterati; attingerà con disinvoltura al repertorio iconografico antico, alla mitologia pagana, infioretterà di classiche sentenze il suo dire - del fanciullo affidata a Giulio Pomponio Leto, ancorché a suo tempo incorso nelle ire di Paolo II, ancorché già sospetto di vagheggiamenti paganeggianti. Una scelta pagante questa dello studio. Ché un breve papale del 4 febbraio 1482, ove è chiamato "magister", designa Farnese scrittore apostolico. È già un riconoscimento ed è un ingresso nel mondo curiale. Ma intercettato quest'avvio promettente dal conflitto tra Innocenzo VIII e Ferrante d'Aragona: se il padre di Farnese, Pierluigi, resta in disparte, il fratello Angelo partecipa all'attacco sferrato contro Viterbo dalle truppe antipontificie capeggiate da Gentile Virginio Orsini. E, anche se la città non viene conquistata, c'è, a ritorsione, il saccheggio del territorio circostante. Per fortuna di Farnese, comunque, Angelo si lascia convincere dallo zio materno - il signore di Sermoneta Nicola Caetani che, invece, col papa è rimasto - ad abbandonare la sorte degli Orsini e a recuperare il favore papale. Muore, intanto, dopo aver designato - nel testamento del 12 dicembre 1485 - eredi i due figli maschi, il padre Pierluigi. E, intanto, anche acquartierate nei feudi farnesiani le truppe pontificie quivi attaccate dagli Orsini, che, fiancheggiati da Gian Giacomo Trivulzio, devastano Castro, Farnese e Canino. Quanto a Farnese, la veste di scrittore apostolico non lo protegge più che tanto. Il papa lo fa incarcerare a Castel S. Angelo. A detta di Benvenuto Cellini - ma si tratta di malignità scarsamente attendibile - il giovinetto avrebbe falsificato un breve. Ipotesi più fondata quella d'un incarceramento adoperato come pressione sulla tentennante fedeltà di Angelo designato, con un breve del 13 febbraio 1486, signore di Marta, villaggio sul lago di Bolsena. E condizionata, nel breve disponente la carcerazione di Farnese, la sua liberazione dalla restituzione di libertà di movimenti alla madre sicché "libere" fissi la propria residenza dove più le aggrada. In realtà non risulta che questa - donna di carattere, capace di gestire direttamente l'allevamento degli ovini, capace di disobbedire ad un'ingiunzione papale del novembre del 1487 da lei pretendente la restituzione d'una serva mora presso di lei riparata - sia stata in qualche modo impedita nelle sue mosse. Per quel che par di capire è semmai Innocenzo VIII a volerla bloccata nel palazzo farnesiano di Viterbo. Questa è sotto controllo pontificio. In mano pontificia, quindi, Giovannella, forse già vedova di Pierluigi Farnese. E ricattabile, così, Angelo, qualora mediti mosse a danno del pontefice. E un ricatto anche il carcere pel fratello, sempre che questo non lo stia saggiando perché - così almeno un'altra versione dell'episodio - l'ha sollecitato la stessa madre a domarne l'indole riottosa alla disciplina dello stato di chierico impostogli, appunto, da lei, a dispetto della sua volontà. Certo che l'episodio resta oscuro. Troppe versioni interferiscono inconciliabili. Di sicuro c'è che il giovinetto per un po' sta in prigione. E pure sicuro che ne scappa. Cellini lo farà calare da una cesta. E al marchese di Massa Alberico I Cibo, un discendente d'Innocenzo VIII, ci sarà chi - Francesco Maria Cibo - scriverà, il 22 novembre 1558, una lettera nella quale condenserà le chiacchiere più infamanti. A suo dire il carcere sarebbe stato comminato al ragazzo "meritamente": avrebbe tentato d'avvelenare la madre ed un non meglio precisato "nipote" (e, forse - ma se così è, confonde i tempi - in questo modo allude a Federico Farnese, figlio di Ranuccio, cugino del futuro papa, i cui feudi, per successione testamentaria, saranno incamerati da Farnese nel 1507) per agguantare la "loro robba". E lunga, sempre a detta dello scrivente, sarebbe stata la detenzione. Donde - è sempre Francesco Maria Cibo ad asserirlo - il rancore vendicativo animante P. a perseguitare "casa Cibo [...] iniquamente". E, a suo modo, una volta morto quello, anche Francesco Maria Cibo si vendica facendolo stare in carcere per un bel pezzo per disposizione dell'avo anch'egli papa. Certo, anche, che il ragazzo Farnese rinchiuso sta per poco e che non attende un regolare ordine di scarcerazione d'Innocenzo VIII. Fugge fortunosamente il 25 maggio 1486, approfittando della solenne celebrazione del Corpus Domini, delle relative feste, del relativo attenuarsi della sorveglianza. Si cala a forza di braccia con una corda. Una felice evasione agevolata da Paolo Margani - suo zio acquisito: è il marito di Jacopella Caetani, sorella di sua madre. In terra pontificia ora non si sente sicuro. Ed ecco, allora, che, il 1° luglio, si porta a Firenze. Qui risiede la sorella Girolama, andata sposa, ancora nel 1483, a Puccio Pucci, uomo vicino a Lorenzo de' Medici e in grado di presentarlo a questi, al soldo del quale, d'altronde, suo cugino, Ranuccio Farnese, ha già militato ed è in procinto di militare nuovamente. E preso in simpatia da Lorenzo de' Medici lo stesso Alessandro Farnese, sicché, da lui tutelato, indirizza, il 21 settembre, una supplica al papa, dalla quale s'evince - e non poteva essere altrimenti - che ha già rinunciato, prima d'esserne destituito, all'ufficio di scrittore apostolico. Proficuo, in compenso, per la sua maturazione culturale il soggiorno toscano, durante il quale respira l'atmosfera umanisticamente raffinata della corte medicea, perfeziona la conoscenza del greco sotto la guida di Demetrio Calcondila, allora docente nello Studio fiorentino, e ha modo di frequentare l'Ateneo pisano. Nel frattempo rientra il contrasto tra Lorenzo de' Medici e Innocenzo VIII. E consolidata la riappacificazione dalle nozze, per procura, del 25 febbraio 1487, di Maddalena, figlia di quello, con Francesco detto Franceschetto, per via della bassa statura, Cibo, figlio naturale di questo, e vieppiù confermata, il 9 marzo 1489, dal conferimento della porpora cardinalizia al secondogenito di Lorenzo, Giovanni de' Medici, il futuro Leone X. Un riaccostamento che avvantaggia anche le sorti di Farnese, ché Lorenzo scrive, il 4 aprile 1489 e di nuovo il 10, al proprio rappresentante presso la Santa Sede, Giovanni Lanfredini, di raccomandarlo, nei termini più lusinghieri, al papa. Farnese - così il principe mediceo - è "persona docta et molto gentile", è ferrato nelle "lettere greche", è, quindi, "doctissimo", nonché, assicura, "exemplo di buona et laudabile vita". Più che meritevole, dunque, nel perorare di Lorenzo il Giovane, d'un qualche ufficio della Segreteria apostolica accompagnato, nel contempo, dalla dispensa del "portar l'abito", ossia il "rocchetto", la sopravveste di lino bianco, la quale - spiega lo stesso - "li dà noia". È evidente: Farnese vuole sì riprendere la carriera curiale, ma è palesemente allergico a quel che "l'abito" comporta. E, tramite il Magnifico, che, comprendendo le sue ragioni, se ne fa autorevole portavoce, fa presente sin arrogantemente questa pretesa. Certo che al giovane, così calorosamente patrocinato dal consuocero, il papa non può serbare rancore o, quanto meno, non può manifestarlo. E quello non ha più di che temere. Sicché, in giugno, lascia Firenze e si porta a Capodimonte, nel castello di famiglia. E l'anno dopo, il 16 agosto 1490, ottiene l'ufficio di segretario e lo riottiene nel giugno del 1491. E può alonarlo di un prestigio culturale: è uno dei tre interlocutori cui vengono messe in bocca enunciazioni di rilievo nel De hominibus doctis dialogus, del 1490-1491 circa, di Paolo Cortesi - il campione del ciceronianismo - ambientato, appunto, nel possedimento farnesiano dell'isola Bisentina sul lago di Bolsena; smilzo il suo carteggiare in cesellato latino, epperò attestante rapporti con Alessandro e Paolo Cortesi, Pomponio Leto, Giorgio Merula, Guglielmo Raimondo Moncada, Scipione Forteguerri detto il Carteromaco, Nannio ossia Nanni da Viterbo, Bartolomeo Scala, Antonio Sulpizio di Veroli, Augusto Valdo. E c'è pure Ermolao Barbaro, il cui pronipote Daniele non mancherà di dedicare a lui papa l'Epitome librorum Aristotelis ethicorum (Venetiis 1544) di quello. Un diletto, ad ogni modo, per il giovane le "humanae litterae", non un impegno esclusivo. Pensiero dominante l'avanzamento suo e della famiglia. E strumento per il consolidamento di questo le alleanze matrimoniali. Ancora nel 1488 Angelo, il fratello maggiore, s'è sposato con Lella Orsini. E con Orsino Orsini accasata la quindicenne sorella Giulia - dalla perentoria avvenenza, detta per questo "la bella" - il 9 maggio 1490. E adoperata Giulia - incoraggiata dalla madre, dal futuro papa, dall'altro fratello Angelo nonché dalla suocera a diventare, all'inizio del 1491, l'amante del potentissimo cardinale Rodrigo Borja che, come l'ha conosciuta, subito s'è incendiato d'una passione forsennata - per l'ascesa sua e familiare. Sdegnato, a tutta prima, Orsino Orsini, il marito, ma poi acconciatosi all'adulterio della moglie, che anche a lui conviene dal momento che, dal gennaio del 1492, milita al servizio della Chiesa con stipendio sempre più remunerativo. E, subito avvantaggiato dalla relazione della sorella, Farnese viene designato, l'8 luglio 1491, protonotario apostolico. E subito lucrante - coll'elevazione al solio, l'11 agosto 1492, di Borja col nome d'Alessandro VI - della rendita di posizione costituita da Giulia divenuta la "favorita" del papa, ché nominato, già il 6 settembre, tesoriere pontificio. S'aggiunge, il 10 luglio 1493, il canonicato della chiesa viterbese di S. Lorenzo. E poi, il 20 settembre, autentica impennata per lui e tutta la famiglia, il conferimento del cardinalato. E a questo punto il futuro si spalanca. Diciannove i cardinali dell'infornata del 20 settembre 1493. E scandaloso - anche per i più disposti all'indulgenza tra i contemporanei - tra questi figuri Farnese, il quale come cardinale diacono assume, il 23 settembre, la titolatura dei SS. Cosma e Damiano che poi, il 29 novembre 1503, muterà con quella di S. Eustachio. Una clamorosamente scandalosa promozione quella del 20 settembre subito bollata dalla "vox populi" coll'epiteto - grevemente desunto dall'anatomia della sorella messa a disposizione del papa - di cardinal "Fregnese", che accompagnerà per tutta la vita Farnese; né lo si dimenticherà quando sarà al vertice della Chiesa. Prestigioso il cardinalato, epperò non immediatamente redditizio, ché costretto a rinunciare al tesorierato nel quale gli subentra un cugino del papa, Francesco Borja. E angustiato a tutta prima Farnese dall'assenza d'entrate. Sicché smania per conseguirle premendo, tramite Giulia, su Alessandro VI. "Dove è il tesoro mio è il cor mio" scrive quella da Pesaro - dove aveva accompagnata Lucrezia, la figlia del papa, destinata sposa a Giovanni Sforza - a questo, con ricalco spudorato d'un passo evangelico, in una lettera, del 10 giugno 1494, supponibilmente scritta sin sotto dettatura del fratello. Così la giovane fa capire all'anziano pontefice che il suo sentire non è gratuito, che alle gioie e gioielli di cui l'amante la ricopre devono aggiungersi concreti appannaggi pel fratello. Sta ad Alessandro VI - questo il senso del messaggio - pensare anche a lui, crucciarsi per quella che è egli stesso, il papa, a definire "povertà del cardinale da Pharnese". Solo che, non avendo al momento sottomano di che accontentarlo, Alessandro VI tergiversa, traccheggia. Furente, allora, il giovane cardinale ricorre al ricatto. Accorsa Giulia in luglio a Bolsena e quivi trattenuta anche dalla morte del fratello Angelo a Capodimonte nell'agosto, Farnese non esita, sempre in agosto, a minacciare il papa che essa, la sorella, non sarebbe più tornata da lui. Il consorte, Orsino Orsini, signore allora di Bassanello, ne reclama la presenza, appunto, a Bassanello. E, mentre il papa strepita perché Giulia ritorni, il marito di questa si mette a recitare la parte del coniuge geloso e offeso e Farnese, suo cognato, subentrato ad Angelo appena scomparso nella parte del capofamiglia, indossa la veste del tutore dell'onor, appunto, familiare che esige il rientro della sorella sotto il tetto coniugale. Reiterati e imperiosi i richiami del papa. Ma fronteggiati e presidiati da Farnese e dal cognato. Fuori di sé Alessandro VI: il 21 ottobre intima all'"ingrata e perfida" Giulia di non ardire a tornare dal marito, a risiedere presso di lui, altrimenti l'avrebbe fulminata con la scomunica "late sententie et maledictionis eterne". Dopo tanta tempesta, alfine la tensione s'allenta, torna il sereno tra Giulia e il papa e, quindi, tra questo e Farnese. Provvidenziale all'accordo la cacciata, del 2 novembre, di Piero de' Medici da Firenze. Ciò esime Alessandro VI da quei riguardi per cui non se l'era antecedentemente sentita di togliere - s'era, invece, limitato, sin dal dicembre del 1493, a sollecitare una rinuncia spontanea - al cardinale Giovanni de' Medici la Legazione del Patrimonio per preporvi Farnese. Ora che i Medici sono in disgrazia la sostituzione è agevole. Sicché, il 14 novembre, Farnese diventa legato al Patrimonio. Il che gli assicura una retribuzione mensile di 100 scudi nonché la competenza del controllo del Viterbese ove abbondano i possedimenti farnesiani. Ma ciò per poco. Momentaneamente stanco di Giulia Alessandro VI volge altrove, favorendo un altro, un parente, l'ottica simoniaca colla quale elargisce incarichi. Tolta, nel settembre del 1496, la Legazione a Farnese. E questi, che, il 27 maggio 1495, è stato dei venti cardinali partiti da Roma col papa per riparare ad Orvieto, che, sempre nel 1495, s'è esposto finanziariamente per acquistare, nel cuore di Roma, palazzo Fertiz (ne sortirà, grazie ai lavori iniziati nel 1514, il più bell'edificio della città: un'autentica reggia avviata da Antonio Sangallo, continuata da Michelangelo, ultimata da Giacomo della Porta; il palazzo Farnese, appunto), cade nello sconforto, si sente povero. È sin tentato dal rinunciare alla porpora. Almeno così si dice. E la voce giunge sino a Venezia, dove la registra, nel febbraio del 1498, il diarista Sanudo: "il Farnesio, cardinal romano fratello di madona Julia" - una precisazione che perseguita il giovane porporato e che l'accompagna sino alla tomba per resistere indelebile anche dopo la morte -, "per esser povero cardinal, pareva volesse refutar el capello". Eppure, quando l'aveva ottenuto, in famiglia s'era fatta gran festa a Capodimonte, nell'ottobre del 1493; presente questa al completo; e presente pure il papa col figlio Cesare. Sembra quasi Farnese si stia pentendo d'aver assecondato la volontà materna. Sembra quasi rimpianga di non essersi dato - giusta la tradizione di famiglia - alla carriera delle armi. "Zovane di poca reputation" lo dice Sanudo nei suoi Diarii. "Giovani di poca reputazione" dice del cardinale Giuliano Cesarini e di lui, nella relazione del 28 settembre 1500, "in corte" l'ambasciatore veneto Paolo Cappello. E anche questi precisa che Farnese è "fratello di madonna Giulia". Questo il suo tratto identificante. Per sua fortuna Giulia, nell'agosto del 1499, riaccende i sensi del settantenne Alessandro VI. E, come per lei torna a battere il cuore del papa, così Farnese esce dallo scoramento e si riaccendono in lui le speranze. E non a vuoto: è già un fruttuoso risultato il conferimento, del 28 aprile 1501, del vescovato - ossia delle sue rendite: non prete, cardinale diacono può solo amministrare - di Corneto e Montefiascone. Segue, più prestigiosa e remunerativa, il 26 novembre 1502, la Legazione della Marca che detiene ad Ancona anche dopo la morte, del 18 agosto 1503, di papa Borja durante il fugacissimo pontificato di Pio III, essendo nella stessa riconfermato da Giulio II. Già in urto questi con papa Borja e fatto papa anche per disfare il malfatto da quello. Ma non è che Farnese - creatura di Alessandro VI - cada in disgrazia. E comprensivo, anzi, il nuovo pontefice e delle sue esigenze e degli stessi discutibili risvolti della sua vita privata. Cardinale diacono di per sé Farnese doveva attenersi alla morigeratezza. E, invece, non s'è precluso alla sessualità e agli affetti. Stabile, dal 1499, la sua relazione con una dama romana, Silvia Ruffini, moglie, al più tardi dal 1496, di Giovanni Battista Crispo e di questo, entro l'aprile del 1501, vedova. Da lei ancor maritata Farnese ha avuto, nel 1500 circa, la figlia Costanza. E da lei ormai vedova ha poi tre figli: Pierluigi nel 1503; Paolo nel 1504; Ranuccio nel 1509. E legittimati i primi due, l'8 luglio 1505, da Giulio II. Una gioia per il cardinal Farnese, così assecondato dal pontefice, col quale poi s'imparenta ché Laura - sua nipote: è figlia, ufficialmente (ma le chiacchiere attribuiscono la paternità a papa Borja), di Orsino Orsini e di Giulia - si sposa il 16 novembre (a pochi giorni dalla tragica morte della zia Girolama Farnese; assassinata questa, che, vedova di Puccio Pucci, s'era risposata col conte Giuliano Anguillara, dal figliastro Giovan Battista Anguillara il 1° novembre), con Nicola Franciotti della Rovere. Figlio questi di Giovanfrancesco e di Luchina della Rovere, sorella del papa, è nipote di Giulio II e da lui adottato. Ancora una volta Giulia torna utile a Farnese. In fin dei conti è grazie a sua figlia Laura che il fratello cardinale consolida i propri legami col papa in carica. E condiscendente, d'altronde, Giulio II colla stessa Giulia - la quale, vedova dell'Orsini morto ancora il 1° luglio 1500, si risposa, il 20 febbraio 1509, col gentiluomo napoletano Giovanni Maria Capece Bozzato -, allorché, il 2 maggio 1512, concederà al suo secondo marito il Governatorato d'Orvieto. Quanto a Farnese - che nel 1507 ha ereditato i possedimenti di Federico Farnese, figlio del cugino Ranuccio -, Giulio II, il 28 marzo 1509, gli conferisce il vescovato di Parma. E poco cale al cardinal diacono che il suo indugiare negli ordini minori gli impedisca il pieno esercizio dell'autorità episcopale. Provvedendo il vicario alla vita religiosa, all'amministratore apostolico vanno le rendite. Meglio, per Farnese, se abbondano le sedi vacanti. Così può sommare amministrazioni o, quanto meno, può correre dall'una all'altra. Così sotto Giulio II, così anche dopo. Singolare, comunque, il suo stazionare a Roma da qui proiettando fuori il proprio profilo vescovil-amministrativo: dal 1501 al 1519 a Corneto e Montefiascone; dal 1509 per una decina d'anni a Parma; dal 1514 al 1522 a Benevento; dal 1508 al 1511 a Vence, in Francia; dal 1514 sino al 1534 a St-Pons, sempre in Francia; nel 1530-1532 a Bitonto; nel 1521 a Valva e Sulmona; nel 1532 a Soana; nel 1525 ad Anagni. E poco cambia che dal 1519 sia consacrabile vescovo. Non è mai un pastore d'anime; è sempre un indaffarato cacciatore e percettore di rendite. Ciò per sé, ciò perché ha da pensare alla figlia Costanza, ai tre figli maschi. Amatissima quella, epperò illegittimabile, ché nata da donna ad altri maritata. Legittimati invece i nati dalla stessa rimasta vedova, l'ultimo, Ranuccio, l'11 aprile 1518, da Leone X. Già amico, in gioventù, Farnese di papa Medici, questi è con lui affabile e cordiale. E lieto Farnese d'ospitarlo, almeno un paio di volte, nel bel castello di Capodimonte. E non dimentico di omaggiarlo con cacciagione, accompagnata da lettere in forbito latino. Sicché questi lo ringrazia di quella e, più ancora, di queste "elegantissime" scritte. L'Umanesimo, se non altro, produce sensi d'elitaria appartenenza, accomuna, affratella. Il cardinale s'allunga verso il papa, questi si piega verso il cardinale. E cresciuto, nel frattempo, il credito di Farnese, se nell'affresco di Raffaello dedicato alle Virtù nella vaticana Stanza della Segnatura, laddove il Gregorio IX approvante le Decretali ha i tratti di Giulio II, i due cardinali a fianco hanno, rispettivamente, il sembiante del prossimo Leone X e, appunto, suo. C'è della segnaletica nell'affresco del 1511. Papa di lì a poco il cardinale Giovanni de' Medici. E papa di lì a meno di venticinque anni pure Farnese. A suo modo Raffaello l'ha già posizionato in tal senso. Evidentemente la "poca reputazione in corte" a lui attribuita, nel 1500, da Paolo Cappello, rappresentante della Serenissima, se l'è lasciata alle spalle. Ora è un uomo che conta. Ed una sensazione di sicurezza di sé emana dal ritratto del cardinal Farnese eseguito, nel 1512, da Raffaello e aiuti: ben piantato il naso, sottili le labbra; e lo sguardo è di chi sa fare i propri calcoli nel mondo così com'è, di chi sa perseguire il proprio tornaconto con mosse avvedute. C'è un che di composto autocontrollo che guarda in avanti. E il documento stretto dalla destra è, forse, la bolla di legittimazione dei primi due figli maschi. Ma se così, il ritratto - nel quale il rosso cardinalizio risalta sul nero della parete, laddove il paesaggio (un edificio e dietro due arcate d'un ponte e oltre lo slontanarsi dei rilievi nell'azzurro del cielo) adduce armoniosa serenità - esprime una gerarchia di valori, ossia il primato della famiglia naturale. Prima i figli, insomma. "Tutto il suo pensiero è di far grandi i suoi figlioli; né d'altro ha cura". Così, nel 1500, l'ambasciatore veneziano Cappello d'Alessandro VI. Vien da trasferire questo giudizio anche sul cardinal Farnese, nella misura in cui è, per dir così, la ragion di famiglia ad ispirarlo e lungo il cardinalato e, poi, lungo il pontificato. "Strabocchevole", in effetti, "l'amore" suo "verso la sua famiglia", come sottolineerà Benedetto XIV, in una lettera del 20 maggio 1745, al cardinale Angelo Maria Querini che, con baldanza storiografica non sufficientemente avvertita, s'era preso la briga di rivalutarlo. Ancorché la propaganda protestante e la vena vituperante di Pasquino lo bersaglino - specie una volta papa - colle accuse più infamanti di foia incontinente, di sodomia, di pratiche incestuose, non è che s'adatti al Farnese cardinale e al papa Farnese il criterio interpretativo della "lussuria" scatenata, della "pessima vita". Ancorché bollato da Lutero come "vescovo degli ermafroditi", come "papa dei sodomiti", quel che di lui risulta non è tanto un assatanamento sessuale, quanto una prolungata relazione, allietata da figli, connotata da stabilità, con Silvia Ruffini. A suo modo, il cardinal Farnese - cui gli ordini minori precludono il matrimonio - è un monogamo dall'affetto costante per la stessa donna. Niente, in tutto ciò, che rinvii ad un libertinaggio sfrontato. Semmai tenerezza d'amor coniugale e, anche, accensione di passione coniugale. Illecita di per sé la relazione con Silvia Ruffini, ma non per questo destituita dalla serietà dell'affetto duraturo. E poi - nell'ottica che par d'intuire valida per Farnese - assicura, coi figli legittimati, la continuità della casata. In certo qual modo - par di capire - Farnese s'autoassolve perché, con la conseguita paternità, proietta in avanti le sorti, che sono solo nelle sue mani (il fratello Angelo è morto, è morto il cugino Ranuccio, è morto il figlio di questi Federico), della "gens" farnesiana. Vale per lui l'ottica dell'ascesa gentilizia. Un'ottica che privilegia ciò che conviene alla famiglia, ciò che a questa torna a conto. E ciò con sin feroce rimozione - lo si è visto coll'utilizzo della sorella Giulia - degli scrupoli provenienti dall'etica. In fin dei conti è stato Farnese a collocare la sorella nel letto del cardinal Borja. Un pedaggio da pagare per la propria carriera. Ma la propria carriera sarebbe macchina celibe se non spingesse in avanti la "gens". Ed ecco, allora, il cardinale padre, il papa nonno. E sul versante della paternità e poi, per dir così, della nonnità (un nonno con tanti "mammoli" cui pensare) lo svolgersi d'una sollecitudine determinata a fare della famiglia una dinastia, a stralciare dalle circostanze per lei un avvenire di pubblico rilievo, di statuale risalto. Senza forzare più che tanto, vien da dire che è siffatto familismo - interiorizzato sino a farsi inscalfibile - il protagonista motivante l'operato di Farnese. Sono i figli e i nipoti ad ingombrare il suo paesaggio mentale. Di per sé è al servizio della Chiesa. Di fatto, per la famiglia, si serve della Chiesa. Né, d'altronde, egli fa mistero della propria paternità. La legittimazione è anche esibizione. E comporta l'assunzione di responsabilità, appunto, di padre. E ciò colla comprensione e di Giulio II e di Leone X.
È Farnese, il 3 maggio 1512, all'apertura del V concilio Lateranense e XVIII ecumenico, quello che - dopo l'orazione inaugurale del generale degli Agostiniani Egidio da Viterbo - legge, per conto di uno stremato Giulio II, l'allocuzione papale. Risonante il concilio di ammonimenti solenni, di severi richiami, di austere riflessioni, di decise condanne. Fermo Egidio da Viterbo nell'asserire che alla religione compete cambiare gli uomini e non viceversa. E necessaria per Tommaso de Vio, vicario generale dei Domenicani, una rifondazione della Chiesa. Avrà prestato attenzione Farnese al loro dire? e si sarà accorto del Libellus ad Leonem decimum dei camaldolesi Paolo Giustiniani e Pietro Querini che a Roma compaiono per far confermare dal neopontefice gli statuti del Capitolo del loro Ordine? Certo che quel che stabilisce il concilio, nella sua nona sessione, a proposito del dovere dei cardinali, anche di quelli, come lui, solo diaconi, di vivere, giusta la dottrina degli apostoli, "sobrie, caste ac pie", lo concerne direttamente. Comunque è nel 1513 che la relazione con Silvia Ruffini, decorosamente sistemata nell'ombra, può dirsi chiusa. Ed è nel 1516 che Farnese visita la diocesi parmense ove, nel 1519, indice un sinodo che - nelle costituzioni relative al clero - non solo ricalca le antecedenti, ma anche innova. E suo vicario a Parma Bartolomeo Guidiccioni - quello che, il 19 dicembre 1539, promuoverà cardinale -, il quale, già auditore di Farnese, in questa sua funzione manifesta una serietà d'applicazione sin sorprendente rispetto a quelli che sono stati i suoi antecedenti costumi. E fatto "presbyter", dopo ventisei anni trascorsi nella veste di cardinal diacono, il 26 giugno 1519 Farnese che poi, ormai ultracinquantenne, il 25 dicembre, il giorno di Natale, celebra la sua prima messa, collocandosi così tra i cardinali "episcopi", essendo via via cardinale Tusculanense quindi Prenestinense, quindi Sabinense, quindi Portuense e, alfine, il 15 giugno 1524, Ostiense. Tanto precoce il suo ingresso nella carriera curiale, altrettanto tardiva questa sua assunzione degli ordini maggiori. Sussulto di volontà di più stringente vita religiosa o mossa calcolata in vista del papato? Fatto sta che negli anni Dieci del sec. XVI Farnese ha assunto una certa qual visibilità: è lui, l'11 marzo 1513, ad annunciare l'elevazione al solio di Leone X; nel 1517 è della commissione di tre cardinali al cui parere vengono sottoposti gli atti processuali relativi ai cardinali Benedetto Sauli e Alfonso Petrucci nonché degli otto cardinali della Congregazione, costituita da Leone X il 4 novembre, per valutare come fronteggiare il Turco; il 19 aprile 1518 è lui a leggere la bolla indicente la tregua quinquennale della e nella cristianità sicché ne scaturisca un'unitaria mobilitazione antiturca. E il fatto che, accampando motivi di salute, schivi la Legazione - le cui istruzioni del 28 marzo 1518 a lui destinate vengono perciò girate al neocardinale de Vio - all'imperatore Massimiliano e a Cristiano II di Danimarca, induce a sospettare non voglia muoversi da Roma per consolidarvi, non senza concerto col cardinale Giulio de' Medici, un autoposizionamento cauto alla volta del culmine della Chiesa nel quale rientra il suo stesso dir messa alla fine del 1519. E tutt'altro che reticente - nel lungo conclave per eleggere il successore di Leone X che, iniziato il 27 dicembre 1521, il 9 gennaio 1522 finisce col promuovere, a sorpresa, il cardinale Adriano Florisz, proprio quello che, assente, non può manovrare e proprio quello che è più alieno dal manovrare - la candidatura di Farnese caldeggiata con determinazione dall'ambiziosissimo e intrigantissimo cardinale Giulio de' Medici, che, ostinato, s'adopera a farlo votare sino al decimo scrutinio. E ad un certo punto pare Farnese riesca a spuntarla. Ma è un'illusione che subito si sgonfia. "Si levò nome [così Alfonso Facino, il 2 gennaio, a Isabella d'Este] che Farnesio era papa et poco li mancò non li fusse sachegiata la casa et andorno via cavalari assai a portar la nova; poi non è stato niente". Troppo ferma l'opposizione d'una sorta di partito cementato dall'avversione a Farnese e, più ancora, al cardinal de' Medici. Per quanto questi s'affanni non riesce a far convergere su quello sufficienti suffragi. Sicché ripiega a proporre il sin antitetico - rispetto a Farnese - cardinal Florisz. Annoverato Farnese, all'avvio del conclave, tra i filoimperiali, non è, comunque, questa sua collocazione ad avere influito negativamente. In ballo - non appena è circolato il suo nome - non le sue propensioni, ma proprio il suo profilo morale. Forse sollecitato dall'interno del Collegio cardinalizio, Aretino, fingendo sdegno d'anima offesa, gli scaglia addosso il fuoco di sbarramento d'un crescendo vituperante: "peggio di Nerone", "peggior [...] d'un Crasso", "orrida arpia". Sin qui ingiurie generiche. Ma la staffilata della penna maledica cala bruciante sull'immagine dell'aspirante papa cogliendo pienamente nel segno laddove l'inchioda all'episodio più vergognoso (e, nel contempo, più decisivo per il suo futuro) della sua esistenza: "fusti sensale / del sangue tuo per esser cardinale". Così fulmineamente compendiato il mercimonio della sorella pel conseguimento della porpora. E questi versi d'Aretino circolano, si fissano nella memoria, arrivano in Germania. In tante anime suscitano sdegno autentico. Quanto ad Aretino non è il caso di assegnargli una cattedra d'eticità. Uomo camaleontico, dalla coscienza affittabile offrirà L'Horatia (Vinegia 1546) a papa Farnese, perché l'accolga con "lieta fronte" come omaggio di chi "in esser fervido ecclesiastico" non cede all'"essenza de la istessa chiesa", come attestano i suoi scritti devoti. Sembra una laida strizzata d'occhio di chi, a sua volta, un po' tende a far capire che un cappello cardinalizio non gli dispiacerebbe. Che Aretino aspiri al cardinalato Tiziano lo fa, in effetti, presente a Carlo V. E pare che - a tacitarne la temibile mordacità - lo stesso papa Farnese a farlo cardinale un po' ci abbia pensato. Di fatto il flagello dei principi sarà fatto cavaliere di S. Pietro da Giulio III, che, oriundo di Monte San Savino, è un po' suo compaesano. Certo, non convocabile, con Aretino, l'"indignatio" d'una moralità risentita. Però, quando applicata a danno di Farnese, la sua icastica maldicenza finisce col coniare la formula più azzeccata, lo timbra d'infamia incancellabile. E anche se Aretino farà marcia indietro, il suo timbro infamante resta. Troppo breve, comunque, il pontificato d'Adriano VI, l'ascetico austero papa fiammingo così antitetico all'edonismo fastoso della Roma rinascimentale, perché Farnese debba preoccuparsene. Subito impopolare per la sua eccessiva austerità, il papa venuto dal nord muore il 14 settembre 1523. E nel conclave - che inizia il 1° ottobre - stenta, a tutta prima, ad imporsi l'autocandidatura del cardinal de' Medici. E, nel procedere in ordine sparso dei suffragi, è proprio Farnese quello che calamita più voti, sino a rivaleggiare con lui tallonandolo e contrapponendoglisi. Sin bilanciati i due, senza che l'uno prevalga sull'altro. Sbloccante, però, il venir meno dell'opposizione al Medici del cardinale Pompeo Colonna.
A questo punto i voti affluiscono su quello eletto papa, il 19 novembre, col nome di Clemente VII. Una sconfitta per Farnese che avrà modo di dire avergli rubato Clemente VII più di dieci anni di papato, così sottintendendo che questo gli è capitato troppo tardi; fosse, questo il rimpianto, stato eletto nel 1523, avrebbe ben operato, maturo di senno e, insieme, col fisico ancor valido, colla salute non ancora vacillante. Non facili per Farnese i primissimi tempi del pontificato di Clemente VII; non riesce a celare del tutto la delusione pel mancato successo; né, d'altra parte, il neopontefice si mostra subito cordiale con chi è stato lì lì per minacciare la sua vittoria. Reciproche, insomma, la diffidenza e l'antipatia. E di questo crucciato Farnese. E s'aggiunge il dolore per la morte di Giulia, attorno al 23 marzo del 1524. Grondante implicito pentimento il testamento del 14 colla sua lunga lista di pie donazioni, di doti per le ragazze da marito, di richieste di messe a suffragio della propria anima, col suo implorare la misericordia divina. E sottesa di tacito rimprovero al fratello la destinazione, certo non casuale, certo ponderata, a lui del proprio letto "per ricordo di sé", del proprio "sincero affetto". È chiaro: simbolo del peccato il letto; ma se ha peccato l'ha fatto per amor del fratello, dietro sua richiesta. E glielo ricorda ormai prossima alla morte. C'è di che essere sbranati dal rimorso. Ma se Farnese lo prova, non lo dà a vedere. E, forse, ad attenuarlo, vale il fatto che la messa a disposizione della sorella alle voglie del cardinal Borja e, poi, del papa Alessandro VI è stata una decisione non solo sua, ma anche del fratello primogenito, ma anche della madre. Ed è stata presa per il bene non solo suo, ma della famiglia. Rimorso o meno, è la posizione sua e di questa - che a lui fa capo - che va presidiata e allargata. Donde il suo abile smussamento dell'iniziale ostilità di Clemente VII, il suo avvicinarsi a lui sino a riguadagnarne la fiducia; e bisognevole il papa del saggio consigliare della sua mondana esperienza. Imbarazzante, però, il militare per l'Impero del suo primogenito Pierluigi che vien scomunicato per delitto di lesa maestà; e sarà faticoso pel cardinal Ostiense ottenere la revoca della scomunica. I tempi sono tempestosi: nel 1526 imperversa furiosa la ribellione dei Colonna che attaccano Roma il 20 settembre, in nome dell'autorità imperiale e saccheggiano, in odio al papa, costretto a chiudersi in Castel S. Angelo, il Vaticano e il Borgo. E ben più minacciosa l'anno dopo l'ostilità imperiale. All'avvicinarsi della bufera Farnese suggerisce la fuga. Ma il papa non l'ascolta. Sicché non resta che attenderne l'arrivo in una Roma assediata; e tra i difensori dell'Urbe Ranuccio Farnese, l'ultimogenito del cardinal Ostiense. Non arrestata la scatenata furia dei lanzi. E nell'orrore del Sacco il rinchiudersi di Clemente VII con tredici cardinali - e tra questi Farnese - a Castel S. Angelo il 1° maggio 1527. Non c'è che da capitolare. E anche Farnese sottoscrive, il 5 giugno, la capitolazione. Di per sé anch'egli deve - col generale dei Francescani, il cardinale di S. Croce Francisco Quiñones - recarsi da Carlo V; e, invece, mentre quello procede sino a Valladolid ad affrontarlo coraggiosamente, Farnese si ferma, si porta a Parma, dove via via giungono gli altri porporati che da lì, il 13 dicembre, si rallegrano col pontefice finalmente liberato. E ritiratosi questi, il 1° giugno 1528, a Viterbo, dopo una prima dimora nella fortezza, è nel palazzo dei Farnese che si sistema. E designato, l'8, legato dell'Urbe il cardinal Ostiense. Nel disastro è su di lui che il papa umiliato conta. Ma dolorosissima per lui - che ha già sofferto della morte del secondogenito Paolo ancor infante (non si accenna a lui nel breve, del 23 giugno 1513, di Leone X ammettente alla successione nei feudi di Bolsena i suoi due fratelli; è quindi già scomparso) - la morte, a fine agosto, dell'ultimogenito Ranuccio: "l'amava singolarmente", riferirà anni dopo un inviato veneto, era il suo "occhio destro". Ma non gli è dato d'abbandonarsi al dolore, di chiudersi nel lutto. Non lo concedono le circostanze calamitose, né egli se lo concede. Designato, il 24 luglio 1529, con altri due cardinali, a salutare Carlo V a Genova, dove questi sbarca il 12 agosto accolto dal grido "viva il signore del mondo". E, allorché lo stesso, il 4 novembre, giunge a Borgo Panigale, qui atteso da cardinali e prelati, spetta a Farnese dargli, a nome di Clemente VII, il benvenuto e accompagnarlo alla Certosa. Segue, il 5, il solenne ingresso a Bologna; e Farnese è, cogli altri porporati, nella tribuna antistante S. Petronio, dove il papa è assiso. Si dà, col massimo della spettacolarizzazione, la riconciliazione, agli occhi del mondo, tra le due massime autorità, quella temporale e quella spirituale, di questo. Dopo l'onta del Sacco il papa si sta rialzando e, nello spettacolo di questo suo rialzarsi nel quale rientrano le incoronazioni (risalta in queste non solo l'incoronato, Carlo V, ma anche l'incoronante, il papa) del 22 e 24 febbraio 1530, figura anche il cardinal Ostiense che, il 1° gennaio, celebra a S. Petronio - dopo che le autorità locali hanno ossequiato Clemente VII - la messa solenne. Opportuno che l'imperatore e il papa conferiscano di persona ed esibiscano una concordia visivamente enfatizzata. E, ad avviso di Farnese, il rinnovato incontro dovrebbe avvenire a Roma. Ma contrastata questa sua proposta, a fine ottobre del 1532, dai porporati più dichiaratamente filocesarei e non appoggiata da Clemente VII. Questi non se la sente di pretendere come sede Roma sapendo che Carlo V propende per Piacenza. Ancora una volta Bologna si configura come la cornice più idonea ad esibire la ritrovata armonia. E in questa, il 13 dicembre, entra a cavallo Carlo V, fiancheggiato dai cardinali Agostino Spinola e Farnese, atteso da Clemente VII assiso in trono a S. Petronio. E dopo il fasto dell'incontro i negoziati tutt'altro che scorrevoli. Subito arduo, nel prolungato colloquio del 15, il tema problema del concilio. E se ne tratta il 16 in Concistoro. Non è più schivabile. È una questione da affrontare. Dev'essere ecumenico, da tenersi in luogo da concordare, col consenso di tutti i principi cristiani. Ne discute - tra fine dicembre e l'inizio di gennaio del 1533 - una commissione bilaterale di otto membri, tutti cardinali, quattro per conto di Cesare e quattro in rappresentanza di Clemente VII. E uno di questi ultimi è Farnese. E, laddove da parte imperiale si propende per una convocazione immediata, da parte pontificia si è più cauti. Da un lato s'esigono garanzie in merito alle decisioni, da mantenere, dei concili antecedenti, dall'altro si vuole il concilio confortato dal consenso degli altri principi a cominciare dal re di Francia. Rientrato il 3 aprile, il papa a Roma manifesta la sua propensione ad un'unione con questi, non senza che Farnese, da altri sostenuto in seno al Collegio cardinalizio, obietti e tenti di frenarlo. Partito il 9 settembre Clemente VII per la Francia ove, il 28, celebra il matrimonio di Caterina de' Medici col duca Enrico d'Orléans, Farnese, morto il 20 il legato dell'Urbe cardinale Antonio Ciocchi del Monte, gli subentra nella Legazione. Rientrato, in dicembre, Clemente VII, nel giugno del 1534 s'ammala e, il 25 settembre, muore. Farnese - il cardinal decano, il cardinale più visibile, che abita in un palazzo dal fasto superbo, quasi una reggia, dove s'addensa, tra servitù e clientela, una "famiglia" seconda solo a quella papale - sente che è giunta la sua ora. Ancora, al più tardi, nel 1526 Molosso - il cantore in latino dei suoi eventi ed affetti domestici morto nel 1528 - gli aveva augurata la tiara: "felix tibi venerit hora memento / firmiter", aveva scandito verseggiando. E per ben due volte, nel 1529 e nel 1532, il napoletano Luca Guarico - suo astrologo di fiducia che premierà, il 14 dicembre 1545, col conferimento del vescovato di Civita in Capitaniata; e poco cale l'invido Aretino lo proclami "bufalo" tra gli "erranti astronomi"; con Farnese è stato profeta; e questi anche da papa avrà in gran credito l'astrologia, tanto da consultare gli astri e gli astrologi ad ogni sua mossa, si tratti di fissare l'ora e il giorno d'una partenza, di convocare ad una data ora d'un dato giorno un Concistoro, in ciò sin superstizioso; orientante per lui "el ponto della astrologia" di Guarico; e suo protetto il medico e astrologo cremonese Fortunio Affaitati che gli dedicherà le proprie Phisicae ac astronomicae considerationes (Venetiis 1549) - la tiara gliel'ha predetta. S'apre, l'11 ottobre, il conclave; trentacinque i cardinali presenti e Farnese è tra questi il porporato di più lungo corso ed è l'unica creatura di Alessandro VI, mentre Matteo Lang lo è di Giulio II e tutti gli altri debbono il cappello o a Leone X o al papa appena defunto, senza che, per questo, ci sia una sorta di partito mediceo. Subito evidente che - in assenza d'un candidato caldeggiato da Cesare e d'una controcandidatura di contrassegno francese - la scelta cadrà tra chi, come Farnese, non è particolarmente schierato dando, così, garanzie d'equidistanza suscettibile di tradursi in autorevole mediazione internazionale. Per tal verso Farnese si presta: non filofrancese, non filocesareo e nemmeno antifrancese e nemmeno anticesareo, è "in grandissima reputatione dall'uno et l'altro lato", s'era premurato di scrivere a Mantova il cardinale Ercole Gonzaga ancora il 10 ottobre. Solo il veneto cardinale Francesco Corner può dargli un minimo d'ombra. Ma egli gode in partenza di più aderenze ché esplicita è l'indicazione di voto a suo favore del cardinal nipote del papa defunto, il cardinale Ippolito de' Medici che fa propria così la preferenza espressa da Clemente VII a favore del cardinal decano quale successore. Unicamente Lorenzo Campeggi, il 12, s'oppone apertamente alla designazione di Farnese, ma senza disporre di voti per un'alternativa. Sicché, esito sin scontato, il 13 con "creatione unitamente" fatta, con tutti i voti, incluso quello di Campeggi, viene elevato al vertice della Chiesa, col nome di Paolo III, Farnese. "Uomo ornato di lettere" questi, già fatto cardinale in virtù di "madonna Giulia sua sorella, giovane di forma eccellentissima", così di lui Guicciardini, i votanti concorsero - è sempre Guicciardini a sottolinearlo - "più volentieri a eleggerlo perché, essendo già quasi settuagenario e riputato di complessione debole e non bene sano (la quale opinione fu aiutata da lui con qualche arte), sperorono avesse a essere breve pontificato". In effetti P. è anziano, con oltre quaranta anni di cardinalato addosso, dalla salute malferma; ed è opinione diffusa gli resti poco da vivere. Lieta, comunque, la popolazione di Roma, perché finalmente, dopo centotré anni - da quando, nel 1431, è morto Martino V - e dopo tredici papi non romani la tiara torna ad un romano. Protesta, comunque, a gran voce Pasquino per questo "papa non santo", "pazzo cervello" che riduce la Chiesa a "bordello", "mal vecchio", "vecchio rimbambito", "pastore mercenario", "fariseo", "papasso", "principe de' scribi e farisei", non senza, visto che disdice le previsioni di vita breve (doveva campare "apena mesi sei"), a mano a mano dura, augurargli la morte, anticipargli epitaffi e iscrizioni funebri, spedirlo "a Satanasso", assicurando che come in terra è "famoso in bocca di Pasquino", del pari sarà "di là", oltretomba, "dolente in bocca del diaulo". Va da sé che se da cardinale è stato strale dei vituperi di Pasquino, ora che è papa i vituperi riprendono con più lena. Ma non si scatenano solo le pasquinate. C'è anche chi saluta la sua ascesa con un canto di fiducia e speranza. Funesto, per la Chiesa, il papato di Clemente VII. E grandi le attese riposte nel successore: "[...] jam novus incipit / rerum ordo, facies jam nova cernitur; / antiquum revocat decus [...] / et magnis legionibus / Turcam et Danubii flumina territ". Così Marcantonio Flaminio che a P. dedicherà, rispettivamente nel 1535 e nel 1538, la sua parafrasi del libro XII della Metafisica d'Aristotele e poi quella dei 32 salmi. Non piaggeria cortigiana i versi di Flaminio. L'esordio del neopontefice è incisivo e promette cambiamento. Se, per via degli anni, parla a bassa voce e lentamente, purtuttavia la sua vecchiaia sprigiona fattiva energia. Lucido l'intelletto, attiva la volontà, grande la capacità di lavoro coi quali si carica della soma tremenda del governo della Chiesa nella lacerante tensione franco-imperiale, nel dilagare della Riforma, nell'incubo della minaccia ottomana, nel preoccupante restringersi dei margini della "libertà italiana", avendo in mente il concilio - o simulando d'averlo in mente: per Pasquino P. è "simulator infame"; per Sarpi la sua specialità è proprio quella di simulare e dissimulare; per l'ambasciatore spagnolo Juan de Vega "lo que el papa más teme [...] es el concilio" - e avendo in mente (in ciò umano, troppo umano, troppo padre, troppo nonno) i parenti, la propria casa. Già annoverato tra i porporati "neutrali", è all'insegna della "neutralità" che esordisce. Perciò non c'è posto per i fautori d'una politica antimperiale, perciò un Guicciardini è costretto al ritiro privato. "Instituto suo" quello della "neutralità" proprio per stagliarsi come "padre commune". E quando sollecitato dall'ambasciatore cesareo Fernando de Selva conte di Cifuentes a pronunciarsi una buona volta "o per l'imperatore o per il re di Francia", eccolo replicare - lo riferisce, il 14 marzo 1536, l'agente gonzaghesco Fabrizio Peregrino al duca di Mantova -, con "qualche sdegno et collera", che "mai" si sarebbe dichiarato per "niuno". Sua determinazione "essere neutrale", nella "neutralità al tutto" incollato, sin inchiodato. Non sta a lui impicciarsi e impacciarsi nelle "garre et differentie" franco-cesaree, bensì comporle, guidarle alla volta della "pace" e della "concordia". È nel risalto del "bon pastore" pensoso della cristianità, proteso alla "pace" universale, sollecito del bene comune, mirante al compattamento della cristianità contro il Turco che P. (intimamente preoccupato dello strapotere imperiale, della minaccia allo Stato pontificio costituita dalla sua tendenziale monarchia universale) accoglie, il 5 aprile 1536, Carlo V reduce dalla vittoriosa impresa di Tunisi. Ispirante il cerimoniale d'accoglienza il precedente dell'ingresso, del 1° gennaio 1469, dell'imperatore Federico III essendo pontefice Paolo II. E trasformata Roma - con rimozione delle tracce del trauma del Sacco - da una grandiosa operazione di chirurgia urbanistico-architettonica affidata al maestro di strade Latino Giovenale Manetti. Sicché il tracciato del corteo - per la via Appia e lungo il Circo Massimo al Colosseo e, quindi, pel ponte S. Angelo, alla Città Leonina - via via trapassa dalle antiche vestigia (valorizzate con drastico sacrificio di quelle medievali, sinanco con abbattimento di chiese) alle architetture del Campidoglio esitando alfine nell'ecclesiastico augusto splendore di piazza S. Pietro. Suggestionato Carlo V dall'esibirsi - che è anche riscatto dal Sacco - dell'Urbe e in questa solennemente esortato al prosieguo della lotta antiturca. Presente in questa P. nella misura in cui, il 13 settembre 1537, s'allea con Venezia. Ma a battere la Porta occorrerebbe una cristianità unita. Esiziale, purtroppo, il contrasto franco-imperiale. Attivata senza risparmio tutta la capacità d'argomentazione e pressione della diplomazia papale sino ad indurre i due contendenti, il 23 marzo 1538, alla pace di Nizza; lasciata Roma il 23, P. vi si porta di persona il 17 maggio ripartendone il 18 giugno dopo essere riuscito - di contro alla volontà di Carlo V che l'avrebbe voluta ridotta a cinque anni - a convincere ad una tregua decennale. Un compromesso rispetto alla prospettiva di più lunga durata e di esplicito impegno a cui avrebbe voluto persuadere. Ma è già qualcosa da usare a mo' di piedistallo pel rilancio del concilio. Punto irrinunciabile questo sin dal primo Concistoro, quello del 17 ottobre 1534, da lui convocato e come tale ribadito in quello del 15 gennaio 1535. Ma abortito il concilio indetto, il 2 giugno 1536, a Mantova pel 23 maggio dell'anno dopo. E a vuoto quello fissato l'8 ottobre 1537 per il 1° maggio 1538 a Vicenza. Solenne, di per sé, l'entrata in questa, il 12 maggio, dei legati pontifici Lorenzo Campeggi, Giacomo Simonetta e Girolamo Aleandro, ma vanificata dall'istruzione d'evitare ogni atto interpretabile come effettiva apertura dei lavori conciliari. Comunque la tregua nizzarda - senza apprezzabili riflessi sul versante dell'impegno antiturco: sconfitta alla Prevesa il 27 settembre 1538 Venezia, mentre la pace veneto-turca del 2 ottobre 1540 è una mazzata per le velleità di mobilitazione papale non senza un respiro di sollievo della Francia pel vanificarsi della prospettiva, cara invece a P., della lega cristiana - rianima le speranze nella effettiva realizzabilità d'un grande ecumenico concilio nella cornice indispensabile della pace. E quello conciliare è un appuntamento al quale la Chiesa dovrebbe presentarsi già riassettata, riordinata, migliorata. Lo facesse a fondo, anzi - più d'uno lo pensa e taluno anche lo dice -, il concilio sarebbe superfluo.
E quella dell'autoriforma, dell'automiglioramento è operazione da iniziare e portare avanti a Roma, nella Curia romana senza accampare il pretesto della non serena situazione internazionale. Va fatta, comunque, magari in vista del concilio, ma senza attendere il suo effettivo inizio. Sono i comportamenti romani che devono cambiare ci sia o meno il concilio. È a Roma e da Roma che la Chiesa deve risemantizzarsi. Un dovere questo enunciato da P. nell'allocuzione ai cardinali del 17 ottobre 1534. Ma la trasformazione la vuole realmente? e sono i cardinali all'altezza di tanto impegno? Non che i cardinali creati da P. lungo il suo pontificato siano tutti esemplari, spiritualmente ardenti, religiosamente fervorosi; innegabile però che tra quanti a lui debbono il cappello v'è un nucleo ristretto - formato da Gaspare Contarini, Gian Piero Carafa, Reginald Pole, Jacopo Sadoleto, Federigo Fregoso, Marcello Cervini, Gregorio Cortese, Tommaso Badia, Giovanni Morone - contrassegnato da qualità, capacità, impegno sul terreno dell'autoriforma ecclesiale. Promuovere al cardinalato un Contarini - così rubando a Venezia "el meglior" suo "cittadino" - che, nel 1529, aveva, a Bologna, avuto l'ardire d'esortare Clemente VII a "procurare il bene de la vera Chiesia" senza star tanto a preoccuparsi delle sorti del suo "pocho stado temporal" e preporlo alla presidenza della commissione per la riforma della Chiesa non è decisione di poco conto da parte di Paolo III. Questi, peraltro, è lo stesso che, il 18 dicembre 1534, non ha esitato ad innalzare al cardinalato il quattordicenne Alessandro Farnese figlio primogenito (nell'ottica di famiglia è il secondogenito da avviare - come è capitato allo stesso papa Farnese - alla vita ecclesiastica; ma Ottavio, il secondogenito di Pierluigi, ha appena dieci anni e P., il nonno, non se la sente d'incardinalarlo) di Pierluigi, a sua volta primogenito del papa, nonché il sedicenne Guido Ascanio Sforza di Santa Fiora, di cui il papa è nonno materno, ché figlio dell'amatissima sua figlia Costanza, andata sposa, attorno al 1517, appunto a Bosio Sforza conte di Santa Fiora. Una nomina imputabile di nepotismo, il più truculento e smaccato, che sarà ribadito e aggravato coll'incardinalamento, del 16 dicembre 1545, di Ranuccio, terzo maschio di Pierluigi; ciò in deroga alla sospensione della creazione di nuovi cardinali durante il concilio, ciò contro il divieto d'imporporare chi - è il caso di Ranuccio fratello d'Alessandro - ha già un fratello porporato. Tuttavia P. è quello che, il 19 maggio 1535, fa cardinale un laico dall'affinata spiritualità come Contarini. E colla presidenza della commissione della riforma lo colloca in una posizione di tutto spicco. E la commissione s'impegna seriamente: inizia a riunirsi nel novembre del 1536 e redige quel Consilium de emendanda ecclesia che - sottoscritto da Contarini, Carafa, Sadoleto, Pole, Aleandro, Cortese e dal vescovo di Verona Gian Matteo Giberti - viene letto e spiegato da Contarini a P. il 9 marzo 1537. È un'autentica direttiva di marcia pel da farsi e, insieme, una sorta di referto diagnostico con energico invito alla terapia conseguente. Severissima requisitoria nel denunciare - specie in materia beneficiaria - carenze, abusi, manomissioni, tralignamenti, deformazioni, distorsioni, scandali. Non per niente, giunto il testo - che doveva rimanere segreto - in Germania vi sarà adoperato come la più eloquente e circostanziata ammissione di colpa da parte della Chiesa di Roma. E attaccabile, attaccabilissimo, se esaminato col metro valutativo del Consilium, l'intero comportamento di P., quello passato e quello, pure, presente per la porpora ai nipoti. Naturalmente, giusti i suggerimenti d'un altro memoriale, il Consilium super reformatione ecclesiae, l'autorinnovamento, l'autoriforma comportano la ristrutturazione degli uffici, di cui si occupa un'altra commissione. E da annotare a margine che, di fatto, coll'occuparsi della riforma, di questioni amministrative, di procedure e quant'altro d'apposite commissioni, si sbiadisce e si stinge la distinzione - già netta - tra uffici di Curia, con competenze, appunto, amministrative e Collegio cardinalizio. Comunque sia i tribunali, la Rota, la Penitenzieria diventano oggetto d'un esame di merito. E ciò vale, ovviamente, pure e soprattutto per la Dataria, la "borsa particolare" del papa - così la centrante definizione d'un ambasciatore veneto - che, sommando "compositiones" (ossia i versamenti corrisposti nelle collazioni degli uffici; non gratuite, infatti, le concessioni in deroga al diritto canonico) e vendite d'uffici, mette nelle sue mani di che spendere e spandere per le sue più private esigenze, pei suoi numerosi familiari. E P. - maligna un epitaffio pasquinesco del 1541-1542 - se "non amò Dio con tutto l'intelletto", in compenso "amò il prossimo suo", beninteso non l'umanità ma il parentado, "come se stesso". Un nodo centrale questo della Dataria, crocevia istituzionale ed economico d'una infettante patologia che Contarini - membro della commissione incaricata di riformarla - s'illude affrontabile chirurgicamente. Da abolirsi - stesse in lui - le "compositiones". Ma il papato è macchina dispendiosa, è prigioniero delle proprie spese, abbisogna di fonti di reddito. P. più che tanto non può e non vuole badare, in questo punto, a Contarini. In fatto di finanze i suoi mentori sono datari e penitenzieri. Anche costoro sono sue creature. Incardinalato da lui il penitenziere maggiore Antonio Pucci. E affidata la direzione della Dataria a Pietro Duranti e poi a suo nipote Vincenzo, che si distingue - così una pasquinata - per "robbarie diverse e tante", per distributore di "benefici" a chi più offre. Tant'è che, nel febbraio del 1541, viene allontanato dalla carica per illeciti amministrativi. D'altro canto è proprio P. - che ha respirato a fondo i miasmi simoniaci della Roma d'Alessandro VI, che è vissuto e convissuto nel e col traffico degli uffici, che ha sempre considerati i vescovadi, ove è sostato più o meno a lungo, rendite, il cui profilo fa più pensare a quello del faccendiere che dell'anima orante (e ciò dall'adolescenza alla senescenza) - che vuole proprio Contarini nella commissione della Dataria nel 1537 e lo rivuole, nel 1538, in quella della Penitenzieria. Che sia a tal punto "fraudolente, volpon" come lo qualifica Pasquino, che sia "gibbosus furcifer romanus" come lo chiamerà Lelio Sozzini da adoperare spudoratamente la figura contariniana a mo' di decorante facciata di copertura per il verminaio entro il quale continua a trafficare? P., in effetti, sembra fatto apposta per scatenare la velenosa acrimonia del romano Pasquino, per suscitare le più sdegnate ripulse del moralismo intransigente animante la rottura con Roma e luterana e calvinista. Epperò non rimpicciolibile la sua statura nella misura in cui, puntando su Contarini o simpatizzando coll'attivismo riformatore di un Gian Matteo Giberti, non s'è mostrato sordo alle ragioni dell'anima, non s'è solo appiattito sui "negotii"; non solo pulsare di mondani appetiti lungo il suo papato, ma anche altro, anche di più. E su questo versante, non inerte P., ma sensibile, attento, assecondante. Sicché si rinnovano gli Ordini religiosi collaudati dai secoli, sicché fioriscono nuovi Ordini. E in ciò avvertibile la sua presenza attivatrice e disciplinante ad un tempo. Da lui incoraggiati i Teatini. Da lui riapprovati, il 24 luglio 1535, i Chierici Regolari di S. Paolo Decollato, ossia, in virtù del loro insediamento nel convento di S. Barnaba, i Barnabiti, che, esentati dalla giurisdizione dell'arcivescovo di Milano, vengono sottoposti alla tutela della Santa Sede. E poste sotto il controllo del preposito dei Barnabiti le Angeliche, definitivamente approvate il 6 agosto 1549. Legittimate, il 9 giugno 1544, le Orsoline offrendo così - questa l'espressione adoperata da P. con Ignazio di Loyola - ai Gesuiti "delle sorelle". Incoraggiata dalla bolla, del 30 novembre 1539, Dominus noster Iesus Christus la Confraternita del Ss. Sacramento. Ed è colla bolla del 5 luglio 1540 Ex iniuncto che la Congregazione dei Servi dei poveri - costituitasi, ancora nel 1532, a Somasca presso Bergamo - dà luogo ai Somaschi autorizzati, con breve dell'8 settembre 1546, all'unione coi Teatini. Sostenuto l'operato del generale degli Agostiniani Girolamo Seripando. Risolutore l'intervento di P. nella contrapposizione - all'interno dei Cappuccini - tra Bernardino d'Asti e Ludovico da Fossombrone: ratificata l'elezione del primo a vicario generale e tacitato, con bolla del 10 ottobre 1536, lo strepitare delle proteste del secondo espulso dall'Ordine e costretto al ripiego nella vita eremitica. Preoccupato P. che i Cappuccini non continuino a reclutare elementi provenienti dalle file degli Osservanti e circoscrivente il loro appello rigoristico il 3 gennaio 1537, allorché vieta loro di propagarsi fuori della penisola. Epperò non immune il pontefice dalla suggestione del vicario generale Bernardino Ochino cui è intenzionato - così, almeno, corre voce nel 1539 - a concedere la porpora. Ma insospettito lo stesso allorché ne apprende la disapprovazione dell'esecuzione del luterano Giuliano da Milano. Donde la convocazione a Roma per un chiarimento. Ma Ochino, una volta a Firenze, non prosegue: torna indietro, ripara a Ginevra. Una clamorosa defezione, una rottura traumatica che investe violenta le stesse sorti dell'Ordine. Pare addirittura P. voglia sopprimerlo: "presto non ci saranno più né cappuccini, né conventi di cappuccini", prorompe minaccioso. Un'ira che rientra. Col nuovo generale Francesco da Iesi l'Ordine riacquista credibilità, prosegue la sua esistenza. Del 27 settembre 1540 la bolla Regimini militantis ecclesiae che perentoriamente - a scorno di riserve e perplessità e opposizioni, quale quella, tanto per dire, del cardinale Bartolomeo Guidiccioni manifestatasi non appena, il 3 settembre 1539, Contarini presenta a P. la "formula" ignaziana della Compagnia - dà spazio d'intervento alla smania, appunto, militante della Compagnia di Gesù pronta, "ove si tratti di promuovere la salute delle anime e la dilatazione della fede", ad un impegno strenuo, continuato, "senza dilazione", in assoluta obbedienza a qualsivoglia "comando" pontificio, ovunque - "presso i turchi", nelle lontane "contrade delle Indie" - ci siano infedeli da conquistare, ovunque, in casa e fuori, ci siano "eretici o scismatici" da debellare. Truppa d'assalto subito mobilitabile, corpo specializzato la Compagnia, dapprima di soli sessanta membri, poi, dal 14 marzo 1544, senza più limitazione numerica. Grato a P. l'ardore di carità dei Gesuiti; e da lui confermata, nel 1542, la Compagnia della Grazia, impegnata nella salvezza delle peccatrici, promossa a Roma da s. Ignazio. E apprezzato, della Compagnia, soprattutto lo slancio missionario. Promosse, d'altronde, da P. le missioni in Africa, America, Asia. E c'è un che di programmatico nell'erezione, dell'8 gennaio 1538, di Cuzco a prima sede episcopale peruviana e nell'elevazione, dell'11 febbraio 1546, di Lima a sede metropolitica. E un minimo redarguita da P. la brutalità dello schiavismo. E nominato, nel 1543, vescovo, nella nuova sede episcopale messicana di Chiapas, Bartolomeo de Las Casas. Ma nel frattempo irrobustito il luteranesimo, nel frattempo aggressivo il calvinismo, nel frattempo aggravatosi lo scisma anglicano - e scagliata, alfine, il 17 dicembre 1538, dopo tre anni d'attesa, la scomunica contro Enrico VIII -, nel frattempo in atto la penetrazione ereticale anche nella penisola. E accompagnato sempre più, di conseguenza, l'anelito alla riforma "in capite et in membris" da una simultanea urgenza di reazione e repressione che risulta sin distorcente, nella misura in cui la riforma cattolica s'irrigidisce in tratti controriformistici. Preceduta dalla bolla, del 1536, d'istituzione dell'Inquisizione in Portogallo con tre inquisitori di nomina papale e uno di nomina regia, quella, del 21 luglio 1542, Licet ab initio. Un deciso imbocco controriformistico questa: non più pietà comprensiva per l'errante recuperabile, non più indulgenza tollerante per il deviante reindirizzabile, ma arcigna occhiuta vigilanza, durezza punitiva, furia repressiva. Nasce l'Inquisizione romana. Costituita - e, nel formarsi di questa e di altre Congregazioni permanenti rispondenti di sé solo al papa, il tendenziale rattrappimento del ruolo del Collegio cardinalizio - la Congregazione del Sant'Uffizio. E tra i membri di questa subito scalpitante la terribile intransigenza di Carafa, che - fallita la missione di Contarini a Ratisbona, condannata la formula della duplice giustificazione - ostenta ferocia persecutoria. E, sempre nel 1542, colla bolla Cupientes iudaeos, poste le premesse del peggiorare della situazione ebraica nella penisola. Di là da venire, comunque, le bolle infami di Paolo IV. Differenziabile, per tal verso, P., ché esortante, ancora il 22 novembre 1540, all'accoglienza benevola degli ebrei convertiti, ché concedente, il 23 gennaio 1544, privilegi agli ebrei stabilitisi ad Ancona, ancorché non ignaro della presenza, tra questi, di nuovi cristiani tornati alla fede avita. Non che papa Farnese grondi sensi d'umana apertura; gli interessa il rilancio dell'economia anconitana. Pur tuttavia - rispetto a quel che farà papa Carafa, rispetto all'atroce infierire di costui - il suo atteggiamento appare sin illuminato. In atto con papa Farnese la Controriforma, ma allergico il pontefice al cupo fanatismo del futuro Paolo IV. Azzardabile che la formazione umanistica, le propensioni rinascimentali trattengano il pontefice dall'allinearsi con la spietatezza di Carafa. E il fatto stesso sia papa anche mondano, anche politico vale a trattenerlo dal solidarizzare col fanatismo di quello. Il residuo cinismo del prelato rinascimentale sopravvivente anche nel Farnese papa in tal caso funge da argine. Troppo affezionato, d'altronde, il papa alle "humanae litterae" per non voler cardinale - con vivo disappunto di Carafa, a veder del quale non è proprio opportuno privilegiare chi cincischia petrarcheggiando; e tra quanti brontolano c'è pure il cardinale veneto Francesco Pisani, scandalizzato perché il papa così premia "publicum concubinarium" - proprio Pietro Bembo, il principe dei letterati. Sin sconcertante, pei fautori di rigori controriformistici, la concessione della porpora al letterato veneziano del 24 marzo 1539. E felice questi che il papa, "sponte", l'abbia, ancorché "nihil eiusmodi petentem" e "cogitantem", a tal punto onorato. Se l'ha fatto, visto che "è vicario" di Cristo, sarà stato per "inspirazione" divina. E lietissimo Bembo di risiedere gratuitamente "in una bellissima casa", quella di monsignor della Casa, "la più bella e meglio fatta che sia in tutta Roma". Questa, con Bembo cardinale, è ancor trattenuta sull'orlo del Rinascimento. E questo dà ancora spazio agli astri, incompatibili, invece, colla Controriforma dispiegata. E come agli astri bada P., così ci bada lo stesso Bembo. È nato con "Giove nel mezzo del cielo"; ed è nella stessa posizione quando gli vien "mandato il cappello". Ed ha un sussulto quando, vescovo di Gubbio nel 1541, gli vien in mente un "romito", a suo tempo vaticinante che "sarebbe papa uno che sarebbe vescovo d'Ugubbio". E si ricorda che è stato lo stesso P. a dire, allorché egli s'è portato a Roma, che "ora entra il mio successore". Certo, morendo il 18 gennaio 1547, Bembo non lo sarà. Ma che un po' e per un po' si sia illuso di esserlo rientra pur sempre in una sorta di fase di resistenza d'una Roma ancora attaccata al Rinascimento, ancora restia all'incupimento controriformistico. E di questa Roma fa parte lo stesso P. se è vero che abbia un minimo vagheggiato un Bembo quale suo successore. Sintomatico comunque, nell'intreccio per cui il grande letterato è decorato colla porpora e il prestigio di questa, della porpora, crescerebbe se decorata dal grande letterato, d'un momento in cui i giochi sono ancora aperti, in cui non è ancora imboccata la via della chiusura intransigente alla volta della quale si sta adoperando Carafa. E le "litterae" nelle quali Bembo primeggia, per cui Bembo è ammirato da papa Farnese, sono anche quelle che con Contarini - non a caso lieto del conferimento del cardinalato a Bembo, e non a caso, d'altra parte, favorevole Bembo all'operato di Contarini - alimentano una spiritualità interiorizzata, un cristianesimo dalle ascendenze erasmiane. E non è da escludere che un minimo P. non ne abbia subito il fascino. Certo che se simpatizza per Contarini è anche perché ammiratore dell'eleganza del suo latino. Ed è un latino, però, che è anche il linguaggio della salvezza, quella dell'umanesimo cristiano, ancora tramite di speranza, ancora capace di fiduciose prospettazioni, ancora al di qua delle formulazioni perentorie della rottura care agli zelanti il cui integralismo non esita a trattare il Contarini reduce da Ratisbona quale "lutherano", come lamenta il cardinale veneziano, il 23 agosto 1541, in una lettera al cardinale Alessandro Farnese, il nipote del papa. Un'accusa pesante che colma Contarini d'amarezza. Ma non si può dire che il papa la faccia propria. Presso di lui non è che cada in disgrazia. Né la Legazione di Bologna va intesa come punizione. È pur sempre carica prestigiosa. E premio per Contarini la designazione, del 7 agosto 1542, alla missione di pace a Carlo V. Già l'11 maggio Ludovico Beccadelli aveva scritto a Carlo Gualteruzzi che sicuramente P. non avrebbe fatto intristire il cardinale nell'occuparsi, in quel di Bologna, di "liti et prigioni et simili impicci". Si sarebbe guardato dal ridurlo a funzionario con compiti amministrativi e giudiziari. Ne avrebbe fatto l'inviato d'un grandioso messaggio di pace. E, in un colloquio con Sadoleto, non avrebbe esitato a parlarne nei termini più lusinghieri, dicendo "tante belle cose della sua bontà et virtù che parea parlasse di s. Agostino". Così, almeno, Gualteruzzi nell'informarne, proprio il 7 agosto, Beccadelli. Ma, di lì a poco, il 24 Contarini muore. E addoloratissimo il papa: "disse pubblicamente" che "questo colleghio" dei porporati non aveva subito, da almeno cento anni, una "magior iactura", come scrive, il 30, il rappresentante mediceo. Sincero il dolore del papa? Se sì, vien da metterlo dalla parte degli Spirituali. Epperò Bernardino Ochino, cui Contarini, ormai prossimo alla morte, avrebbe sconsigliata l'andata a Roma, va dicendo che lo stesso Contarini, nel sentirsi male, avrebbe attribuita l'infermità al veleno. E la voce prende corpo. E le si presta fede specie tra i protestanti. E Mattia Flacio non esiterà - indirizzando una Christiana adhortatio alla Serenissima -, nell'esaltare in questa Contarini, ad additare in papa Farnese il mandante dell'avvelenamento. Non che un'accusa del genere abbia fondamento. Epperò resta a testimonianza di quanta e quale sia stata - nel sommarsi dei livori di Pasquino e dell'avversione protestante - la nomea di papa Farnese e in vita e una volta morto. E tuttora irrisolto il punto della fede e della buona fede. Quale, insomma, il tasso di simulazione e di dissimulazione presente nelle sue decisioni, nei suoi comportamenti pontificali? Sino a che punto l'altissima carica è stata per lui una missione oppure l'ha sempre adoperata per vantaggio proprio e dei familiari? Ed è da credergli quando, a proposito del concilio, proclama di "desiderarlo e volerlo onninamente", oppure è da credere a Sarpi convinto si sia adoperato solo per pilotarlo e svuotarlo facendo leva sulla "contraddizione" della "corte" romana, sul corporativismo dell'"ordine ecclesiastico"? Vanificata la bolla di convocazione a Trento del 22 maggio 1542 dalla rottura della tregua di Nizza. È intollerabile per Carlo V - che il concilio lo vuole a tutti i costi anche sacrificandone l'universalità - che P. s'ostini a porlo sullo stesso piano di Francesco I. Si decida - così in un memoriale dell'imperatore al papa del 28 agosto 1542 - a scegliere tra lui, Abele, e quello, Caino. Ma di proposito P. schiva la scelta: troppo potente Carlo V per indossare i miti panni d'Abele; e solo il contrappeso francese può arginarlo. E l'autorità pontificia consiste proprio nel mediare tra i due contendenti, sì che si bilancino a vicenda senza ricorrere alle armi. E autorevole il papa nella misura in cui artefice di pace. E a tal fine l'equidistanza per conseguire una pace nella quale impiantare il concilio. Produttiva in tal senso, in effetti, la pace di Crépy del settembre 1544, epperò non un trionfo personale di P., ché senza il suo arbitraggio. Un'esclusione che lo sminuisce, che dimostra che si può addivenire alla pace anche senza affidarsi al suo intervento. E della pace - anche se non può menarne vanto - P. non può che rallegrarsi ufficialmente, rinnovando, nel silenzio dei rumori di guerra, il 19 novembre, l'appuntamento conciliare tridentino. E concordi, almeno sulla sede, il papa e l'imperatore: geograficamente e istituzionalmente Trento è a metà strada; è la più italiana della città tedesche, è la più tedesca delle città italiane. Soddisfatto il papa. Dopo tante false partenze finalmente si profila quella giusta. Ma sin sbranato dentro P. dalla morte, del 23 maggio 1545, della figlia Costanza - bella e buona questa e teneramente affettuoso con lei il padre non senza che la perfidia d'Aretino abbia cianciato di rapporto incestuoso ("a' figli di tua figlia padre e nonno", asserirà pasquineggiando lo stesso che, pei suoi Salmi devoti, s'attende da P. la "grazia" d'un "breve di famigliarità") sì che la calunnia poi è spacciata come notizia certa da Sleidano -, senza potersi, com'è già successo quando gli è morto Ranuccio, abbandonare al pianto. Deve stare in piedi, deve continuare ad adergersi - sono parole sue - in tutto il "decoro del grado suo", in tutta la sua pontificale maestà. Per quanto straziato nell'intimo, deve pensare al concilio che finalmente s'apre, il 13 dicembre, a Trento. Subito accidentato l'inizio: prioritarie, come pretende la Santa Sede, le definizioni dogmatiche o le discussioni sulle riforme come pretende l'imperatore? Un braccio di ferro che s'allenta in una soluzione a metà strada: e quelle e queste, e definire dogmi e prospettare riforme. Disincagliati così i lavori, di fatto è la formulazione dottrinale - e l'agevola la mancata partecipazione protestante sicché non c'è da preoccuparsi più che tanto della "causa unionis"; né c'è da costruire un edificio a metà strada tra posizioni divaricate che assurga a casa comune - a predominare. E la Chiesa s'autoribadisce, riafferma la validità della Vulgata ancorata al proprio magistero interpretativo. È un ridirsi con forza e nettezza a suon di decreti: quello sul peccato originale, quello sui sacramenti. Vale il principio della giustificazione per fede. Né peraltro trascurate le riforme nella misura in cui l'obbligatorietà della residenza si fa irrinunciabile, inderogabile. Non un passo avanti, invece, fa l'auspicata riconciliazione. Ed è ben nell'illusione di questa che Carlo V avrebbe voluto un concilio solo impegnato a discutere il riformabile, paventando invece le formulazioni dogmatiche ché, se troppo preclusive, foriere d'accentuate spaccature, latrici d'ulteriori divisioni. Impegnati, invece, i legati papali non tanto a protendere la mano (questo l'ha tentato Contarini a Ratisbona) ai distanti quanto - così, ancora il 20 giugno 1545, Cervini, uomo di fiducia di P., al cardinal nipote Farnese - a che "il concilio resti a dispositione" del papa, a che "Sua Santità" ne "remanghi padrona assoluta". Una linea - questa della gestione e del controllo e del pilotaggio solo romani - che confligge con quanto s'attende e vorrebbe l'imperatore. E, per quanto incontratisi lungo gli anni e riveritisi a vicenda - a Roma, a Nizza, a Genova, a Lucca, a Busseto -, P. e Carlo V non sono fatti per intendersi, diffidano l'uno dell'altro. E sin si contrappongono quando il soccorso pontificio vien meno proprio quando è in corso la guerra contro la Lega di Smalcalda del settembre 1546-aprile 1547, quando viene assassinato, il 10 settembre 1547, Pierluigi Farnese, quando l'Interim d'Augusta si realizza al di fuori della volontà papale e la Santa Sede deve subirlo come fatto compiuto. Sin carico d'odio non controllato Carlo V, allorché, il 2 febbraio 1547, prorompe col nunzio papale Verallo contro il mal francese di papa Farnese. Bersaglio, è chiaro, il propendere per la Francia del papa; ma anche grevemente offensiva allusione ai costumi, imputati al papa soprattutto dalla propaganda protestante, ove l'imperatore non sa trattenersi dal commentare che se il morbo gallico è scusabile nei giovani, non lo è certo in un vecchio come papa Farnese. E l'odio imperiale divampa vieppiù allorché, valendosi dell'autorizzazione papale del 17 febbraio, i legati pontifici, l'11 marzo, decidono il trasferimento a Bologna, dove, alla presenza di trentasei vescovi, i lavori conciliari si aprono il 21 aprile, a S. Petronio, seguiti da due sessioni, quella che inizia il 2 giugno e quella che inizia il 15 settembre. Col che ogni parvenza d'attenzione alle residue speranze di ricucitura vien meno. E suona ipocrita l'artefatto atteggiamento di P. che si finge estraneo al trasferimento. E furente Carlo V di sdegno, ribollente d'indignazione. Un impantanamento la traslazione a Bologna, un immiserirsi dell'universalità a episodio romano, a manovra curiale. Perché la vicenda conciliare riacquisti dignità e credibilità occorrerà il ritorno a Trento. E lo disporrà, il 1° maggio 1550, Giulio III, talmente deciso all'unione, la più stretta, con Carlo V, da mettere - così il non ancora cardinale Girolamo Dandini, della Segreteria di Stato, in una sua lettura del 13 ottobre 1550 - le sorti stesse del concilio nelle sue mani, poiché "se ne serva [...] come giudicherà opportuno". A detta dei legati pontifici la traslazione è stata necessaria "per la conservatione et prosecutione del concilio et per fuggire la manifesta dissolutione [il manifestarsi dell'epidemia aveva provocato la fuga di parecchi padri conciliari] che era per seguire in Trento". Così, il 31 marzo 1547, i legati nell'informare il nunzio a Venezia della Casa. E l'informazione valga al nunzio per giustificare presso il governo veneto l'avvenuto trasferimento. Ma tutt'altro che persuasa la Serenissima da quanto le dice il nunzio. A veder di Venezia P. - col trasferimento - sta puntando all'"estintione" del concilio stesso. Non che la Repubblica sia maldisposta verso papa Farnese. Ma, con lui in particolare e coi papi in genere, è abituata ad una valutazione non ingombrata da riverenze particolari. La constatazione, ripetuta lungo i secoli dei rapporti veneto-pontifici, che il papa è un "uomo", finisce coll'inquadrarlo in una cornice d'umani interessi, col non escludere le più anguste motivazioni, col riserbare l'ossequio ai complimenti profusi nell'esternazione senza che appannino la lucidità del giudizio. E il papa "uomo" può essere sin meschino, non all'altezza della missione. Un'ottica riduttiva, ma non per questo non efficace, non comprensiva. Epocale vicenda quella conciliare, "Iliade del secol nostro" a detta di Sarpi, che della "mente" di papa Farnese sarà acuto e, appunto, riduttivo descrittore, storico e psicografo insieme. E quel che di lui, del papa, il servita sa o crede di sapere l'induce a valutarlo più come uomo d'intrigo e di manovra che come vicario di Cristo illuminato dallo Spirito Santo. Non è detto sia da dar sempre e comunque ragione a Sarpi. Ma innegabile che all'ottica riduttiva che implacabile funziona all'interno della analitica ricostruzione sarpiana del tridentino papa Farnese offre sin troppo il destro. Sino a che punto si merita la qualifica di papa del concilio, se, il 16 dicembre 1545, fa cardinale l'appena quindicenne Ranuccio Farnese e poi - nel febbraio del 1547 proprio quando è in atto la manovra del trapasso a Bologna - affida allo stesso la Penitenzieria? Quanto meno vien da dire che il nonno papa sta sistemando un altro dei suoi nipoti. E che, anche ammettendo il concilio stia in cima ai suoi pensieri, questo non è un pensiero a tal punto dominante da non lasciarne circolare altri. Tuttavia, ciò malgrado, papa Farnese non è liquidabile con un rimpicciolimento che lo destituisca d'ogni grandezza. C'è della maestà, del grandioso nella sua figura. E, lui papa, mossa la Chiesa da grandi ansie, da grandi inquietudini, da grandi ambizioni. Forse è da constatare la compresenza di spinte contraddittorie, d'un pensare in grande subito disdetto dalla prassi. Preporre un Contarini alla commissione sulla Dataria è un gesto significativo, un segnale forte. Ma è anche evidente che quando quello sostiene "che il papa come papa non può far cosa alcuna per dinari", né il papa né la Curia gli danno di fatto ascolto. D'altronde - anche questo va tenuto presente - il papa non è solo vicario di Cristo, "servus servorum Dei". Bifronte la sua figura: è insieme capo di Stato, principe temporale, papa re. Anche quest'aspetto va considerato. C'è, da parte di P., la repressione rude, sin feroce della ribellione di Perugia nel 1540, domata la quale la città si ritrova coll'autonomia comunale drasticamente ridotta e con addosso l'ammonitorio incombere della rocca, appunto, paolina, vigorosa architettura d'Antonio Sangallo e Galeazzo Alessi. Segue lo scatenamento della guerra "ad familiam" contro la riottosità dei Colonna, assediati, nel 1542, a Palliano, loro roccaforte: raso al suolo il castello e cacciati dai loro possedimenti i Colonna. Vien da pensare ad un'inasprita ripresa della tendenziale eliminazione delle sacche d'autonomia baronale avviata già da Niccolò V. Riscontrabili, altresì, l'appesantirsi del fiscalismo, l'aggravarsi delle imposte indirette - aumentata la tassa sul macinato, aumentata quella sul sale; odioso balzello quest'ultima che fa ribellare Perugia e i Colonna -, l'introduzione, nel maggio del 1543, a recupero dell'attenuata tassa sul sale, d'un'imposizione diretta continuativa, il cosiddetto sussidio triennale, che, a disdetta del nome, a forza di proroghe, da temporaneo si fa definitivo per il costante incalzare della "necessitas" d'introiti. Cronica, comunque, la crisi delle finanze pontificie; non risolutiva, per ricacciarla, la generalizzazione della vendita degli uffici; mero palliativo il ribasso dal 10% al 7,5% del tasso d'interesse corrisposto dalla Camera apostolica ai titolari dei "luoghi" dei Monti di Fede. Si consolidano, nella riscossione dei tributi e nella gestione d'uffici finanziari, famiglie d'appaltatori e d'esattori tendenti ad investire in terre e feudi i guadagni; e sono i Chigi quelli che più emergono.
Valide per tutto lo Stato pontificio le Constitutiones aegidianae, come proclama, il 28 luglio 1538, la bolla Officii nostri debitum, così riaffermante l'impostazione di Sisto IV. Criterio direttivo di massima quello dell'unificazione legislativa che rafforza il centro rispetto alla periferia. Ma resta più un'opzione di principio che un programma sistematicamente e coerentemente attuato. Penalizzati Ascanio Colonna e la sua famiglia con durezza, ma senza che ciò preluda ad un'offensiva antibaronale a largo raggio. Se i Colonna chinano la testa, gli Orsini continuano a tenerla alta; se Palliano piange, la orsiniana Bracciano può continuare a sorridere. Lo stesso sussultorio andamento della signoria di Camerino - abolita, ripristinata, di nuovo abolita - non suona attestato di coerenza operativa. Se umiliate le autonomie comunali a Perugia, non altrettanto capita altrove. Persistenti, insomma, e feudi e autonomie. Comunque il centro, quando vuol farsi sentire, lo fa tramite funzionari, tramite personale politico-amministrativo. E ciò mette a disagio i vescovi che ne avvertono l'intervento in termini d'"impedimenta" alla loro azione pastorale. Anche all'interno dello Stato pontificio si produce e riproduce il contenzioso tra lo Stato e la Chiesa, ancorché le autorità del primo magari portino abito ecclesiastico. Ed è la stessa residenza a moltiplicare gli attriti. Presentate, infatti, nel dicembre del 1540, a P. le "episcoporum petitiones de impedimentis residentiae tollendis". E, d'altro canto, esortati caldamente alla residenza gli ottanta vescovi riuniti attorno al papa il 13 dicembre. Ma più la residenza è rispettata, meno il vescovo è lontano e distratto, più l'impegno episcopale si confronta e talvolta si scontra con le autorità amministrative. Decisa, durante il pontificato di P., l'impennata economica d'Ancona favorita in questo suo slancio da tutta una serie di facilitazioni e agevolazioni, privilegiata, in questo suo rilancio mercantile, come porto franco calamitante operatori da fuori e anche - visto che non li si perseguitano - elementi ebraici. Quanto a Roma, ridotto l'ambito municipale colla sottrazione alla Curia capitolina delle sentenze relative ai prestiti in denaro concessi da prestatori ebrei; di competenza ora queste del governatore a sua volta, in virtù della bolla, del 24 novembre 1542, Romani pontificis, posto, con altri funzionari, sotto il controllo del camerlengo. Col che è l'intera amministrazione comunale a trovarsi sottoposta alla sorveglianza della Curia papale. E risemantizzata, per volontà di P., l'"imago urbis" già nel predisporre, nel dicembre 1535-marzo 1536, con febbrili e immani lavori di demolizione e ricostruzione, il percorso dell'imperiale corteo a mo' di suggestione in crescendo lungo il rilucidato palinsesto dell'antico sboccante nel perentorio deflagrare urbanistico-architettonico della piazza e della basilica di S. Pietro. Così tradotta in immagine definitiva la "praeparatio evangelica" della cristiana epifania. Il fervore edilizio prosegue con ampliamenti, restauri, risistemazioni d'edifici vaticani, di Castel S. Angelo (e qui, nella sala Paolina decorata da Perin del Vaga, le storie d'Alessandro Magno sono anche panegirico allusivo al pontefice), del Campidoglio, mentre risalta la funzione di porta del Popolo, assurta, nella convergenza viaria, a ingresso principale. È una Roma quella di P. ove s'addensano i letterati, che abbaglia Tiziano colla sua bellezza quando vi giunge alla fine del 1545. Un rigoglio delle arti figurative non ancora imbrigliato dalla stretta ideologica, fatta di censura e autocensura, della Controriforma. P. - così di lui Michelangelo - "si intende poco di musica ed è poco curioso di pittura"; in compenso lo "tratta [...] molto bene", è rispettoso del grande artista. E sta al nipote cardinale Alessandro Farnese, il cui mecenatismo intendente traduce in committenza mirata le intenzioni del papa, adoperare la figurazione ad esaltazione del nonno. Da lui, dal cardinale Alessandro, commissionati gli affreschi vasariani nella sala dei Cento giorni del palazzo della Cancelleria. "Aureum saeculum condit" assicura di P., assiso in trono in piviale e camauro porgente brevi e rescritti, la scritta. Egli è colui che "recto aequabilique ordine cuncta dispensat". Prodotta da lui storicamente, allora, l'età dell'oro, da lui instaurata nella storia, non alla storia antecedente. Da lui convocate e mobilitate - insistono le scritte a spiegazione delle immagini - giustizia, eloquenza, opulenza, carità, concordia. Quanto meno sotto di lui il dispiegarsi delle lettere e delle arti nel respiro largo d'una pienezza culturale ed artistica non ancora incupita, non ancora imbraghettante le muscolose nudità michelangiolesche, ancorché già non manchino quelli che van borbottando "non star bene gli inudi". Sin edonistico il P. amante di spettacoli sfarzosi, di feste con musiche e recite, di carnevali con travestimenti pagani, di fuochi artificiali, non disdegnante le buffonerie dei buffoni, i lazzi e le smorfie giullareschi. Un tratto connotante questo suo condiscendere al divertimento, con un che di principe ancor rinascimentale. Ma, d'altro canto, è ancor rinascimentale - nell'accezione di al di qua della Controriforma, di prima della Controriforma - l'ossessione familiare che percorre l'intero suo pontificato. È la "casa" che soprattutto gli interessa. Non per niente Carlo V, quand'abbisogna della buona armonia col pontefice, raccomanda al proprio rappresentante a Roma Juan de Vega, di fornire le più ampie assicurazioni che egli, l'imperatore, farà il possibile per favorire la famiglia papale. Carlo V sa che è questo il tasto più sensibile di Paolo III. E, in effetti, protagonisti, durante il suo papato, i suoi privati "interessi", le sue "cose particolari", le brame della sua "casa". Donde i nipoti fatti cardinali, donde, nel 1537, il Ducato di Castro al primogenito Pierluigi allora gonfaloniere della Chiesa. E poi, nel 1538, allo stesso il Ducato di Camerino. E di nuovo investito di questo, il 5 novembre 1540, il figlio di Pierluigi Ottavio. Donde la ragnatela della tessuta politica matrimoniale. Sposata ad Ottavio Margherita, la figlia naturale di Carlo V. Autentico cruccio per P. l'accasamento di Vittoria, anch'essa figlia di Pierluigi, che, andate a vuoto le trattative per sposarla col duca d'Orléans, con Fabrizio Colonna, rischia d'intristire avvizzendo - e Pasquino continua ad esortarla di smetterla d'attendere marito, di prendersi degli amanti - sinché, finalmente, non si fa avanti Guidobaldo della Rovere. Ed è sempre P. a pensare con chi sposare Orazio: di passaggio per Ferrara nel 1543 sonda la disponibilità di Ercole II ad offrire la sua primogenita; ma andrebbe bene pure la primogenita del defunto duca di Mantova; vale, alfine, la contrattualizzazione, del 30 giugno 1547, della promessa di matrimonio con Diana, figlia naturale d'Enrico II. E colle nozze l'esplicitarsi degli appetiti. Nel giugno del 1543, a Busseto, P. non esita a chiedere per Ottavio, che dell'imperatore è genero - e stridente quest'apparentamento farnesiano-asburgico colla neutralità fieramente sbandierata dal papa -, l'assegnazione del Ducato di Milano. Ma Carlo V pretende una somma talmente enorme come contropartita che P. desiste dall'insistere. Ma non doma la bramosia di costituire uno Stato per la "casa", quasi nella realizzazione di questo consista "l'honore et la grandezza di Sua Beatitudine". E per conseguirlo non resta che mordere decisamente nello Stato pontificio, stralciarlo da questo. Elevate a Ducato, con bolla del 26 agosto 1545, Parma e Piacenza ed investitone Pierluigi. Con alienazione di terre pontificie, con scorporo dallo Stato pontificio nasce lo Stato farnesiano. Allibito e invido il cardinale Ercole Gonzaga scrive al duca di Ferrara che, mentre i Gonzaga e gli Estensi han penato secoli di "fatiche e stenti" per farsi il loro Stato, ecco che il "vecchierello", il pontefice curvo sotto il peso degli anni, d'un tratto ghermisce un Ducato e ci insedia il figlio. "In una notte", ecco che spunta fuori lo Stato farnesiano "come nasce un fungo". Del pari stupefatto l'ambasciatore veneto a Roma Andrea Navagero: "Si può creder quasi ogni cosa delli pensieri del pontefice per la grandezza della sua famiglia". Per questa il papa è capace di tutto. Un po' foglia di fico per la spregiudicatezza dell'operazione il tributo di 9.000 ducati annui richiesti - non senza irritazione dell'interessato - al neoduca. Designato suo erede, nella bolla d'investitura, Ottavio; e premiato l'adoperarsi del papa perché la moglie di questi Margherita desista dall'ostruzionismo nel talamo, dalla nascita, del 27 agosto, di due gemelli. Così assicurata al Ducato la dinastia. Se Carlo, uno dei due gemelli, muore di lì a poco, resta in vita Alessandro. E, col corredo dell'albero genealogico che inizia a frondeggiare, Pierluigi avvia, con piglio energico, il proprio governo. Ma non inerte spettatore Ferrante Gonzaga, il fratello del cardinale Ercole allora governatore di Milano: attizza nel neostato una congiura culminante, il 10 settembre 1547, nell'assassinio di Pierluigi. Affranto, nell'apprenderlo, il pontefice, ma non spezzato. Gli è morto il figlio. Deve pensare ai nipoti, salvando sì in prospettiva lo Stato farnesiano, ma prendendo, nel contempo, le distanze dall'avventatezza dei due figli di Pierluigi, Alessandro e Ottavio, che, con l'urgenza prepotente delle loro ambizioni, con lui figurano nel tizianesco ritratto del museo di Capodimonte: colto in questo P. nella sua decrepitezza aggrappata alla vita, quasi da questa ancora costretto ad assecondare le brame dei nipoti e, insieme, a schivare i rischi del loro scatenarsi imprudente. Abilissimo P. nel tempestoso frangente: restituisce alla Santa Sede Parma e Piacenza (quest'ultima è, peraltro, in mano cesarea), s'accosta alla Francia, senza, per questo, giungere alla rottura con Carlo V, cui viene incontro disponendo, nel settembre del 1549, lo scioglimento del concilio a Bologna. E affidato, intanto, il governo di Parma al fido Camillo Orsini. E nel frattempo i due nipoti scalpitano disobbedienti. E disobbediente soprattutto Ottavio con la sua "partita" alla volta di Parma. E sempre più fiacco e amareggiato il vecchio papa, le cui condizioni di salute, peraltro, non destano ancora preoccupazione. È di "ottima ciera et di animo che mi pare si possi chiamar intrepido", scrive, il 26 ottobre 1549, l'ambasciatore veneto Matteo Dandolo. Superato, insomma, il malessere - dovuto alla gotta - che l'ha afflitto in settembre. Esiziale, però, all'inizio di novembre, il persistere della disobbedienza di Ottavio, che insiste, tramite la moglie, pel perdono, ma senza tornare. A dir d'Ottavio - e riportato il suo giustificarsi da Dandolo - è il suo stesso "honore" a trattenerlo, tanto più che l'appoggia Ferrante Gonzaga, il mandante dell'assassinio del padre, che Ottavio giudica "homo da bene". Nell'apprendere, così una lettera del 9 novembre di Dandolo, dell'ostinazione del nipote, spalleggiato in questo dal cardinale Alessandro, l'altro nipote, P. "andò in tanta collera" contro entrambi che gli "venne un accidente". Messo a letto, Alessandro fa in tempo a fargli sottoscrivere un breve ingiungente ad Orsini la consegna di Parma ad Ottavio in qualità di duca feudatario della Chiesa. Così recuperato lo Stato farnesiano. E sempre la famiglia il primo pensiero del papa morente ché ultima sua disposizione il versamento di "400 mila scudi [...] per supplimento della dote della duchessa d'Urbino", la nipote Vittoria, nonché di "30 mila" scudi al "duca" Ottavio. Il 10, in mattinata, gli viene somministrata l'estrema unzione. È lucido e pare riprendersi, tant'è che - così nel dettagliato riferire di Dandolo - mangia un paio d'uova e beve un mezzo bicchier di vino. Ma è una ripresa effimera. La fine sta arrivando mentre sta ordinando - queste allora le sue ultimissime volontà espresse sul punto di spirare - siano "levate le gabelle et della" macina e dei "contratti" nonché la restituzione delle somme prestategli dagli aspiranti al cardinalato. Si somministra, precisa Dandolo, "da solo l'olio santo" "con bellissime orationi sue proprie", improvvisate lì per lì, in latino. Poi gli si ingrossa "la lingua"; inintelligibile quel che dice, non intendendosi "altra parola che Parma". Sembra quasi questa gli faccia scordare tutto il resto. Ma, evidentemente, chi gli sta vicino l'esorta a pensare alla salvezza ultraterrena. E il morente, a questo punto, "dimostrò di accettare [così Dandolo] le raccomandationi che gli erano fatte dell'anima". Morto P. alle "XIII hore" del 10, i medici continuano a stupirsi "della vivacità" colla quale è durato lungo l'agonia. "Aperto" il corpo, risulta "neto in ogni luogo", salvo "il cuore" con "alcun gioco di sangue d'intorno per la colera che, se non fusse stata, devria anchor viver assai". Trasportata, quindi, la salma, "in lettiga", a S. Pietro, "nella sala del consistoro pubblico", dove rimane esposta per tre giorni perché dinanzi a lei sfili la folla a lutto. E decisa, il 13, dal Collegio cardinalizio, l'erezione del monumento funebre che, opera di Guglielmo della Porta, s'avvarrà del programma iconografico preparato da Annibal Caro sulla base di indicazioni fornite, a suo tempo, dal defunto. Quanto a Pasquino - che fa propria la versione della morte per "un colpo che gli ha dato il duca Ottavio" - augura spregi del "viator" alla "fossa", da considerare "orinale", di un papa che meglio sarebbe stato se "non fuss'egli al mondo nato". E a quest'incattivire di Pasquino fa riscontro l'esultanza della "corte" cesarea a Bruxelles per la scomparsa d'un pontefice - così, in una lettera del 19 novembre, a Ferrante Gonzaga un agente gonzaghesco - che, "quanto al ben publico" e alla "religione" non poteva essere "peggiore". Forse così pensa lo stesso Carlo V che, comunque, nella lettera di condoglianza del 20 dicembre al Collegio dei cardinali, si dice addolorato al "nuntium de obitu" che ha sottratto al mondo "virum cum aetate et moribus gravem tum auctoritate venerandum et longa rerum experientia clarum et insignem". Chi della morte di papa Farnese è sinceramente dispiaciuto è, invece, Matteo Dandolo: cognato di Contarini, di cui ha sposata la sorella Paola, sa come sia stata decisiva l'elevazione al cardinalato di quello voluta da P. per trasformarlo da grande uomo di Stato in grande uomo di Chiesa; né dimentica quanto papa Farnese sia stato "amico" della Serenissima. E soprattutto afflitto il nunzio a Salisburgo Prospero Santacroce: è morto, per lui, un "santo vecchio". Un'impressione che, quasi due secoli dopo, sembra quasi svolgersi in valutazione d'assieme, laddove il cardinale e vescovo di Brescia Angelo Maria Querini s'impegna in tal senso. Studioso il prelato veneziano del cardinale Pole, di cui edita, in cinque tomi, l'epistolario (Brixiae 1744-57; e seguirà l'ediz. anast., Farnborough 1967), proprio per questo non può non confrontarsi colla figura del papa farnesiano. E ne è sin entusiasta: "cupidissimus reformandae Ecclesiae" lo qualifica. E come tale lo fa risaltare nell'Imago optimi sapientissimique pontificis expressa in gestis, Pauli III [...] (Brixiae 1745). Esplicita, sin dal titolo, la volontà d'un rilancio in positivo della figura di papa Farnese riproposto con forza come grande papa, come protagonista dell'autoriforma della Chiesa. Ma agevole al protestante John Georg Schelhorn dimostrare che il Consilium de emendanda ecclesia è stato completamente disatteso da P., per poi ricordare che Paolo IV l'ha addirittura messo all'Indice. La rivalutazione di Querini rischia di risultare controproducente, d'offrire il destro al rinnovarsi aggressivo della propaganda protestante. Nell'accusare ricevuta, il 20 maggio del 1745, dell'Imago il papa Benedetto XIV non riesce a celare il proprio disappunto. Su papa Farnese - par di capire - avrebbe preferito il silenzio. Meglio, a suo avviso, l'oblio. Comunque, dato che l'Imago è ormai stampata, dato che l'autore sollecita la sua opinione, Benedetto XIV non può sottrarsi ad un giudizio sul suo cinquecentesco predecessore. Che dirne? "Sunt mala mixta bonis, sunt bona mixta malis". È come constatare che non tutto il male vien per nuocere. Ma così Benedetto XIV rimane sul generico. Capisce che non basta, che deve precisare, che non può nascondere il proprio pensiero sull'operato di P. dietro una genericità sentenziosa. Ed ecco, allora, che, bandita ogni reticenza, lo esprime chiaramente non senza, così, ammonire la baldanza storiografica di Querini. "Strabocchevole" - così Benedetto XIV - "l'amore di Paolo verso la sua famiglia ed è difficile indurre nel papa l'attributo di Dio che, permettendo i peccati, ne sa ricavare il bene e il profitto anche nelle anime". Brutto episodio quello della porpora ai due "nepoti" nella chiesa di S. Petronio a Bologna, dov'erano allora "alunni nel collegio degli Ancarani". Spudorata "la permuta di Camerino con Parma e Piacenza", poiché, se non altro, non era stato "liscio l'acquisto di Camerino in pregiudizio della famiglia Varano". E inficiabile già "l'acquisto di Frascati colla cessione della quale s'aprì la strada all'acquisto di Camerino avendo i Farnesi acquistato Frascati in sequela d'un testamento fatto fare ad una principessa di casa Colonna che non ne poteva disporre". Saggiamente papa Lambertini prende le distanze dal fervore apologetico del cardinal Querini: anziché donare una figura luminosa alla storia della Chiesa rischia di disseppellire la storia, poco edificante, della spregiudicata ascesa mondana dei Farnese. Per quel che lo concerne, l'Imago si sarebbe ben guardato dal disegnarla.
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