Boccaccio, Giovanni
Il fondatore della novella italiana
Nel suo capolavoro, il Decameron, Giovanni Boccaccio, scrittore fiorentino del Trecento, trattò i temi più vari: l'amore, la fortuna, le risorse dell'intelligenza umana o anche solo della furberia. Queste cento novelle ‒ dieci novelle al giorno per dieci giorni ‒ che compongono il Decameron, Boccaccio le ha dedicate alle donne. Visse la sua giovinezza a Napoli, si trasferì poi a causa di problemi economici a Ravenna e a Forlì, per tornare infine nella sua patria: Firenze. Fu largamente ammirato e imitato in tutta l'Europa; e presso i nostri scrittori la sua prosa fu considerata come un modello insuperabile fino almeno all'Ottocento.
Figlio di un mercante, Boccaccio di Chellino, Giovanni nacque a Firenze o a Certaldo nella seconda metà del 1313. Trascorsa l'infanzia, il padre lo inviò a Napoli presso la compagnia dei Bardi, potenti banchieri operanti alla corte angioina, perché apprendesse il mestiere del commercio. Ma abbastanza presto Boccaccio abbandonò la pratica mercantile e gli studi di diritto, svogliatamente intrapresi, per dedicarsi alla letteratura. Furono questi della giovinezza anni che Boccaccio ricorderà sempre con nostalgia. Bene accolto alla corte di Roberto II d'Angiò, strinse amicizia con personalità importanti ‒ scienziati, giuristi e teologi ‒ ma condivise anche la vita spensierata ed elegante dei giovani aristocratici suoi coetanei, che, non badando alle differenze sociali, lo considerarono uno di loro.
Agli anni napoletani risale un'ampia produzione in versi e in prosa, in cui Boccaccio non tardò a esprimere la sua propensione alla narrativa. Fin dagli inizi scrisse in latino oltre che in volgare, e cioè in italiano; compose rime, poemi e romanzi d'amore. Nel Filostrato ("Il vinto d'amore") narrò, nel metro popolare dell'ottava, la storia di Troilo e dell'infelice passione di questi per Criseida, donna volubile e scaltra. Al centro del Filocolo ("Fatica d'amore"), uno sterminato romanzo in prosa, pose i contrastati amori di Florio e Biancofiore: figlio, il primo, del re di Spagna, la seconda discendente, da una nobile famiglia, come scopriremo al termine di infinite peripezie. Alla materia amorosa Boccaccio ritornò nel poema, ancora in ottave, di Teseida, dove, sullo sfondo delle guerre vittoriose di Teseo contro le Amazzoni, raccontò la patetica vicenda di Arcita e Palemone, entrambi accesi dall'amore per Emilia e perciò divenuti rivali da amici che erano.
Le gravi difficoltà economiche provocate dal fallimento della compagnia dei Bardi costrinsero il padre a richiamarlo in patria nel 1340. Negli anni successivi andò prima a Ravenna e poi a Forlì, ma nel 1348 tornò a Firenze, dove ebbe modo di constatare i terribili effetti della peste che poi avrebbe descritto nel Decameron. La morte del padre e la necessità di amministrare l'ormai esiguo patrimonio familiare, oltre all'obbligo di provvedere al fratellastro Iacopo, lo spinsero a fissare stabilmente la residenza nel capoluogo toscano, da cui si sarebbe allontanato solo per brevi spostamenti. A Firenze, in precedenza, Boccaccio aveva completato Teseida e arricchito la sua produzione. Negli scritti napoletani aveva messo a frutto una ricca esperienza di lettore, attratto dagli schemi psicologici della poesia contemporanea, nonché dalle vicende amorose divulgate, soprattutto in Francia, da un'abbondante tradizione letteraria. Negli scritti successivi sentirà l'influenza della letteratura toscana, si attenuerà un certo invadente autobiografismo e ai modi di un gusto ancora troppo scolastico seguirà una maggiore maturità espressiva.
Nella Comedia delle ninfe fiorentine, più nota col titolo quattrocentesco di Ninfale d'Ameto, ‒ un'opera mista di prosa e poesia ‒ rappresentò l'amore del pastore Ameto per la ninfa Lia, trasfigurandolo in chiave morale e spirituale. Nell'Amorosa visione, un poema allegorico in terzine, a imitazione della Commedia dantesca, dette fondo agli aspetti dottrinali ed eruditi della sua cultura, tornando al genere del romanzo, e alla materia sentimentale. Nell'Elegia di madonna Fiammetta narrò, fingendo che a raccontarla fosse la stessa protagonista, la triste storia di una donna lasciata dall'amante, Panfilo, per un'altra. Nel Ninfale fiesolano, un poemetto ancora in ottave, elaborò in forma leggendaria le origini di due torrenti, Africo e Mensola, nei pressi di Firenze.
Fra il 1349 e il 1351 circa Boccaccio scrisse Decameron. Volle dedicarlo alle donne innamorate, bisognose più degli uomini di conforto e di divertimento. L'opera nasceva infatti per vincere la malinconia. Non a caso si apriva con la descrizione della terribile peste che imperversò a Firenze nel 1348: un episodio reale ma insieme simbolico, e cioè allusivo in generale alla condizione umana, al diritto, potremmo dire, della vita contro la morte, alla luce di una visione del mondo che esaltava i valori di una società ordinata ma anche libera dai pregiudizi moralistici; una società capace di apprezzare le qualità individuali dell'intelligenza e dell'intraprendenza, ma anche in grado di rispettare le inclinazioni naturali, in primo luogo l'amore.
Su questo sfondo ideale Boccaccio concepisce il libro delle sue novelle, dove il comico e il serio, e persino il tragico, si offrono come altrettante manifestazioni di una realtà osservata col distacco di uno spettatore divertito. La loro materia è disposta dal basso dei sentimenti quotidiani al sublime nella giornata in cui si celebrano le grandi virtù della magnificenza e della liberalità. Il divertimento dell'autore (e del lettore), però, si affida, un po' dappertutto, alla molteplicità delle situazioni rappresentate: esempi di cinismo (Ser Ciappelletto), casi umani dominati dalla fortuna (Andreuccio da Perugia) o impressi dalla volontà e tenacia dei singoli (Landolfo Rufolo); e poi, risposte pronte (Cisti fornaio, Guido Cavalcanti), beffe ai danni di personaggi malcapitati (Calandrino), imbrogli (Frate Cipolla), amore a lieto fine (Federigo degli Alberighi) o infelice (Ghismonda).
Nel 1350 Boccaccio conobbe Francesco Petrarca, che vide l'anno dopo a Padova e nuovamente a Milano e a Venezia. Alla sua amicizia si collega una serie di opere in latino, di carattere erudito ed enciclopedico improntate al nascente Umanesimo. Scrittore ormai noto e apprezzato, ricevette dai concittadini incarichi di prestigio, che lo portarono come ambasciatore in Romagna, ad Avignone, presso il papa, e a Napoli. Chiuse il ciclo delle opere in volgare con il Corbaccio, un'aspra satira contro le donne. Visse gli anni più maturi afflitto da sventure familiari oltre che dalla povertà. Il suo ultimo impegno fu dedicato alla lettura pubblica della Commedia di Dante. Morì a Certaldo il 21 dicembre 1375.
Il titolo grecizzante (deca emèrai) scelto da Boccaccio per la sua raccolta significa "dieci giornate". Per sfuggire alla peste del 1348 sette donne – Pampinea, Filomena, Elisa, Neifile, Emilia, Lauretta e Fiammetta – e tre giovani – Panfilo, Filostrato e Dioneo – si rifugiano in una villa lontano da Firenze. Qui si raccontano dieci novelle al giorno per dieci giorni; ognuno di loro è eletto, a turno, re o regina della giornata e ha il compito di scegliere l'argomento che verrà trattato il giorno dopo. Tranne la 1a giornata e la 9a giornata, entrambe su tema libero, tutte le altre sviluppano un argomento obbligato. Al solo Dioneo, il più divertente dei novellatori, è consentito di trattare gli argomenti che preferisce.