SPAZIO, ESPLORAZIONE DELLO.
– Sole. Comete. Asteroidi. Marte. Saturno. Universo. Sitografia
Studiare lo spazio dallo spazio: la scelta indubbiamente più complessa dal punto di vista organizzativo e tecnologico, ma senz’altro quella che può restituire i maggiori ritorni in termini di risultati scientifici. Gli ultimi dieci anni dell’esplorazione del Sistema solare e dell’Universo con sonde che, spinte da razzi vettori, hanno superato la barriera dell’atmosfera terrestre, posizionandosi nell’orbita del nostro pianeta o addirittura ben oltre, magari coprendo distanze di miliardi e miliardi di chilometri per raggiungere e studiare in loco i più remoti ed elusivi oggetti del nostro sistema planetario, sono stati di grande importanza. Grazie a esse sono migliorate le nostre conoscenze dei corpi del Sistema solare, ma non solo: la possibilità di indagare enormi distanze a differenti lunghezze d’onda rende l’Universo davvero sempre meno sconosciuto.
Sole. – L’entrata in funzione di osservatori spaziali di nuova generazione destinati al suo studio, come la missione Solar terrestrial relations observatory (STEREO), composta da due sonde gemelle lanciate nel 2006, e il Solar dynamics observatory (SDO), lanciato nel 2010, entrambe della NASA, ci stanno fornendo un ritratto dell’astro con un livello di dettaglio senza precedenti. I dati accumulati incessantemente da questi osservatori spaziali, che con i loro strumenti indagano le proprietà della nostra stella, della sua atmosfera e delle variazioni della sua attività, ci hanno permesso di osservare la struttura e l’evoluzione in tre dimensioni dei brillamenti e delle emissioni di massa coronale, aiutandoci a migliorare i modelli teorici che descrivono la loro apparizione e il loro sviluppo. E questo per arrivare addirittura a prevedere la loro insorgenza e calcolare in anticipo i loro possibili effetti negativi sull’ambiente terrestre. L’obiettivo è quello di attivare tempestivamente tutte le possibili contromisure, così da minimizzare gli effetti delle tempeste solari sui nostri sistemi tecnologici più vulnerabili al loro impatto: satelliti per telecomunicazioni, avamposti orbitanti abitati, linee elettriche ad alta tensione prossime ai poli. Ad affiancare queste sonde di nuova generazione, c’è ancora un alleato molto prezioso: la missione SOHO (SOlar and Heliospheric Observatory) dell’Agenzia spaziale europea (ESA, European Space Agency), che dalla fine del 1995 tiene incessantemente puntati i suoi strumenti sul Sole. È grazie ai suoi dati che è stato recentemente realizzato il catalogo più completo delle emissioni di massa coronale, gigantesche eruzioni di plasma che si propagano nello spazio a milioni di chilometri orari. Gli studi di eliosismologia ottenuti grazie alle osservazioni delle oscillazioni solari registrate da SOHO hanno permesso di indagare la struttura interna della nostra stella e come avviene il trasporto dell’energia dal nucleo, dove viene prodotta nei processi di fusione nucleare, fino alla superficie, scoprendo il fenomeno della cosiddetta doppia convezione. SOHO ha anche osservato moltissime comete sungrazer (radenti), corpi celesti la cui orbita corre vicinissima al Sole, al punto che la maggior parte di queste comete vengono vaporizzate poche ore dopo essere state scoperte. Molte però, dopo essere sfrecciate attorno al Sole, ritornano periodicamente.
Comete. – Alle comete sono state dedicate importanti missioni scientifiche, che negli ultimi anni ci hanno aperto una finestra unica per osservarle molto da vicino e addirittura riportare sulla Terra qualche frammento di esse. È quello che ha fatto la spettacolare missione della NASA Stardust: lanciata nel 1999 al fine di esplorare comete e altri oggetti (sfiorò, per es., l’asteroide Annefrank), raccolse nel 2004 campioni della coda della cometa Wild 2 e li rispedì sul nostro pianeta in una capsula, che atterrò due anni più tardi nel deserto dello Utah, negli Stati Uniti. Al suo interno, una microscopica manciata di polvere dal valore incalcolabile: l’unico altro frammento di Universo raccolto direttamente al di fuori del nostro pianeta risaliva al lontano 1972, quando Apollo 17 portò a Terra materiale della superficie lunare. Una parte di tali campioni è stata analizzata anche in Italia, nei Laboratori INAF (Istituto Nazionale di AstroFisica) e dell’Università di Napoli Parthenope. Ne sono uscite parecchie conferme, la più importante delle quali è che nei grani ci sono tracce di ammine e lunghe catene carboniose, che sono l’ossatura delle molecole organiche, indispensabili per la formazione della vita. È invece recentissimo l’arrivo della sonda dell’ESA Rosetta sulla cometa 67/P Churyumov-Gerasimenko e lo storico ‘accometaggio’ del suo lander, Philae, primo oggetto costruito dall’uomo a posarsi sul nucleo di una cometa. Una missione ambiziosa, quella di Rosetta: partita dalla Terra nel 2004, è giunta in perfetta tabella di marcia al suo obiettivo, dopo un viaggio di oltre 10 anni che l’ha portata a sfrecciare tre volte attorno alla Terra e una attorno a Marte, per acquistare la velocità e la traiettoria programmata. Così, dopo sei miliardi e mezzo di chilometri e un lungo periodo in ibernazione per preservare i suoi strumenti e le riserve di energia, con una serie di operazioni da manuale, è entrata nell’orbita della cometa 67/P e ha iniziato la sua attività scientifica, rivelando che il suo nucleo è scurissimo, povero di ghiaccio d’acqua sulla sua superficie, ma ricco di composti organici presenti negli amminoacidi, i ‘mattoni della vita’. Questi, in estrema sintesi, i risultati ottenuti grazie ai dati raccolti tra agosto e dicembre 2014 dallo spettrometro a immagini italiano VIRTIS (Visual, Infra-Red and Thermal Imaging Spectrometer) a bordo di Rosetta. Lo strumento è stato realizzato da un consorzio internazionale italo-franco-tedesco sotto la responsabilità dell’Istituto di astrofisica e planetologia spaziali dell’INAF e con il contributo italiano finanziato dall’ASI (Agenzia Spaziale Italiana). Ma altri strumenti, come le camere per immagini a bordo della sonda, ci hanno fornito una visione dettagliatissima del nucleo della cometa.
Quella a grande campo, la wide angle camera (WAC), sviluppata al CISAS (Centro Interdipartimentale Studi ed Attività Spaziali) dell’Università degli studi di Padova, ha messo in evidenza l’inattesa configurazione di questo oggetto celeste, con due strutture ben distinte (il corpo e la testa) collegate da un sottile colletto centrale. La complementare narrow angle camera (NAC), un sistema ad alta risoluzione e limitato campo di vista, ha invece inviato importantissimi dettagli della superficie del nucleo, rivelando la presenza di ‘pozzi’, ovvero crateri e depressioni di decine o centinaia di metri: questi pozzi sono una miniera di informazioni sulla conformazione interna della cometa. La combinazione delle misure del volume della cometa, effettuate con lo strumento OSIRIS (Optical, Spectroscopic, and Infrared Remote Imaging System) e con gli effetti gravitazionali che la cometa ha avuto sulla sonda, hanno permesso poi di calcolare la massa e la densità della cometa, valore quest’ultimo pari a circa la metà di quella dell’acqua. Si tratta di un dato sorprendente, vista l’apparente struttura compatta delle rocce superficiali: molto probabilmente l’interno della cometa deve essere assai meno denso, con grandi cavità oppure una diffusa microporosità.
Asteroidi. – La scelta di studiare le comete con missioni dedicate nasce dalla convinzione che questi corpi celesti siano dei veri e propri fossili del Sistema solare, formatisi con esso oltre 4,5 miliardi di anni fa e rimasti pressoché intatti fino a oggi. Ma anche gli asteroidi condividono con le comete queste proprietà: due di essi, Vesta e Cerere, sono l’obiettivo della missione Dawn della Nasa, lanciata il 27 settembre del 2007. A bordo di Dawn, uno dei suoi strumenti è lo spettrometro VIR-MS (Visible and InfraRed Mapping Spectrometer) costruito in Italia. Promosso e finanziato dall’ASI, VIR-MS è stato realizzato da Selex Galileo sotto la guida scientifica dell’INAF. Dawn ha fatto visita a Vesta nel 2011 e, anche grazie alle accurate analisi realizzate con VIR-MS, ha inviato a Terra una enorme e accuratissima mole di dati che ha permesso agli scienziati di ricostruire le proprietà e la storia di questo corpo celeste, dal diametro di poco più di 500 km, ma inaspettatamente variegato dal punto di vista geologico e con una densità sorprendentemente elevata nelle regioni attorno al suo Polo Sud. La fotocamera a immagini e il VIR-MS hanno passato al setaccio la superficie dell’asteroide, in particolare la regione equatoriale denominata Vibidia e i crateri e gli altopiani in prossimità del suo Polo Sud.
E proprio le immagini riprese durante le orbite ad alta quota da Dawn (680 km al di sopra della superficie) rivelano chiazze di materiale originariamente fuso in seguito agli impatti di detriti spaziali sulla crosta di Vesta. Queste rocce sono composte da diverse concentrazioni di pirosseni, minerali ricchi di ferro e magnesio, che sono piuttosto comuni anche nelle rocce ignee terrestri e indicano la presenza di una straordinaria varietà di processi che costellano la superficie di Vesta.
Altrettanto importanti sono state le osservazioni della zona del Polo Sud di Vesta e in particolare del cratere Tarpeia, ottenute dallo spettrometro VIR durante una serie di sorvoli a bassa quota, appena 210 km dalla superficie. La conformazione dei ripidi pendii di questo cratere ha esposto vari strati della crosta di Vesta, che appaiono ben delineati e permettono agli scienziati di ricostruire la storia geologica del corpo celeste. Gli strati più vicini alla superficie portano ancora le tracce di contaminazione dei meteoriti che in passato hanno colpito l’asteroide, mentre quelli più profondi e meno ricchi di pirosseni conservano le caratteristiche della crosta primordiale che avvolgeva Vesta.
Sempre grazie alle misure dello spettrometro VIR è stato possibile ottenere le più accurate mappe di temperatura superficiale di un asteroide, registrando nella regione di Tarpeia valori massimi che raggiungono −23 °C nelle aree illuminate e possono scendere al di sotto di −100 °C in quelle in ombra, con sbalzi repentini, vista l’assenza di atmosfera. Un altro risultato ottenuto dalla missione Dawn è stato quello di rilevare un’anomalia nel campo gravitazionale di Vesta in prossimità del Polo Sud dell’asteroide, nella zona del bacino denominato Rheasilvia. Secondo gli scienziati, questa caratteristica può essere dovuta all’impatto di un meteorite, che ha letteralmente spazzato via lo strato superficiale di materiale più leggero della crosta dell’asteroide, esponendo gli strati più interni e densi di Vesta.
Marte. – Marte è stato negli ultimi anni il pianeta verso cui è stato indirizzato il maggior numero di missioni, ben sei dal 2005: Mars reconnaissance orbiter (NASA), Phoenix Mars lander (NASA), Fobos-Grunt (dell’Agenzia spaziale russa, fallita poco dopo il lancio, è ricaduta nell’oceano Pacifico), Mars science laboratory (NASA), l’orbiter NASA Mars atmosphere and volatile evolution (MAVEN) e, infine, Mars orbiter mission, dell’Agenzia spaziale indiana.
L’esplorazione di Marte non si è concentrata solo su osservazioni e misure da satelliti in orbita, ma è stata effettuata anche con mezzi semoventi sulla sua superficie. L’ultimo nato degli esploratori-robot su Marte è Curiosity, in grado di gironzolare tra sassi e fanghi secchi, in quello che sembra il fondo di un lago ora prosciugato, perché l’acqua liquida è tutta evaporata. La domanda delle domande su Marte, ossia se almeno in passato si siano sviluppate forme di vita, anche elementari, è destinata però ancora a rimanere senza una risposta certa. Curiosity, infatti, non ha la strumentazione necessaria per trovare la prova di attività biologica. L’attesa dovrebbe essere tuttavia relativamente breve: la missione eurorussa ExoMars, progettata proprio per individuare tracce di vita, presente o passata sul pianeta rosso, dovrebbe partire nella sua fase uno nel 2016.
Saturno. – Oltre Marte, verso i confini del Sistema solare, da oltre dieci anni attorno a Saturno e al suo sistema di anelli e lune c’è la missione Cassini-Huygens dell’ESA e della NASA. Il suo lander, Huygens, è stato il primo e finora unico veicolo spaziale a posarsi sul suolo di una luna del pianeta, ovvero Titano, la maggiore tra quelle di Saturno, la cui superficie risulta particolarmente complessa: è coperta di laghi e oceani di idrocarburi, in particolar modo metano, isole e terreni dominati da montagne e dune, ma anche poderosi criovulcani. Lo spettrometro italiano VIR e la camera ad alta risoluzione a bordo di Cassini hanno poi permesso un’accurata mappatura dei vortici che caratterizzano l’atmosfera di Saturno, specie quello dalla stupefacente forma esagonale, che si trova in corrispondenza del Polo Nord del pianeta. Gli strumenti di Cassini sono stati determinanti anche nel raccogliere informazioni dettagliate sugli anelli, permettendo di rivelare come questi siano delle strutture dinamiche e in evoluzione, influenzate principalmente dalle interazioni gravitazionali e dalle risonanze con le lune, ma anche da processi che legano i grani che li compongono con il campo magnetico del pianeta.
Sono importanti anche i risultati della missione ottenuti nello studio dei satelliti di Saturno, osservati con numerosi passaggi ravvicinati (flybys): questi corpi celesti, strani e misteriosi, sono tra loro molto diversi. Per alcuni di essi, con VIMS è stato possibile realizzare una mappatura parziale o totale della superficie, producendo delle vere mappe geologiche e composizionali di mondi finora sconosciuti, come Dione o Rea. Tra i risultati più importanti, quelli relativi a Encelado, da cui fuoriescono i plumes, getti osservati per la prima volta da Cassini nel 2005 e oggi associati all’esistenza di oceani sotterranei.
Universo. – Dallo spazio abbiamo tanti altri ‘occhi’ che osservano il cosmo in tutto l’intervallo di lunghezze d’onda della radiazione elettromagnetica, dalle microonde fino ai raggi gamma di altissima energia, spingendo le loro indagini ben oltre i confini del nostro Sistema solare e, anzi, raccogliendo le informazioni che ci portano i fotoni provenienti dai più remoti confini dell’Universo. La missione Planck dell’ESA ha ricostruito la più accurata mappa della radiazione cosmica di fondo (CMB, Cosmic Microwave Background), il cosiddetto eco del Big Bang, che ci rivela la distribuzione di materia ed energia quando l’Universo aveva appena 380.000 anni. Grazie a questi risultati siamo ora in grado di determinare con maggiore accuratezza l’età attuale dell’Universo, fissata a 13,82 miliardi di anni.
Ma anche di ‘cosa’ è riempito e in che proporzioni: la ricetta che ci indica Planck propone un 4,9% di materia ordinaria, un 26,8% di materia oscura e il rimanente, ossia un 68,3%, di energia oscura (v. universo oscuro). Non emergono però solo certezze dai risultati della missione. Ci sono alcune anomalie rispetto alle previsioni dei modelli cosmologici che dovranno essere valutate con attenzione e integrate in una revisione delle nostre teorie sulla formazione e sull’evoluzione dell’Universo. Una, in particolare, forse la più importante, riguarda lo spettro di potenza delle fluttuazioni della temperatura della radiazione cosmica di fondo: a grandi scale angolari non corrispondono a quelle previste dal modello standard. Il loro segnale, dicono i dati, è meno intenso di quanto implicherebbe la struttura a scala angolare più piccola osservata da Planck. La questione è molto complicata: provando a tradurre in un paragone più comprensibile, potremmo dire che, ascoltando la sinfonia del Cosmo primordiale, Planck s’è accorto che è un po’ carente nei suoni bassi.
Lanciato nello spazio insieme a Planck c’era Herschel, il più grande osservatorio spaziale mai costruito, con lo specchio principale del suo telescopio del diametro di 3,5 m. Per quasi quattro anni Herschel ha scandagliato il cielo nella banda della radiazione infrarossa e submillimetrica, superando le 22.000 ore di osservazioni. Herschel ha indagato in modo decisivo i processi di formazione stellare, mappando le dense e fredde nubi di materia al centro della nostra galassia, o spingendo lo sguardo all’interno di giovani sistemi planetari e stellari, per scoprire in essi abbondanti quantità di acqua. La missione europea ha rivelato in alcuni di essi una quantità di vapor d’acqua sufficiente a riempire più di 2000 volte tutti gli oceani della Terra.
In questa panoramica delle missioni spaziali dedicate all’osservazione dell’Universo non si può non ricordare il telescopio spaziale Hubble, frutto di una collaborazione tra la NASA e l’ESA. In orbita dal 1990, Hubble ha letteralmente rivoluzionato le nostre conoscenze dell’Universo, grazie alla sua posizione privilegiata, in orbita sopra il nostro pianeta a circa 560 km di quota, fuori dunque dall’atmosfera e da tutti i suoi effetti negativi sulle riprese astronomiche. Grazie anche alle missioni di riparazione e di aggiornamento in orbita della strumentazione che si sono succedute negli anni e condotte dagli equipaggi dello Space Shuttle, Hubble è ancora uno tra gli indiscussi protagonisti dell’astrofisica contemporanea. Sue le riprese superdettagliate di regioni di formazione stellare, nebulose, galassie lontane e ammassi galattici più lontani mai scoperti, che ci hanno permesso di fare passi da gigante per capire come funziona l’Universo. A confermarci che nell’Universo non siamo soli, almeno per quanto riguarda la presenza di pianeti attorno ad altre stelle, è invece la missione spaziale Kepler della NASA. Dal 2009 questo osservatorio orbitante ha permesso di individuare e confermare la presenza di oltre mille pianeti extrasolari (v.), mentre più di quattromila sono in ‘lista d’attesa’ di ulteriori indagini che possano certificare la loro natura di corpi celesti. La missione ha individuato candidati poi confermati come pianeti di taglia terrestre e di tipo roccioso. Come Kepler 78b, un pianeta dalle dimensioni e dalla densità pari al nostro, le cui caratteristiche sono state confermate grazie alle osservazioni dello spettrografo Harps-N installato al telescopio nazionale Galileo sulle Isole Canarie.
Un affascinante capitolo dell’esplorazione spaziale dell’Universo è quello rivolto a indagare il suo lato più violento (v. universo estremo). Esplosioni stellari, buchi neri, quasar, stelle di neutroni sono alcuni delle principali sorgenti di fotoni di alta energia che giungono fino a noi e possono essere raccolti e ‘decifrati’ in modo efficiente solo al di fuori dell’atmosfera terrestre.
X-ray multi-mirror mission (XMM-Newton) dell’ESA, Chandra e NuSTAR (Nuclear Spectroscopic Telescope Array) della NASA sono osservatori spaziali dedicati a questo compito e sono ottimizzati per osservazioni nei raggi X. Vi è poi il satellite Swift della NASA, con partecipazione italiana e del Regno Unito, specializzato nel dare la caccia agli elusivi lampi di raggi gamma, fenomeni che possono durare da alcuni secondi a qualche ora e che sono legati all’esplosione di supernovae o alla fusione di stelle binarie degeneri. Il campo dell’astronomia gamma dallo spazio è completato dalla missione tutta italiana AGILE (Astrorivelatore Gamma a Immagini LEggero) e da quella della NASA Fermi. Tra i successi scientifici della prima, realizzata dall’ASI con il contributo scientifico dell’INAF e dell’INFN (Istituto Nazionale di Fisica Nucleare) ci sono la scoperta dell’emissione di raggi gamma dalla nebulosa del Granchio, le improvvise e potentissime emissioni di raggi gamma da un quasar lontanissimo, ribattezzato Crazy Diamond, e la conferma che i resti di supernova sono efficientissimi acceleratori naturali di particelle: sono loro infatti le ‘fabbriche’ dei raggi cosmici. L’incessante attività di controllo del cielo nelle alte energie condotto dall’osservatorio spaziale Fermi ha portato all’identificazione, all’inizio del 2015, di oltre 3000 sorgenti di raggi gamma. Tra quelle di cui è nota con assoluta certezza la natura, ci sono 137 pulsar. Sono state le osservazioni di Fermi a portare alla scoperta di due gigantesche bolle di energia, in gran parte concentrata nei raggi gamma, che si estendono al di sopra e al di sotto del piano della nostra galassia, per ben 50.000 anni luce. Fermi si sta rivelando anche un eccellente cacciatore di lampi gamma: il suo strumento Gamma-ray burst monitor ha infatti rivelato, sempre fino a inizio 2015, oltre 1150 di questi eventi.
Bibliografia: Per le missioni sul Sole: STEREO (http://stereo.gsfc.nasa.gov/), SDO (http://sdo.gsfc.nasa.gov/), SoHO (http://sohowww.nascom.nasa.gov/). Per le missioni sulle comete e sugli asteroidi: Stardust (http://stardust.jpl.nasa.gov/home/index.html), Rosetta (http://sci.esa.int/rosetta/), Dawn (http://dawn. jpl.nasa.gov/). Per l’esplorazione di Marte: NASA (http://www. nasa.gov/mission_pages/mars/missions/), ESA (http://exploration.esa.int/mars/). Per Saturno: http://saturn.jpl.nasa.gov/. Per l’osservazione dell’Universo: Planck (http://www.cosmos. esa.int/web/planck), Herschel (http://www.cosmos.esa.int/ web/herschel), Hubble (http://www.nasa.gov/mission_pages/ hubble/main/), Kepler (http://kepler.nasa.gov/), XMM-Newton (http://sci.esa.int/xmm-newton/), Chandra (http://www.nasa. gov/mission_pages/chandra/main/), NuSTAR (http://www.nasa.gov/mission_pages/nustar/main/), Swift (http://swift.gsfc. nasa.gov/ ), AGILE (http://www.asi.it/it/flash/esplorare/agile), Fermi (http://www.nasa.gov/mission_pages/GLAST/main/). Tutte le pagine web si intendono visitate per l’ultima volta il 26 ottobre 2015.