Reitz, Edgar
Regista cinematografico tedesco, nato a Morbach (Hunsrück) il 1° novembre 1932. Inizialmente legato ad Alexander Kluge e all'avvio dello Junger Deutscher Film, colse subito un prestigioso riconoscimento con Mahlzeiten, che nel 1967 vinse il Leone d'argento come migliore opera prima alla Mostra del cinema di Venezia. Dopo un periodo di esperimenti poco fortunati, ha mostrato in pieno il suo straordinario talento di narratore, culminato nel successo internazionale dei due cicli di Heimat ‒ Eine Chronik in elf Teilen (1984; Heimat), in 11 episodi, che nel 1984 ha ottenuto il premio Fipresci alla Mostra del cinema di Venezia, e Die zweite Heimat ‒ Chronik einer Jugend (1992; Heimat 2 ‒ Cronaca di una giovinezza), in 13 episodi.
Giovane studente di provincia dalla viva curiosità culturale, R. giunse a Monaco nel 1952 e, dopo alcuni esperimenti letterari e poetici, fu subito conquistato dal cinema: già l'anno successivo realizzò due brevi documentari, Auf offener Bühne e Gesicht einer Residenz, entrambi codiretti da Bernhard Dörries e Stefan Meuschel. Seguirono esperienze professionali nel campo della produzione, della fotografia e del montaggio che gli consentirono di acquisire un notevole bagaglio tecnico e di dirigere, dal 1957, un gran numero di cortometraggi, spot pubblicitari e documentari scientifici. Firmatario del Manifesto di Oberhausen nel 1962, mise al servizio del nuovo cinema la sua esperienza professionale, per es. dirigendo la fotografia nel primo film di Kluge, Abschied von gestern (1966). Fondata la Edgar Reitz Filmproduktion, con cui avrebbe prodotto tutti i suoi film, nel 1967 realizzò Mahlzeiten, film che, alle soglie della contestazione studentesca, analizza in maniera impietosa i difficili, complessi rapporti di una giovane coppia, quasi fosse un compendio dell'alienazione borghese. Tutta la successiva attività si svolse all'insegna degli esperimenti e delle atmosfere del Sessantotto: da Cardillac (1969), film percorso, come Mahlzeiten, da una forte vena di inquietudine distruttiva e autodistruttiva, in cui si affronta il tema del disagio dell'artista nella società attualizzando un racconto di E.T.A. Hoffmann, al caleidoscopio sperimentale delle 23 storie di Geschichten vom Kübelkind (1971), diretto insieme a Ula Stöckl, o al film collettivo Das goldene Ding (1972), diretto con U. Stöckl, Alf Brustellin, Nikos Perakis, curiosa rivisitazione del mito di Giasone e del Vello d'oro interpretata da adolescenti. Con la bella commedia Die Reise nach Wien (1973), "un contributo tragicomico alla storia quotidiana del nazismo […] con i mezzi del cinema popolare" (K. Witte, in "Frankfurter Zeitung", 6.12.1974), R. tornò a una narrazione più tradizionale senza però conquistare il successo di pubblico né l'approvazione di una certa critica troppo dogmatica. Insieme allo sceneggiatore Peter Steinbach e al direttore della fotografia Gernot Roll realizzò poi Stunde Null (1977), un road movie composto di piccole storie ambientate nell''ora zero', il periodo immediatamente successivo alla fine della guerra e del nazismo; il film, caratterizzato da un 'piacere del testo', rappresenta uno dei suoi risultati migliori, quasi una prova generale in attesa di Heimat. Con l'amico Kluge collaborò ancora alla 'sinfonia francofortese' In Gefahr und grösster Not bringt der Mittelweg den Tod (1974), firmandone, ma solo sulla carta, la coregia; partecipò poi, con l'episodio Die Grenzstation, al progetto collettivo Deutschland im Herbst (1978; Germania in autunno). Der Schneider von Ulm (1978), un costoso film in costume sulla passione del volo ambientato alla fine del Settecento, si trasformò invece in un clamoroso insuccesso, tanto da mettere a repentaglio il proseguimento di un'onorata carriera.
A questo bruciante fallimento R. ha risposto, dopo anni di immobilità e di silenziosa preparazione, con Heimat, un'immensa epopea cine-televisiva di quasi sedici ore nella quale ricostruisce, alternando bianco e nero e colore, la storia tedesca dal 1919 al 1982, scrutata dall'ottica periferica di un immaginario villaggio dell'Hunsrück, la piccola regione natale del regista. Più che un seguito, il successivo Die zweite Heimat, della durata di circa 25 ore e mezzo, è un 'fermo-immagine', lievemente autobiografico e un po' nostalgico, su un personaggio (il musicista Hermann), un periodo storico (gli anni Sessanta) e un luogo (la Monaco bohémien) già sfiorati nella serie precedente, ma con la novità di un andamento ciclico (il protagonista alla fine 'torna nella sua Heimat') e di un atteggiamento 'pedagogico' da Entwicklungsroman goethiano. Sin dai suoi esordi hanno infatti convissuto in R. due anime: il generoso innovatore dei contenuti e della forma e il potente cronista di short stories. Propenso a seguire intellettualmente le proposte innovative dello Junger Deutscher Film e le suggestioni anticonformiste del Sessantotto, il regista ha però spesso dimenticato le sue doti più vere per seguire con generosità i dettati dell'engagement culturale-politico o le suggestioni del momento. Il meglio di sé l'ha dato invece quando, pur non perdendo di vista una precisa vocazione politica, ha operato sul terreno sdrucciolevole di uno stile poetico e 'micrologico' al tempo stesso, tendenza che trova il suo pieno coronamento con Heimat. Decisiva in entrambi i cicli è la scelta di una struttura diegetica basata sulla moltiplicazione di piccole storie che confluiscono nell'alveo del dettato storico, visto in modo sequenziale nel primo, circolare nel secondo, e l'invenzione di un linguaggio a tutto tondo ma sempre pronto a rovesciare le proprie regole per cercarne di nuove (per es. nell'alternanza di bianco e nero e colore, nella dilatazione estrema dei tempi narrativi ecc.). Ciò che colpisce ‒ al di là di quanto l'espressione 'piccola patria' contrapposta alla nazionalistica e limacciosa Vaterland ha evocato nel pubblico tedesco ‒ è la straordinaria capacità di conciliare Mito e Storia in un racconto calibrato su potenti suggestioni musicali e visive, nel trionfo di una narratività ordinatrice, che connette le grandi trame della realtà sociopolitica e quelle sottili dei destini individuali. Sotto questo aspetto il primo Heimat rimane insuperato per la straordinaria capacità di alternare i toni intimi della cronaca familiare a quelli torrenziali del grande film storico, di unire l'epica alla lirica, l'umorismo al dramma. Egualmente affascinante sul piano visivo, Die zweite Heimat risulta invece più modesto, schiavo di un racconto incentrato sostanzialmente sulla Bildung di un solo protagonista in un periodo di tempo circoscritto. Se al secondo ciclo manca dunque quella grandiosità del disegno narrativo per cui un villaggio dell'Hunsrück si trasformava nello specchio veritiero dell'intero pianeta, il risultato finale resta comunque iscritto a grandi lettere nella storia cinematografica degli anni Novanta.
Nel 1995 R. ha realizzato per conto del British Film Institute il contributo tedesco alla celebrazione del centenario della nascita del cinema, il documentario televisivo di montaggio Die Nacht der Regisseure (La notte dei registi); nello stesso anno interviste e materiali di questo film sono stati raccolti e pubblicati nel volume dal titolo Bilder in Bewegung: Essays, Gespräche zum Kino (trad. it. La notte dei registi, 2002). Nel 1984 era apparsa inoltre la raccolta di saggi, scritti dal regista a partire dal 1962, Liebe zum Kino.
R. Rauh, Edgar Reitz. Film aus Heimat, München 1993; R. Palfreyman, Edgar Reitz's Heimat. Histories, traditions, fictions, Oxford-New York 2000.