Il tema del danno e della sua ingiustizia è stato studiato con particolare riferimento alla problematica dell’individuazione delle situazioni giuridiche soggettive la cui lesione da parte dell’amministrazione pubblica giustifichi il ricorso da parte dei privati a rimedi risarcitori e, soprattutto, con riferimento alla questione della risarcibilità degli interessi legittimi, ferma restando la risarcibilità dei diritti soggettivi.
Uno dei principali fondamenti della tesi dell’irrisarcibilità degli interessi legittimi veniva rinvenuto nell’identificazione del danno ingiusto con la lesione di un diritto soggettivo. A sostegno di tale ricostruzione si portava innanzitutto – oltre alla formulazione letterale dell’art. 28 Cost., che prevede la responsabilità civile dei dipendenti dello Stato e degli enti pubblici per gli atti «compiuti in violazione di diritti» – una lettura dell’art. 2043 c.c. quale norma secondaria, meramente sanzionatoria della violazione di norme preesistenti, la quale non può porre nuovi doveri di condotta a carico dei consociati. Peraltro, già da molto tempo, si criticava il tentativo di cogliere il significato dell’ingiustizia del danno sulla base del rinvio a un concetto dogmatico, tra l’altro controverso, come quello di diritto soggettivo.
In sede di applicazione della clausola generale di ingiustizia, si è così progressivamente allargato l’ambito della risarcibilità, prima ristretto ai soli diritti soggettivi assoluti, riconoscendo la tutela risarcitoria anche ai diritti di credito, alle aspettative di credito, alle situazioni di fatto pur non rientranti nella tipologia dei diritti assoluti o relativi, e, infine, alle stesse aspettative «legittime», cioè fondate sulla coscienza sociale, sulle norme che regolano i rapporti interindividuali, o sulla prassi comune. La medesima giurisprudenza già considerava, poi, danno ingiusto, nei rapporti interprivati, quello arrecato agli interessi legittimi di cui i singoli sarebbero titolari nei confronti delle cosiddette autorità private.
Un grande passo avanti avveniva poi con il d.lgs. n. 80/1998, il cui art. 35 conferiva al giudice amministrativo il potere, nelle controversie relative a particolari materie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, di disporre, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto.
Un secondo fattore che ha contribuito a mettere in crisi il tradizionale orientamento di irrisarcibilità degli interessi legittimi è costituito dall’influenza del diritto comunitario, anche in termini di prevalenza di questo sugli ordinamenti degli Stati membri.
Percorrendo questa strada, la Corte di cassazione è così giunta ad affermare, con la sent. n. 500/1999, la risarcibilità ex se dell’interesse legittimo, quale «posizione di vantaggio riservata a un soggetto in relazione a un bene della vita oggetto di un provvedimento amministrativo e consistente nell’attribuzione a tale soggetto di poteri idonei a influire sul corretto esercizio del potere, in modo da rendere possibile la realizzazione dell’interesse al bene».
Tale orientamento ha trovato conferma nell’art. 7 della l. 205/2000, mediante il quale il giudice amministrativo, questa volta anche in sede di legittimità, è stato investito in maniera generalizzata della cognizione di tutte le questioni relative al risarcimento del danno. Tuttavia, per le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, «la lesione dell’interesse legittimo è condizione necessaria, ma non sufficiente, per accedere alla tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c., poiché occorre altresì che risulti leso, per effetto dell’attività illegittima e colpevole della pubblica amministrazione, l’interesse al bene della vita al quale l’interesse legittimo si correla, e che il detto interesse al bene risulti meritevole di tutela alla luce dell’ordinamento positivo». In altri termini, gli interessi legittimi non sono risarcibili in maniera indiscriminata, ma soltanto se l’attività illegittima della pubblica amministrazione determini la lesione del «bene della vita» al quale l’interesse legittimo è correlato. In relazione agli interessi legittimi cosiddetti oppositivi, la preesistenza del «bene della vita» all’esercizio del potere amministrativo determinerebbe per la Cassazione, ex se, la produzione di un danno ingiusto. Per gli interessi legittimi cosiddetti pretensivi, ovvero per quegli interessi il cui sottostante «bene della vita» è il conseguimento di un provvedimento favorevole», si rende invece necessario un «giudizio prognostico» per accertare la fondatezza della pretesa sostanziale dell’istante.
Al riguardo, è tuttavia necessario distinguere tra attività della pubblica amministrazione vincolata, tecnico-discrezionale e discrezionale pura. Nel primo caso, il giudizio prognostico può essere effettuato dal giudice amministrativo senza particolari problemi: quest’ultimo, accertata la sussistenza dei presupposti di legge, può stabilire che l’amministrazione avrebbe dovuto adottare quel determinato provvedimento favorevole. Nel caso in cui il provvedimento amministrativo sia espressione di una discrezionalità tecnica (quando cioè l’amministrazione, per decidere, deve applicare regole tecniche di varia natura, che si caratterizzano per la loro opinabilità, su cui v. Discrezionalità amministrativa), il giudizio prognostico sarebbe precluso al giudice ove si ritiene che la discrezionalità tecnica attenga al merito amministrativo, cosicché le scelte tecniche dell’amministrazione non possono essere sindacate in sede giurisdizionale; diversamente, ove si accede alla tesi secondo la quale l’opinabilità delle valutazioni tecniche non coincide con l’opportunità delle scelte amministrative che caratterizza la discrezionalità amministrativa pura, il giudice potrebbe sindacare tali valutazioni, anche attraverso l’ausilio di consulenti tecnici d’ufficio, così come oggi consentito, in via generale, dall’art. 16 l. n. 205/2000.
È viceversa evidente la difficoltà del «giudizio prognostico» quando la pubblica amministrazione goda di poteri discrezionali nell’adottare il provvedimento desiderato, poiché le valutazioni discrezionali con cui l’amministrazione decide ciò che è più opportuno e conveniente per l’interesse pubblico sono per definizione riservate all’amministrazione. In particolare, nel caso di esercizio di un potere discrezionale, il giudice non può sostituirsi all’amministrazione e non può, sempre al fine di quantificare il danno risarcibile, ricostruire l’intero procedimento, valutandone gli aspetti discrezionali. In queste ultime ipotesi, bisogna accontentarsi di una valutazione empirica della ragionevole prevedibilità di successo da parte del titolare dell’interesse legittimo leso. In tale quadro, è immediato il riferimento alla giurisprudenza sul risarcimento per procurata perdita di opportunità, intesa come perdita della possibilità o probabilità di ottenere un certo vantaggio.
Un grande dibattito è sorto in relazione ai rapporti tra l’azione diretta ad ottenere il risarcimento e l’annullamento dell’atto amministrativo illegittimo fonte del danno. Ciò che si chiedeva era se, per il risarcimento di un danno causato da un atto amministrativo invalido, fosse sufficiente l’accertamento di tale illegittimità con riferimento al caso concreto o se fosse, invece, necessario rimuovere l’atto viziato dall’ordinamento positivo con effetti erga omnes, in modo da non poter essere più fonte di ulteriori pregiudizi.
La problematica è stata oggetto di un acuto confronto interpretativo tra le due massime giurisdizioni superiori, orientata la Corte di Cassazione a sostenere l’autonomia delle due forme di tutela, convinto il Consiglio di Stato nel ribadire il necessario rapporto di pregiudizialità tra di esse.
Da un lato, si ritiene che costringere il soggetto leso da un provvedimento illegittimo ad un’impugnazione, alla quale potrebbe non avere alcun interesse, o alla rassegnazione, nel caso in cui sia incorso in decadenza, costituirebbe una lesione del principio dell’effettività della tutela giurisdizionale. Dall’altro, si sostiene che, in un regime in cui il breve termine di decadenza per l’impugnazione degli atti amministrativi è finalizzato alla salvaguardia della stabilità delle situazioni giuridiche di diritto pubblico, il giudice amministrativo non possa, con riferimento al singolo caso concreto, disapplicare l’atto illegittimo nell’ambito del solo giudizio risarcitorio.
Attualmente, la disciplina dell’azione risarcitoria per lesione di interessi legittimi, contenuta nell’art. 30 del Codice del processo amministrativo (d.lgs. n. 104/2010), rappresenta una forma di compromesso tra i due orientamenti interpretativi sopra citati. La norma stabilisce, per un verso, che la domanda risarcitoria può essere proposta entro il termine di decadenza di centoventi giorni decorrente dal giorno in cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo, e, per l’altro, che nel determinare il risarcimento, il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti.