coscienza
Che cosa si prova a essere qualcuno
La coscienza, o coscienza di sé, è un fenomeno di cui tutti abbiamo esperienza, e non solo da svegli. Sensazioni, emozioni, sogni, pensieri, consapevolezza implicano tutti, anche se in modo diverso, stati che definiamo 'coscienti'. Avere coscienza di sé non significa tanto sapere chi si è, o in che cosa consiste la continuità del proprio Io nel tempo, ma sapere che cosa si prova a essere una certa persona
Ci si può fare il solletico da soli? E perché, quando sono altri a farcelo, l'effetto è più marcato se siamo colti di sorpresa? Rispondere a queste domande, già piuttosto 'solleticanti' in sé, può essere un buon punto di partenza per rispondere a un interrogativo ben più difficile e impegnativo: che cos'è la coscienza? Anzi, che cos'è la coscienza di sé?
La risposta più onesta è che non lo sappiamo, o non lo sappiamo ancora con certezza. Sulla natura della coscienza esistono molte ipotesi diverse, scaturite dai progressi continui delle nostre conoscenze sul funzionamento del cervello, il 'supporto' senza il quale nessuna coscienza è possibile. Nessuna di queste ipotesi, però, a tutt'oggi appare definitiva (v. fig.).
"Il cervello - è più grande del cielo - / Perché - mettili fianco a fianco - / L'uno l'altro conterrà / Con facilità - e Te - in aggiunta". Così scriveva la grande poetessa inglese Emily Dickinson nel 1862.
Ciò che è più grande del cielo, il nostro cervello, negli adulti pesa 1.300÷1.400 g. Il cervello, formato da un centinaio di miliardi di neuroni, collegati da milioni di miliardi di sinapsi, contiene tutto il nostro mondo: dunque contiene anche la nostra coscienza.
Secondo il premio Nobel Gerald M. Edelman, la coscienza è un "prodotto dell'evoluzione", della lunga storia dell'uomo, che a sua volta proviene da altre specie animali, e non una "sostanza cartesiana", cioè la res cogitans di Cartesio, una "sostanza pensante" immateriale, da contrapporre al corpo e alla materia, avvolta nel mistero e "inaccessibile mediante l'indagine scientifica". Oggi gli scienziati propendono per una teoria biologica della coscienza, sorretta da una serie sempre più consistente di dati emersi dagli studi sul cervello, che negli ultimi anni hanno fatto enormi progressi.
Antonio Damasio, uno tra i primi neuroscienziati a svolgere esperimenti per capire che cosa succede nel nostro cervello, fece per caso un'importante scoperta. Per curare una paziente affetta dal morbo di Parkinson, le aveva impiantato alcuni piccoli elettrodi nel tronco encefalico e, attraverso il passaggio di corrente elettrica a bassa intensità e alta frequenza, cercava di modificare il funzionamento di alcuni nuclei motori. Al passare della corrente, quando l'esperimento funziona, i pazienti affetti da Parkinson riescono a compiere movimenti precisi con le mani e a camminare in maniera normale. A un certo punto però, per sbaglio, la corrente fu fatta passare in un elettrodo collocato due millimetri al di sotto di quello che aveva avuto gli effetti desiderati. All'improvviso la donna assunse un'espressione di cupa tristezza. Poi cominciò a piangere e l'atteggiamento di tutto il corpo trasmetteva il senso di una profonda infelicità. Si noti che la donna non aveva mai sofferto di depressione, né prima né dopo l'insorgenza del Parkinson, e non era mai stata soggetta a sbalzi di umore. Tutto era determinato dal passaggio della corrente in quel punto particolare del tronco encefalico. Nel giro di pochi istanti, la donna passò a una sconsolata descrizione verbale della propria infinita tristezza: preoccupazione per la propria salute, affaticamento, delusione nei confronti della vita, desiderio di morte.
Che cosa era successo? La corrente era fluita in uno dei nuclei encefalici preposti al controllo di quell'insieme di azioni che producono l'emozione che chiamiamo tristezza: i movimenti della bocca, della laringe, della faringe e del diaframma necessari per piangere e singhiozzare. Ma la cosa sorprendente era il modo in cui si era sviluppata la sequenza che aveva portato la donna dalla sensazione di tristezza, ingenerata dal flusso elettrico, a una serie di pensieri improntati alla tristezza: in altre parole, dalle manifestazioni esteriori e fisiche di tale emozione a quella riflessiva e consapevole, cioè cosciente del sentimento 'tristezza'.
Benché ci siano ancora molti sostenitori dell'idea che la coscienza (o lo spirito, o l'anima) sia separata dal corpo che la ospita, la scienza ‒ e tanto meno altre forme di conoscenza ‒ non ci fornisce prove dell'esistenza di una coscienza indipendentemente dal corpo. Tutto sembra dimostrare che, al contrario, tolta la base materiale, la coscienza svanisce. La coscienza "emerge dall'organizzazione e dall'attività del cervello", come ha scritto Edelman. "Quando la funzione cerebrale viene ridotta ‒ da un'anestesia profonda, dopo certe forme di trauma cerebrale, dopo un ictus e in certe fasi limitate del sonno ‒ la coscienza è assente".
Possiamo allora definire la coscienza come qualcosa che, grazie a certi meccanismi di autocontrollo e di autoregolazione, ci permette di mediare tra i tanti stimoli e le tante sensazioni che riceviamo, di programmare il futuro senza dimenticarci, a mano a mano che procediamo, quali erano i nostri piani. Il linguaggio e la memoria ci aiutano a tenere la rotta, a sentire che siamo sempre noi e non un altro ad agire nelle diverse fasi della nostra vita. Molti condividono l'idea che esista un luogo ben preciso nel cervello in cui di fatto si prende coscienza di una cosa, un luogo in cui i dati del pensiero e della percezione come per magia si organizzano in maniera coerente.
Contro questa idea il filosofo statunitense Daniel Dennett, sulla base di molti studi sulla percezione e sull'intelligenza artificiale, ha proposto il modello delle "molteplici versioni", usando la metafora della "continua revisione editoriale" del nostro flusso di coscienza. Alcune revisioni avvengono istantaneamente, come quella che fa sì che, nel normale processo della visione, i movimenti velocissimi degli occhi non vengano percepiti ma producano immagini fisse; altre hanno bisogno di un processo più lungo. In questo lavoro editoriale, che avviene a molteplici livelli, non tutto viene fissato dalla memoria; anzi, la maggior parte del lavoro scompare senza lasciare traccia, e tuttavia questo prezioso lavorio contribuisce a costruire l'identità consapevole dell'Io.
Tornando alla domanda iniziale ‒ ci possiamo fare il solletico da soli? ‒ la risposta è piuttosto semplice. Uno degli ingredienti fondamentali della coscienza è l'autoconsapevolezza. Non ci si può fare il solletico da soli perché il cervello sa benissimo che stiamo inviando il comando di fare il solletico. La cosa interessante è che uno dei più importanti neuroscienziati di oggi, Vilayanur S. Ramachandran, non esclude che uno schizofrenico non possa ridere del proprio stesso solletico. E anzi considera questo e altri disturbi della coscienza e del sé una via privilegiata per capire in che modo funzioni un sé sano, che non riesce a farsi il solletico.
Oggi è possibile 'vedere' concretamente in che misura la coscienza dipenda dal cervello che la ospita. Si può fare sedere un uomo su una macchina particolare e chiedergli di chiudere gli occhi e di immaginarsi il proprio gatto mentre miagola o si lava, e simultaneamente registrare la sua attività cerebrale. Poi si può confrontare questa immagine con una foto dello stesso gatto. Così si può capire, per esempio, qual è la differenza tra immaginare il proprio gatto e vederne un'immagine. In altre parole, con queste macchine si può vedere come funzionano la nostra vita mentale, i nostri pensieri e le nostre sensazioni, e porsi domande che prima non avevano senso.