coscienza
Consapevolezza che il soggetto ha di sé stesso, del mondo esterno con cui è in rapporto, della propria identità e del complesso delle proprie attività interiori. In filosofia il termine c. assume un significato che va oltre quello della semplice consapevolezza psicologica e acquista un valore teoretico in quegli autori che intendono la c. come interiorità e fanno del ritorno alla c., del raccoglimento in sé stessi, lo strumento privilegiato per cogliere verità fondamentali, altrimenti inaccessibili.
Tale dottrina ha le sue origini nella filosofia neoplatonica e in particolare nell’opera di Plotino, per il quale l’anima, raccogliendosi in sé stessa, si ricongiunge con il principio divino, ripercorrendo in senso inverso il processo emanativo che va dall’Uno ai molti. Ripreso dalla filosofia cristiana, il tema della c. come interiorità trova pieno sviluppo in Agostino d’Ippona. L’espressione agostiniana «in interiore homine habitat veritas» implica che nella sua ricerca l’uomo deve trascendere le cose del mondo esterno e la sua stessa natura psicologicamente mutevole per cogliere in fondo all’anima la sua radice; radice che Agostino identifica con il verbo divino, che è luce di verità in quanto dona all’uomo le rationes aeternae, principio e fondamento di ogni giudizio.
Il tema agostiniano dell’appello all’interiorità come garanzia contro lo scetticismo si ripresenta nella formula «cogito ergo sum» posta da Cartesio a fondamento della sua gnoseologia e della sua metafisica. Inteso come pensiero in senso lato, come mente in tutte le sue manifestazioni, il «cogito» coincide con la c. concepita come il complesso dell’attività interiore dell’uomo. Se la mente è immediatamente cosciente dei contenuti a essa presenti, si può dubitare della loro verità, ma non della loro presenza alla c.: di qui il suo porsi come funzione e sostanza insieme, come sostanza pensante appunto, in grado cioè di raggiungere la verità.
La concezione cartesiana della c. come soggettività influenzò profondamente la filosofia moderna. Per Locke la c. non è altro che «la percezione di ciò che passa nella mente di un uomo», vale a dire delle sue idee: alla c. rinvia dunque ogni possibile esperienza delle cose esterne in quanto di esse ci formiamo idee. Questa impostazione avrà notevoli conseguenze nei successivi sviluppi della tradizione empirista che da Locke prese le mosse, rendendo problematico il rapporto di corrispondenza tra le idee e la realtà esterna. Se la conoscenza certa veniva fatta consistere da Locke unicamente nella percezione della connessione e dell’accordo tra le nostre idee, diventava reale il rischio che il richiamo alla c. impedisse alla mente di uscire dal cerchio delle idee del soggetto. A estremizzare questa impostazione intervenne l’immaterialismo di Berkeley, compendiato nella formula «esse est percipi». L’esperienza ci dice che non possediamo altro che le nostre percezioni; i corpi esterni, le cosiddette sostanze materiali, la res extensa di Cartesio, non sono che proiezioni della mente, cui dobbiamo rinunciare per attenerci unicamente alle pure sensazioni. Se da una parte l’esito della filosofia di Berkeley, in polemica con la scienza meccanicistica, era la smaterializzazione della natura per risolverla nell’arbitrio di Dio, dall’altra parte l’analisi delle idee avviata da Cartesio e Locke conduceva, con diversi esiti, alla scienza della natura umana di Hume, che negava la possibilità di fondare su basi razionali la credenza in un mondo indipendente dalle percezioni e nella stessa identità personale.
In un contesto fortemente critico nei confronti dell’empirismo lockiano, il tema della c. fu sviluppato da Leibniz nell’ambito della sua concezione delle monadi. Le monadi sono nella loro essenza rappresentazione, percezione e si dispongono secondo una scala gerarchica che va dal grado più basso al più elevato; mentre le percezioni appartengono anche agli animali e alle piante, nell’anima umana la percezione si accompagna all’appercezione che è la capacità di riflettere sulle percezioni stesse, è la coscienza. Ma l’anima, come tutte le monadi è un microcosmo indipendente, che contiene in sé la legge del proprio sviluppo, e come tale non ha contatti diretti con le monadi fuori di sé. Si riapriva così il problema del rapporto della c. con il mondo esterno, che Leibniz risolse postulando una forma di corrispondenza tra i vari ordini di monadi grazie al principio dell’armonia prestabilita da Dio all’atto della creazione. Anche Kant identificò la c. con l’appercezione, impegnandosi tuttavia nella sua analisi a salvare la convinzione dell’esistenza di un mondo esterno alla coscienza. Distinse tra appercezione pura trascendentale (Io penso) e appercezione empirica. Quest’ultima si identifica con l’esperienza interna, variabile e soggettiva, mentre la prima è c. logica pura, polo di unificazione di tutte le rappresentazioni: essa costituisce l’aspetto formale della c., presupposto e condizione della c. empirica che come tale è sempre determinata in rapporto alla realtà esterna. Contro l’idealismo immaterialistico di Berkeley, Kant parlò di uno «scandalo per la filosofia e il senso comune» a proposito del fatto che «l’esistenza delle cose esteriori» si dovesse ammettere «semplicemente per fede».
In un contesto diverso dal trascendentalismo kantiano, ma con esiti per certi versi convergenti, al ‘senso comune’ fecero appello gli scrittori scozzesi della seconda metà del Settecento che intesero ricondurre all’autorità della c. la validità di nozioni fondamentali, quali la realtà del mondo esterno, l’identità personale e il rapporto tra mondo e Dio, minacciate di scepsi universale dagli sviluppi della teoria di Locke e dei suoi seguaci, che aveva finito con il frapporre tra la c. e la realtà lo schermo invalicabile delle idee. Per uscire dal vicolo cieco in cui con Hume, secondo Th. Reid, si era cacciata la filosofia moderna, occorreva recuperare quelle verità che il senso comune attesta inconfutabilmente, e la credenza nelle quali si basa sulla forza di principi che sono costitutivi della coscienza. Nella prima metà dell’Ottocento la scuola del senso comune si sviluppò in quella forma di intuizionismo contro cui si mosse costantemente J.S. Mill nella sua rielaborazione logico-epistemologica dell’empirismo. Mill negò che la c. potesse essere fonte autonoma di conoscenze, sia in materia di gnoseologia sia in campo etico e religioso, affidando all’esperienza regolata dai criteri dell’induzione ogni possibile ricerca di verità. In contrapposizione all’ultimo esponente della tradizione scozzese, W. Hamilton, Mill condusse raffinate analisi dei fenomeni della c. sulla base dei processi di associazione delle idee, approfondendo una linea di ricerca di origini settecentesche e tornata d’attualità grazie all’opera del padre James Mill.
L’analisi della c. in chiave di associazione delle idee si arricchiva di nuove prospettive alla luce della versione evoluzionistica della dottrina avanzata da Spencer, e mentre il materialismo dell’Ottocento riduceva la c. a epifenomeno di processi organici, lo studio degli stati di c. entrava sempre più decisamente, nell’ambiente positivistico della seconda metà dell’Ottocento, nel dominio della psicologia sperimentale. A cavallo tra ricerca psicologica e filosofia, W. James elaborò un’interpretazione della c. come «corrente psichica» e flusso continuo. Ma è con la reazione antipositivistica tra Otto e Novecento che la filosofia si riappropriò del tema della coscienza. Ricollegandosi alla tradizione spiritualistica francese dell’Ottocento, che riconosceva nella c. un accesso privilegiato alla conoscenza di sé, facendone il fondamento di ogni speculazione, Bergson individuò nella «durata reale» la vita stessa della c., distinta dal «tempo spazializzato» che è la dimensione dell’esteriorità e della scienza.
La teoria filosofica della c. più rilevante del Novecento è quella proposta dalla fenomenologia di Husserl, che riprendendo la tradizione cartesiana innestò su di essa la nozione di intenzionalità di Brentano, liberandola da ogni residuo psicologismo. In questa accezione carattere precipuo della c. è il trascendimento di sé, il porsi cioè in rapporto con un oggetto. Attraverso la «riduzione fenomenologica», consistente nel «mettere tra parentesi» il mondo in cui viviamo, compresi ogni nostro interesse e particolarità soggettiva, ciò che resta è una pura c., un «cogito» capace di rapportarsi a pure essenze ideali, rendendo possibile il conseguimento di una rigorosa scienza filosofica. Su posizioni critiche nei confronti della riaffermazione dell’interiorità della c. come approccio privilegiato alla ricerca filosofica si sono espressi, nel corso del Novecento, autori appartenenti prevalentemente alla tradizione analitica anglosassone. È il caso di Ryle, che partito da interessi prossimi alla fenomenologia husserliana si è poi indirizzato, sotto l’influsso di Russell e della «filosofia del linguaggio ordinario» di Wittgenstein, ad analizzare la radice linguistica degli «errori categoriali» implicati in alcune teorie filosofiche. Esempio tipico di questi errori è per Ryle il dualismo cartesiano, cui viene imputato di aver ipostatizzato il termine «mente», chiamandolo a designare qualcosa di eterogeneo e di addizionale rispetto all’insieme dei comportamenti. In ciò Ryle mostrava punti di contatto con l’indirizzo comportamentistico affermatosi in psicologia, che in polemica con le filosofie e psicologie coscienzialistiche individuava come oggetto di ricerca il comportamento manifesto, l’unico osservabile e descrivibile in termini oggettivi. Oggi, dopo essere stato a lungo uno dei temi privilegiati della riflessione filosofica, lo studio della c. è affrontato prevalentemente dai nuovi metodi di indagine messi a punto nell’incontro tra la filosofia della mente, le scienze cognitive e le neuroscienze.