Fantastico, cinema
Tra i generi cinematografici, il fantastico appare forse il meno facilmente definibile, presentando numerose tangenze con l'horror, l'avventura, la fantascienza, la fantasy ecc., e aprendosi alle contaminazioni più disparate. Tanto è vero che alcuni studiosi hanno preferito caratterizzarlo come un metagenere, in ultima analisi coincidente con il cinema stesso, ponendo l'equazione ontologica, non priva di stimoli accattivanti, cinema uguale fantastico. D'altra parte, anche se si volesse appiattire tutto il cinema, compreso quello tradizionalmente considerato 'realistico', alla Lumière, sul versante del fantastico, bisognerebbe distinguere sin dalle origini un fantastico/Lumière da un fantastico/Méliès. Metodologicamente occorre invece delimitare i confini, certo labili, o meglio, elastici, del c. f., non solo per evidenziare le differenze rispetto ai generi affini, ma anche per sottolinearne la filiazione diretta dalla grande letteratura romantica dell'Ottocento (a partire almeno da E.T.A. Hoffmann) e la coincidenza, non solo temporale, con gli studi di S. Freud sul 'perturbante' (1919). Meno pertinente appare, invece, il ricorso a una categoria come l'esitazione tra due tipi di spiegazione possibili (quella naturale e quella soprannaturale) addotta da Tz. Todorov nella sua classica Introduction à la littérature fantastique, non tanto in ragione di una sua specifica rigidità, quanto perché la produzione cinematografica sembra quasi temere (salvo eccezioni) che lo spettatore medio possa ritenersi deluso da una troppo prolungata oscillazione narrativa sul confine tra realistico e fantastico, optando per sua natura verso il realismo (e quindi la realtà, spettacolarizzata al massimo) del fantastico, e ricorrendo semmai (ma di rado) alle scappatoie dell'allucinazione, delle visioni indotte dalla pazzia o dall'ipnosi, che non incrinano necessariamente questo realismo.
Il cinema di Georges Méliès, padre dei trucchi cinematografici e principale responsabile della precoce spettacolarizzazione di una pratica che sarebbe potuta rimanere nell'ambito della curiosità per famiglie o della ricerca scientifica, resta sempre nell'ambito del fiabesco. Le sue dissolvenze incrociate, le sue metamorfosi, i suoi trucchi visivi, le sue trasformazioni a vista (che attingono al repertorio 'magico' della prestidigitazione) non mirano a insinuare nello spettatore un dubbio sull'incertezza del regime di realtà e sulla consistenza dei fantasmi, ma a meravigliare, come meraviglierebbe vedere animarsi a un tratto le pagine di un libro per bambini. Méliès è il re della favola cinematografica (che si svilupperà in un genere non floridissimo, spesso legato alla fruizione infantile, come la fantasy), non del fantastico propriamente detto, e ciò anche in quei prodotti che, teoricamente, vi si sarebbero prestati, come, per es., Les 400 farces du diable (1906), in cui l'aspetto farsesco dei trucchi prevale nettamente sull'aspetto 'diabolico'.
Una vera e propria assunzione del fantastico nel cinema avvenne in effetti solo con lo sviluppo delle cinematografie nordiche, e di quella tedesca in particolare, che ne stabilirono canoni e procedimenti, negli anni Dieci e Venti, attraverso la proposizione di esempi 'd'autore' (da Paul Wegener a Friedrich W. Murnau, da Victor Sjöström a Fritz Lang) centrati su figure e temi dell'immaginario popolare e della letteratura fantastica: anche se una sua effettiva codificazione come genere si verificò poi soltanto a Hollywood (grazie anche al contributo di emigrati come Paul Leni, Edgar G. Ulmer, Karl Freund, Rudolph Maté ecc.).
Se gli elementi fortemente tipizzati della fantascienza, che pure includono aspetti fantastici quasi per definizione, ne fanno un genere a parte, non appare convincente neppure l'identificazione del fantastico con l'horror. L'orrore infatti non è necessariamente legato al fantastico, in quanto fondamentalmente nasce come rifiuto viscerale nei confronti di visioni 'realistiche' più o meno insostenibili; si produce nell'immediatezza del brivido, come il senso di ripugnanza scatta di fronte a certi animali (ratti, ragni …), certe deformità, certe ferite, anche se apparizioni e metamorfosi mostruose, per es., possono essere contemporaneamente fantastiche e repulsive. Per questo, forse, si è parlato del Nosferatu ‒ Eine Symphonie des Grauens (1922) di Murnau come di una sinfonia dell'orrore, sottintendendo il fatto che si tratta di un orrore metafisico. Contrariamente ai vampiri tenebrosi ma affascinanti di Bela Lugosi o Christopher Lee, a quelli giovani e sexy di Gary Oldman, Brad Pitt o Tom Cruise, ai vampiri-donna (a partire dal film di Carl Th. Dreyer; v. oltre: Percorsi del fantastico), Nosferatu (Max Schreck) si presenta come una contaminazione inquietante di caratteri animali (orecchie aguzze, dita artigliate, gusto per il sangue) e di estrema, esangue decrepitezza, non morto, forse, ma d'aspetto cadaverico, fantasma vivente sull'orlo della decomposizione. Il suo carattere fantastico sta in questo, più che nel fatto di essere vampiro.Di sicuro, però, le origini del c. f. si confondono con quelle del film del terrore nei primi adattamenti da opere letterarie, da M. Shelley (Frankenstein), R.L. Stevenson (Dr. Jekyll and Mr. Hyde), E.A. Poe ecc., prodotti dalla Edison, dalla Danish Nordisk Company, dalla Universal di Carl Laemmle. Solo nei grandi classici dell'Espressionismo tedesco (e delle cinematografie nordiche) il fantastico prevale nettamente, investendo con un'aura inquietante l'intero corpo del film, inteso come oggetto espressivo compatto. Successivamente, quando a Hollywood venne codificato e sviluppato il vero e proprio genere horror, pur se questo assunse all'inizio alcuni degli elementi tipici dell'Espressionismo (giochi di luci e ombre, atmosfere misteriose, ambientazione mitteleuropea ormai ricostruita in studio secondo pa-rametri convenzionali), ben presto vennero relegate sullo sfondo ogni ambiguità e inquietudine sottile, in direzione di quella spettacolarità della paura verso la quale, del resto, il cinema era ormai spinto dal sonoro e, più tardi, dal colore.Gettando uno sguardo retrospettivo sulla storia del cinema si può cedere alla tentazione di caratterizzare il fantastico come 'cinema delle ombre' rispetto a un cinema di carne e sangue (o meglio, spesso, dei loro surrogati). Scriveva Antonin Artaud, consapevole di affrontare aspetti attinenti all'ontologia stessa del cinema: "C'è nel cinema tutta una parte di imprevisto e di mistero che non si trova nelle altre arti. È certo che qualsiasi immagine, anche la più secca o la più banale, arriva sullo schermo trasposta. […] Per il fatto di isolare gli oggetti il cinema dona loro una vita a parte che tende sempre di più a divenire indipendente e a distaccarsi dal senso ordinario degli oggetti medesimi. […] Il cinema dovrà avvicinarsi sempre di più al fantastico, quel fantastico di cui ci si accorge sempre meglio che è in realtà tutto il reale, altrimenti morirà" (Sorcellerie et cinéma, 1927, poi in À propos du cinéma, 1961; trad. it. 1981, pp. 35-37). Se l'immagine "più secca e più banale" si carica, nel cinema, di un certo margine d'imprevisto e di mistero, se il fantastico "è tutto il reale" si ritorna all'equazione cinema (in sé) uguale fantastico; in realtà, Artaud sapeva bene che il cinema poteva seguire, e di fatto stava seguendo, altre strade, e temeva per esso un destino di "vecchiaia precoce": ed era altrettanto consapevole perciò del fatto che il fantastico, non necessariamente coincidente con le visioni, i sogni, i trucchi, le allucinazioni, le ombre dell'inconscio, doveva costituirne l'elemento vitale.Per G. Lenne (1985), invece, la figura centrale del fantastico è quella del mostro, di ciò che infrange le leggi della normalità, sia essa temporale (per es., il risveglio della Mummia), spaziale (il gigantismo di King Kong) o sociale (i delitti di Mr. Hyde). A questo proposito, egli identifica due modalità fondamentali, simboleggiate dai personaggi di Dracula e Frankenstein: qualcosa di esterno, una minaccia proveniente dall'esterno, invade l'uomo e lo trasforma (i vampiri e i vampirizzati; o anche, nell'ambito della fantascienza, i corpi umani ridotti a docili contenitori di entità aliene); l'uomo stesso, per protervia, crea qualcosa che si ritorce contro di lui (lo scienziato come apprendista stregone).
Il periodo d'oro del cinema fantastico, o meglio, quello in cui esso si dispiega nella sua piena specificità, coincide, per quanto detto, con il 'cinema delle ombre' (tedesco e nordico), a partire da Der Student von Prag (1913) di Stellan Rye, Der Golem (nelle due versioni del 1915, di Henrik Galeen, e del 1920, di P. Wegener e Carl Boese) e Das Cabinet des Dr. Caligari (1920; Dott. Calligari, noto anche come Il gabinetto del dottor Caligari) di Robert Wiene, anche se non è possibile sottovalutare, sul piano storico, due esempi americani come The avenging conscience (1914) di David W. Griffith (da E.A. Poe) e Trilby (1915) di Maurice Tourneur (storia di un malefico ipnotizzatore). Un filo diretto, nel nome di E.T.A. Hoffmann, lega Trilby a Scapinelli (il mago malvagio cui lo studente di Praga ha la sventurata idea di vendere il suo riflesso), al dottor Caligari, altro maligno ipnotizzatore, al dottor Mabuse di Lang e via via a tutti gli altri, fino a Invincible (2001) di Werner Herzog, che coniuga una storia di ipnotismo e magia ambientata nel periodo del Terzo Reich con le suggestioni del Golem. Scapinelli e Caligari sono dotati addirittura di un costume molto simile, quasi un segnale di riconoscimento: cappello nero tronco-conico, guanti, mantello e bastone neri, occhiali a pince-nez, strano modo d'incedere. Le differenze vertono sulla materializzazione dell'universo complessivo del film rispetto al set: Caligari induce l'insorgere di un mondo fantastico del tutto artificioso, completamente ricostruito in studio, senza rapporto con il reale, di cui sono indizi inequivocabili le scenografie sghembe e la recitazione espressionista, dove ogni gesto si carica di un simbolismo esasperato; in un film come Nosferatu, invece, girato in ambienti naturali e in una vera città (Brema), l'inquietudine, il malessere nascono dal disvelamento del lato oscuro del reale, ottenuto con mezzi specificamente cinematografici (stampa in negativo, sovrimpressioni ecc.), come era già accaduto per Körkarlen (1920; Il carretto fantasma) dello svedese V. Sjöström, che coniuga le apparizioni fantasmatiche con l'aspetto, già di per sé spettrale, del bianco paesaggio nordico. Questa idea di fantastico è la più vicina alla concezione freudiana del 'perturbante': percorse da Nosferatu o dai cortei funebri con le bare degli appestati, le strade di Brema, appena rischiarate, anche di giorno, da una luce crepuscolare, sono un esempio perfetto di ambienti familiari la cui visione diviene all'improvviso estranea e inquietante. È lo stesso effetto sul quale farà leva Vampyr (1931) di Dreyer, girato in ambienti veri e nella campagna francese, immerso (grazie anche alla fotografia di R. Maté) in una strana luminosità, una specie di notte bianca nordica, invece che, come accade di solito con film di questo tipo, in antri notturni, cupi e bui. Per questo Vampyr è il regno delle ombre staccate dai corpi, delle ombre che diventano protagoniste in una proporzione tale da avere pochi precedenti nell'ambito stesso dell'Espressionismo tedesco: forse gli è pari solo, su questo piano, Schatten ‒ Eine nächtliche Halluzination (1923) di Arthur Robison, dove un mago illusionista, creatore di spettacoli di ombre cinesi, arrivando a una festa di nobili, adopera le loro ombre per animare, a fini catartici, lo spettacolo di un dramma cruento della gelosia. L'avvento del sonoro rese per sempre impossibile lo sviluppo ulteriore di un 'cinema delle ombre', dato che il realismo delle voci ha bisogno più che mai della concretezza dei corpi. E così si attuò il passaggio dagli incubi espressionisti alle rigide codificazioni produttive hollywoodiane, in vista di film espressamente pensati per un pubblico di massa. Dopo il primo horror interamente parlato (The terror, 1928, di Roy del Ruth), l'impalpabile Nosferatu di Murnau si trasformò nell'inquietante Bela Lugosi del Dracula (1931) di Tod Browning, prodotto dalla Universal, casa di produzione che si sarebbe specializzata in un filone in cui fantastico e horror risultano strettamente intrecciati. Negli anni Trenta, James Whale diresse Frankenstein (1931), con Boris Karloff, e poi The invisible man (1933; L'uomo invisibile), per i quali risultò fondamentale l'apporto di un direttore della fotografia come Arthur Edeson nel calibrare il gioco di ombre e luci che così fortemente connota il genere, e di un maestro del maquillage come Jack Pierce, artigiano pazientissimo e geniale, rovinato dall'avvento delle maschere di lattice. Fu lui a ideare e realizzare il trucco di Karloff e poi di Elsa Lanchester in The bride of Frankenstein (1935; La moglie di Frankenstein) dello stesso Whale, della mummia (sempre Karloff) in The mummy (1932; La mummia) di Karl Freund, dell'uomo-lupo in The wolf man (1941; L'uomo lupo) di George Waggner, il primo dei veri e propri serial prodotti dalla Universal negli anni Quaranta. Da ricordare inoltre le due versioni di Dr. Jekyll and Mr. Hyde, quella di Rouben Mamoulian, del 1932, con Fredric March, e quella di Victor Fleming, del 1941, con Spencer Tracy. Ma fu soprattut-to King Kong (1933) di Merian C. Cooper e Ernest B. Schoedsack a costituire il testo capitale del fantastico hollywoodiano e a fornire repertori iconografici per gli incubi dell'età tecnologica, partendo da materiali mitici.Negli anni Quaranta realizzò opere di notevole interesse anche la produzione indipendente di Val Lewton, esclusa dall'universo delle majors, ma tutt'altro che trascurabile sul piano espressivo, specialmente per la serie di film diretti da Jacques Tourneur, figlio di Maurice, tra cui Cat people (1942; Il bacio della pantera), I walked with a zombie (1943; Ho camminato con uno zombie), b-movies a basso budget che riuscivano a creare atmosfere fantastiche con mezzi artigianali, ma assolutamente funzionali al racconto. Si sviluppò parallelamente, in funzione dei diversi tipi di pubblico, il filone fantasy, rivolto soprattutto, anche se non esclusivamente, a un pubblico infantile, che privilegia l'universo della favola al cui interno nulla più appare impossibile, mentre lo straordinario si tramuta in normale, secondo il prototipo della fiaba alla Méliès. In The wizard of Oz (1939; Il mago di Oz) di Fleming non desta nessuna meraviglia il fatto che le case volino, le streghe cavalchino nell'aria, gli spaventapasseri parlino. Questo non significa che, proprio da parte di quel pubblico infantile cui simili prodotti sono destinati (si pensi anche a un film d'animazione come Snow White and the seven dwarfs, 1937, Biancaneve e i sette nani, diretto da David Hand e prodotto da Walt Disney), non si verifichino reazioni di inquietudine, legate a personaggi (come quello della strega) caratterizzati come malvagi. D'altra parte, l'assenza di un principio dialettico alternativo, rappresentato da esseri infidi che insidiano la serenità e la felicità del nucleo familiare, avrebbe rappresentato in seguito il punto debole di nu-merosi film che coniugano la favola con il musical, sul tipo di Mary Poppins (1964) di Robert Stevenson (pro-duzione Disney), mentre la presenza di un antagonismo di questo tipo (per es., la lotta di un bambino contro le forze del Male) renderà più inquietanti, ma anche più interessanti, film come Die unendliche Geschichte (1984; La storia infinita) di Wolfgang Petersen.
Se un 'cinema delle ombre' propriamente detto, nelle mutate condizioni produttive, non fu più possibile, se ne ritrova un curioso surrogato in quello che si potrebbe definire il filone dei fantasmi, dove persone defunte si mescolano a quelle viventi, interagendo con alcune ma rimanendo invisibili alla maggior parte di esse. Poiché, ovviamente, questi esseri 'immateriali' sono invece ben visibili agli spettatori, perché interpretati da attori, è una 'convenzione d'invisibilità' a prendere il posto della 'condizione d'ombra' espressionista, senza che il corpo, supposto invisibile, abbia bisogno di scomparire realmente. Rientrano in questo ambito film come il delizioso The ghost and Mrs. Muir (1947; Il fantasma e la signora Muir) di Joseph L. Mankiewicz, dove è il capitano di mare interpretato da Rex Harrison ad apparire come fantasma alla giovane vedova (Gene Tierney), o il suggestivo, impalpabile Portrait of Jennie (1949; Il ritratto di Jennie) di William Dieterle, in cui è invece un pittore (Joseph Cotten) a innamorarsi del fantasma di una fanciulla (Jennifer Jones). Questo particolare amalgama di fantastico e melodramma, basato sullo scambio 'impossibile' tra il regno dei morti e quello dei vivi, è arrivato sino agli anni Novanta con un'accentuazione delle sfumature mélo e dell'aspetto sentimentale non privo di toni da commedia (per es., in Always, 1989, Always ‒ Per sempre, di Steven Spielberg; in Ghost, 1990, Ghost ‒ Fantasma, di Jerry Zucker, ma anche nel tenero Casper, 1995, di Brad Silberling), nonché dell'aspetto consolatorio che rivela come l'esigenza di incursione nei territori del 'non noto', della vita dopo la morte, del soprannaturale, così legata alle ansie e alle paure di fine millennio, risponde, anche nel cinema, all'istanza di superare i limiti della razionalità e delle vicende terrene non per sondare l'indicibile o il mistero ma per trovarvi rassicurazioni (anche in un film come The sixth sense, 1999, The sixth sense ‒ Il sesto senso, di M. Night Shyamalan, in cui il bambino protagonista acquisisce una consapevolezza positiva della propria capacità di 'vedere' e di entrare in rapporto con i morti che continuano a vagare nel mondo dei vivi). Infine, in un film come The others (2001) di Alejandro Amenábar, la tensione si basa sulla voluta incertezza in cui è lasciata ogni determinazione temporale e sul voluto capovolgimento del punto di vista (chi sono gli 'altri' rispetto a chi). Invece la figura del fantasma come angelo rassicurante era già comparsa in It's a wonderful life (1946; La vita è meravigliosa) di Frank Capra, in cui un angelo 'di seconda classe' mostra a un disperato George Bailey (James Stewart), che vorrebbe non essere mai nato, come sarebbe stato orribile il mondo senza di lui. Sempre nel 1946, Michael Powell ed Emeric Pressburger avevano diretto A matter of life and death (Scala al paradiso), capolavoro della fantasy, dove il morto (David Niven) torna in vita per errore e poi, giustamente, si rifiuta di ritran-sitare nell'aldilà. Da ricordare anche Fantasmi a Roma (1961) di Antonio Pietrangeli, basato, ancora una volta, sulla 'convenzione di invisibilità', in cui le apparizioni degli spettri s'inseriscono con originalità nel panorama della commedia italiana di quel periodo. Così come, molto più tardi, le presenze demoniache avrebbero consentito una spassosa contaminazione tra horror e commedia nei due Ghostbusters (1984 e 1989) diretti da Ivan Reitman o avrebbero abitato l'universo macabro, ironico e fiabesco di Beetlejuice (1988; Beetlejuice ‒ Spiritello porcello) di Tim Burton.Altri percorsi. ‒ Sporadiche negli anni Quaranta le produzioni europee che possono ascriversi all'universo del fantastico. Tra queste, The thief of Bagdad (1940; Il ladro di Bagdad) di Ludwig Berger, Michael Powell, Tim Whelan, e dei non accreditati Alexander e Zoltan Korda, dalle atmosfere magiche e dagli effetti speciali, notevoli per l'epoca, che restituiscono un suggestivo mondo fiabesco già ricostruito, con più ingenuità ma eguale fascino, da Raoul Walsh nell'omonimo film del 1924, imperniato sul funambolismo di Douglas Fairbanks. Mentre, sull'opposto versante dell'inquietudine, è da segnalare il notevole Dead of night (1945; Incubi notturni, noto anche come Nel cuore della notte) di Alberto Cavalcanti, Charles Crichton, Basil Dearden, Robert Hamer, film a episodi magistralmente raccordati da una cornice in cui i confini del sogno, dell'incubo, dell'orrore vengono dilatati e superati innescando un'inquietante circolarità. Nella seconda metà degli anni Cinquanta, fu proprio una casa produttrice inglese, la Hammer Film Productions, a specializzarsi nella realizzazione di film incentrati sui personaggi di Frankenstein, Dracula ecc. (creature per eccellenza del mondo fantastico che scivola nell'orrore), raccogliendo l'eredità della Universal, con registi come Terence Fisher e Roy Ward Baker, attori come Christopher Lee, Peter Cushing e altri.In Italia, invece, elementi tipici del fantastico, oltre che in occasionali suggestioni che percorrono il cinema d'autore (come la sequenza finale del volo sulle scope di Miracolo a Milano, 1951, di Vittorio De Sica), nella dimensione meno problematica e più favolistica, puramente spettacolare, si ritrovano nell'ambito del cosiddetto film mitologico (in cui si susseguono le lotte degli eroi con creature mostruose oppure con personaggi appartenenti ad ambiti diversi dell'immaginario dando luogo a improbabili duelli trasversali: per es., in Zorro contro Maciste, 1963, di Umberto Lenzi), mentre non mancano più tradizionali contaminazioni o elaborazioni in senso fantastico dell'horror (basti pensare, tra gli altri, a I vampiri, 1957, di Riccardo Freda, e a La maschera del demonio, 1960, di Mario Bava).Sempre negli anni Sessanta, ma negli Stati Uniti, un produttore e regista indipendente, Roger Corman, realizzò una serie di ottime (e disinvolte) trasposizioni a basso costo da Poe, valendosi spesso di un attore come Vincent Price. Un altro indipendente, George A. Romero, esordì con Night of the living dead (1968; La notte dei morti viventi), mentre Rosemary's baby (1968) di Roman Polanski può essere considerato un classico esempio, in campo cinematografico, delle teorie di Todorov sul fantastico: le ossessioni di Rosemary si possono infatti attribuire all'alterazione mentale causata da una gravidanza inconsciamente respinta, come all'effettivo complotto di una setta demoniaca, e Polanski, dal canto suo, è attento a lasciare aperte tutte le possibilità, demandando la scelta alla sensibilità del singolo spettatore (anche se il film sembra indirizzare in realtà verso la soluzione esoterica).Gli anni Settanta videro le prime prove di alcuni futuri grandi registi, come David Lynch (Eraserhead, 1978, Eraserhead ‒ La mente che cancella), David Cronenberg (They came from within, distribuito anche come Shivers e The parasite murders, 1976, Il demone sotto la pelle), John Carpenter (Halloween, 1978), con alcuni piccoli film al confine tra fantastico e horror, mentre al tempo stesso il fantastico coinvolgeva perfino il tema religioso o esoterico, specialmente con The exorcist (1973; L'esorcista) di William Friedkin ed Exorcist II: the eretic (1977; L'esorcista II: l'eretico) di John Boorman, in cui tutta l'atten-zione è fissata sulle orribili trasformazioni che il demonio è capace di operare sul corpo di chi ne è posseduto. La religione, insomma, è qui utilizzata per fornire al fantastico una specie di investitura metafisica. Un notevole film come The shining (1980; Shining) di Stanley Kubrick (tratto da un romanzo di S. King) rilanciò negli anni Ottanta i temi della percezione extrasensoriale: le apparizioni spettrali che infestano l'Hoverlook Hotel sembrano proiezioni psichiche della mente sconvolta del protagonista, ma hanno anche un risvolto fisico (come il sangue che alla fine invade la hall dell'albergo) e sono comunque in grado di aiutarlo a uccidere moglie e figlio. Se questi scampano alla loro sorte, è perché vi si oppone un'altra forza psichica, stavolta positiva (lo shining), di cui il figlio è dotato. A partire dalla metà degli anni Ottanta l'avvento delle tecnologie digitali si è reso indispensabile nella realizzazione della fantasy e ha modificato la stessa nozione di fantastico nel cinema, perdendo spesso in ambiguità, sospensione, attesa, quanto ha acquistato nel perfezionamento dell'illusione, nella resa della smaterializzazione (si pensi a un film come The haunting, 1999, Haunt-ing ‒ Presenze, di Jan de Bont, remake dell'inquietante film omonimo di Robert Wise, 1963, Gli invasati), nella creazione di mondi e creature sempre più reali nella loro irrealtà (basti considerare il progressivo perfezionamento degli effetti, constatabile confrontando sotto questo aspetto Jurassic Park, 1993, di Steven Spielberg e Jurassic Park III, 2001, di Joe Johnston). Solo in un autore come T. Burton l'effetto in sé rimane subordinato a una poetica personale, da Edward scissorhands (1990; Edward mani di forbice, con un'ultima apparizione del vecchio Vincent Price) a Sleepy Hollow (1999; Il mistero di Sleepy Hollow). Mentre proprio il fatto di aver innestato le tecnologie digitali nelle suggestioni del mondo culturale e cinematografico orientale è alla base della 'magia' di Wo hu cang long, noto con il titolo Crouching tiger, hidden dragon (2000; La tigre e il dragone) di Ang Lee, contaminazione di generi (in primo luogo il wu-xian) e creazione di una complessa dimensione fantastica in cui i duelli sono splendidi 'balletti' aerei.Sul piano dell'incontro tra fantastico e commedia, se Heaven can wait (1978; Il Paradiso può attendere) di Warren Beatty e Buck Henry, piacevole remake del classico Here comes Mr. Jordan (1941; L'inafferrabile signor Jordan) di Alexander Hall, sviluppa il tema canonico della reincarnazione del morto in un corpo diverso, Blake Edwards in Switch (1991; Nei panni di una bionda) rinnova l'espediente narrativo con una variante comicamente irresistibile: il morto, impenitente Don Giovanni, si ritrova infatti nei panni di una bionda mozzafiato. Dal ceppo originario dell'angelo di It's a wonderfullife è discesa una serie di altri angeli, più o meno simpatici, più o meno benevoli, come il John Travolta di Michael (1996) di Nora Ephron. Parallelamente, è divenuta sempre più frequente la discesa del demonio in persona, incarnato in personaggi di successo, simboli di tempi sempre più frenetici, il cui mondo è sentito in qualche modo come 'altro' da quello dei comuni mortali: Robert De Niro, in Angel heart (1987; Angel heart ‒ Ascensore per l'inferno) di Alan Parker, è un distinto, cortesissimo signore, che porta il nome emblematico di Luis Cypher; Al Pacino in The devil's advocate (1997; L'avvocato del diavolo) di Taylor Hackford, ispirato al Faust, interpreta il demoniaco personaggio di un potente boss delle assicurazioni pronto a comprare (in un certo senso) l'anima di un giovane e brillante avvocato (Keanu Reeves). Mentre in The ninth gate (1999; La nona porta) di Polanski, percorso da suggestioni esoteriche, il diavolo appare come una donna sensuale, dagli occhi luminosi, di estrema profondità e ipnotici.Figure canoniche del cinema fantastico, attive e presenti dai tempi del muto, sono state riproposte secondo prospettive mutate. Così si ritrovano i vampiri in Martin (1979; Wampyr) di G.A. Romero, Bram Stoker's Dracula (1992; Dracula di Bram Stoker) di Francis Ford Coppola, The addiction (1995) di Abel Ferrara, Vampires (1998) di J. Carpenter; Frankenstein in Mary Shelley's Frankenstein (1994; Frankenstein di Mary Shelley) di Kenneth Branagh; il licantropo in Wolf (1994; Wolf ‒ La belva è fuori) di Mike Nichols. Mentre proprio il progressivo perfezionamento degli effetti speciali ha consentito di moltiplicare le dimensioni del fantastico, consentendo la convivenza di cartoons e personaggi reali (Who framed Roger Rabbit, 1988, Chi ha incastrato Roger Rabbit, di Robert Zemeckis; Space Jam, 1996, di Joe Pitka), ma anche la 'cartoonizzazione' dei personaggi (The mask, 1994, di Chuck Russell, con Jim Carrey), nonché di ricreare con sempre più accurata complessità il mondo dei supereroi dei fumetti, come nella serie di Superman, in quella di Batman, sino ad arrivare a Spider-Man (2002) di Sam Raimi, con accentuazioni ora dell'aspetto ludico e spettacolare (Superman) ora di quello più cupo e oscuro (in particolare i due Batman diretti, rispettivamente nel 1989 e nel 1992, da Burton, ma anche il film di Raimi). Il fantastico declinato nei suoi aspetti più fantasy si ritrova infine nelle fortunate vicende del ragazzino dotato di poteri magici in Harry Potter and the sorcerer's stone (2001; Harry Potter e la pietra filosofale) e in Harry Potter and the chamber of secrets (2002; Harry Potter e la camera dei segreti), entrambi di Chris Columbus, come anche nella creazione visionaria di The lord of the rings ‒ The fellowship of the ring (2001; Il signore degli anelli ‒ La compagnia dell'anello) e The lord of the rings ‒ The two towers (2002; Il signore degli anelli ‒ Le due torri), entrambi di Peter Jackson, riproponendo ancora una volta la labilità dei confini (dal puro trionfo della fantasia ai suoi più oscuri e segreti risvolti) che caratterizza questa ampia categoria narrativa anche nei suoi suggestivi esiti cinematografici.
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