Chimica spaziale ed esobiologia
L'origine della vita è un enigma che da sempre ha affascinato l'umanità. A metà del XIX sec., a causa della crescente consapevolezza che il tempo che la vita ha avuto a disposizione per svilupparsi era enorme rispetto alle cronologie allora in auge, ci si chiese se le condizioni presenti nella Terra primordiale avessero consentito la generazione di entità biologiche per mezzo di processi di chimica organica, sollevando con ciò una questione che rimane tuttora aperta.
A prima vista, la risposta sembrerebbe dover essere negativa, poiché, nelle condizioni attuali, ogni forma di vita ha origine da una preesistente. Naturalmente, però, in una prospettiva temporale di miliardi di anni, non si può escludere la possibilità della comparsa spontanea della vita sulla Terra. Inoltre, è chiaro che la vita stessa ha influenzato la composizione dell'atmosfera mediante la fotosintesi e che, molto probabilmente, le condizioni iniziali erano assai diverse dalle attuali. Del resto, negli anni Cinquanta del XX sec., simulando in laboratorio le probabili condizioni presenti sulla Terra ai primordi, sono stati sintetizzati alcuni elementi fondamentali della vita, come gli amminoacidi.
Malgrado ciò, molti studiosi hanno considerato la possibilità di spostare il problema delle origini ipotizzando che la vita si sia formata altrove e sia stata in qualche modo trasportata sulla Terra da una cometa o da un altro corpo celeste. Tale ipotesi, detta panspermia, tuttavia non riusciva a spiegare come i germi potessero sopravvivere alla esposizione dei raggi ultravioletti e dei raggi cosmici, che tendono a distruggere le delicate strutture molecolari di cui sono costituite anche le forme di vita più semplici. Per proteggersi da queste radiazioni, i virus viaggianti avrebbero potuto trarre vantaggio dall'essere incapsulati dentro strutture solide, come quelle fornite, per esempio, dalle comete o dalle meteoriti. Queste ultime colpiscono relativamente spesso la Terra e talvolta comprendono inclusioni contenenti materiale organico. Dunque, sia gli elementi fondamentali della vita sia grandi quantità d'acqua (le comete sono fatte di ghiaccio) avrebbero potuto essere trasportati sulla Terra nelle prime centinaia di milioni di anni della sua esistenza.
Al posto dell'alternativa tra una vita che si fa dare un passaggio e una che si forma spontaneamente sulla Terra, si potrebbe ammettere il trasporto dallo spazio profondo sulla Terra del materiale grezzo costitutivo della vita e la successiva formazione di forme viventi a partire da esso. La questione, tuttavia, non è affatto chiara.
Tale discussione, inoltre, si lega strettamente a quella sull'esistenza della vita al di fuori della Terra: in effetti, non c'è motivo di escludere la possibilità che essa esista al di fuori del Sistema solare, dato che il Sole è una stella di tipo G assolutamente comune. La domanda che possiamo porci, quindi, è quale sia la probabilità che una data stella possa avere nel proprio sistema planetario un habitat simile a quello terrestre. È difficile dare una risposta, in parte anche a causa della limitatezza delle nostre conoscenze riguardo ai sistemi planetari esterni e alle loro proprietà; ma tale situazione è in fase di rapido cambiamento.
Tuttavia, esiste anche un approccio diverso, alternativo a quelli appena menzionati: infatti, invece di preoccuparci dei dettagli dei sistemi planetari, dovremmo considerare i fenomeni chimici, le proprietà e l'evoluzione di specie organiche complesse che avvengono nello spazio. Questo approccio è stato anche incentivato, nei decenni scorsi, da una serie di scoperte di molecole piuttosto grandi nelle nubi interstellari, nelle comete e (più rivelatrici di tutte) nei dischi che circondano oggetti stellari relativamente giovani (milioni di anni). Tali scoperte (in particolare quelle riguardanti le comete) sono rilevanti ai fini dell'ipotesi della panspermia. Più in generale, esse sembrano indicare che è possibile formare molecole complesse in una notevole varietà di siti astronomici e in condizioni fisiche molto diverse. Ciò non implica che sia possibile realizzare la vita nello spazio, tuttavia suggerisce che la condizione essenziale per la produzione di molecole organiche complesse potrebbe essere la presenza di una sorgente di energia, come una stella vicina. Sarebbe quindi molto probabile che si possano produrre amminoacidi in una varietà di condizioni diverse. La possibilità che la vita si sia sviluppata in ambienti diversi da quelli terrestri, acquista il carattere di una sfida, poiché sollecita lo studio in questa prospettiva dei fenomeni chimici che avvengono in ambienti alieni rispetto a quello terrestre.
L'origine delle molecole complesse sulla Terra è quasi certamente legata alla storia dei primi milioni di anni del Sistema solare, poiché è a quell'epoca che si formarono i pianeti e gli altri corpi che ne fanno parte. È improbabile che la vita si sia originata allora sulla Terra (non ve n'è alcuna prova diretta e i primi batteri fossili sono datati ca. 1 miliardo di anni dopo), ma gli eventi che accaddero determinarono le condizioni ambientali nelle quali essa si sarebbe successivamente sviluppata. È possibile, inoltre, che qualcuna delle meteoriti o delle comete che colpirono la Terra in via di formazione portasse con sé alcune molecole organiche complesse, che in seguito avrebbero costituito i semi della vita. Quindi è importante conoscere la composizione chimica del disco di polvere e di gas che allora orbitava intorno al Sole, come pure comprendere in che modo le condizioni fisiche che caratterizzavano il disco cambiarono nel tempo.
Qualche indicazione si può ricavare dallo studio delle stelle e dei sistemi planetari che sono attualmente in formazione: sappiamo, infatti, che le stelle si formano all'interno di nubi di polvere e di gas (note come nubi molecolari), che a loro volta si trovano nei bracci a spirale della nostra Via Lattea. I radiotelescopi sono stati in grado di rilevare, in nubi di questo tipo, l'emissione delle transizioni rotazionali di diverse molecole, provenienti in particolare dalle condensazioni dense all'interno di queste nubi, nelle quali si formano le stelle giovani. Le particelle di polvere all'interno delle nubi molecolari impediscono in gran parte di vedere le radiazioni ottiche e ultraviolette associate alla formazione della stella, ma schermano anche le molecole, impedendone la dissociazione a opera della radiazione ultravioletta. Possiamo osservare, quindi, l'emissione alle lunghezze d'onda millimetriche dovuta alle molecole presenti nella nube e la radiazione emessa dalle particelle stesse di polvere. Insieme alle emissioni provenienti dalla nube molecolare, noi riceviamo anche quelle che provengono dalle giovani protostelle, di formazione abbastanza recente da essere ancora avvolte in un bozzolo di materiale freddo appartenente alla nube molecolare. Questi involucri protostellari sono più caldi e più densi del materiale circostante, e quindi possono essere distinti dallo sfondo della nube molecolare.
Per quanto riguarda l'aspetto di queste protostelle in formazione, possiamo dire che le idee espresse da Immanuel Kant e da Pierre-Simon de Laplace nel XVIII sec., secondo le quali il Sole giovane avrebbe dovuto essere circondato da un disco orbitante di materia nebulare (a causa della conservazione del momento angolare), sono state in gran parte confermate. La dimostrazione forse più spettacolare è fornita da immagini che mostrano un Sistema solare appena formato, in luce diffusa. In questo caso, la stella al centro non è direttamente osservabile a causa dell'oscuramento da parte del disco di particelle micrometriche. La sua presenza si inferisce, comunque, dalla distribuzione di luce diffusa al di sopra e al di sotto del disco. Esso è abbastanza più grande dell'orbita di Nettuno intorno al Sole ed è confrontabile perciò con il Sistema solare esterno. Si suppone che le particelle che costituiscono dischi come questo coagulandosi formino i pianeti. Si pensa anche che, come stadio intermedio, esse costituiscano corpi della dimensione di qualche chilometro, chiamati planetesimi, ritenuti i precursori sia delle comete sia delle meteoriti.
Secondo i modelli attuali, sono state le collisioni tra i planetesimi a portare a una situazione in cui un planetesimo di grandi dimensioni riesce ad aggregare tutti i suoi compagni e a diventare un pianeta. Una conseguenza inevitabile di questi modelli è che vi sia una fase, immediatamente successiva alla formazione del pianeta, in cui le collisioni con i planetesimi sono estremamente frequenti e, in effetti, i crateri sulla Luna ne sono una testimonianza. Uno sviluppo recente si è avuto con l'acquisita capacità di osservare questi dischi protostellari direttamente, rendendo possibile conoscere qualcosa delle loro proprietà fisiche e della loro composizione chimica. I radiotelescopi che operano su lunghezze d'onda di circa 1 mm sono in grado di rilevare sia le caratteristiche spettrali da molecole come CO (monossido di carbonio), che sono presenti in questi dischi, sia l'emissione continua da parte delle particelle di polvere. Quest'ultima misura ci permette di fornire una stima della massa del particolato nella giovane protostella: in tale fase, infatti, si trova che la massa della polvere osservata è pressappoco uguale a quella che si può inferire per la giovane nebulosa solare sommando la materia solida nel Sistema solare attuale (essenzialmente i nuclei rocciosi di Giove e di Saturno).
Quando il pianeta inizia a formarsi, la materia circumstellare diventa però molto più difficile da rilevare, poiché le misure radio sono sensibili alle emissioni di particelle di dimensioni inferiori alla lunghezza d'onda alla quale si effettua la misurazione. Quando i piccoli grani di polvere, originariamente presenti, si addensano per formare rocce e planetesimi, essi diventano essenzialmente invisibili alle lunghezze d'onda millimetriche. Se, quindi, si ricevono emissioni significative a quelle lunghezze d'onda, se ne può dedurre che si stanno osservando oggetti in una fase precedente a quella della formazione dei pianeti. In questo modo si può arrivare alla conclusione che, nella maggior parte degli oggetti di età non superiore a una decina di milioni di anni, i planetesimi non si sono ancora formati. La formazione dei planetesimi, d'altra parte, potrebbe iniziare proprio intorno a questo periodo, poiché diversi studi recenti indicano che la massa media misurata in sistemi di età superiore a ca. 10 milioni di anni diminuisce rapidamente al crescere dell'età. Pochi anni fa, però, si è scoperto che alcune stelle vicine al Sole (per es., Vega) possiedono dischi di particolato, sebbene di massa molto inferiore a quella che si trova per le giovani protostelle; si pensa che essi derivino dalle collisioni tra planetesimi, comete e corpi simili e che certamente non siano residui di una fase protostellare. Ciononostante, l'esistenza di questi dischi di detriti dimostra che la formazione dei sistemi planetari ha luogo in modi diversi e che non è un fatto eccezionale. Inoltre, la scoperta di pianeti al di fuori del Sistema solare (esopianeti) ha chiarito che una frazione apprezzabile delle stelle simili al Sole effettivamente formano alcuni pianeti.
Molte delle argomentazioni che abbiamo esposto dipendevano dalla ipotesi, comoda, secondo la quale i sistemi planetari sarebbero simili al nostro. La scoperta degli esopianeti, avvenuta a partire dalla metà degli anni Novanta del secolo scorso, ha dimostrato però che, come succede spesso, la realtà è più complessa di come appare. Il nostro Sistema solare risulta essere uno dei tanti esistenti e può anche darsi che riveli proprietà particolari. La novità più sorprendente è che gli oggetti di massa planetaria risultano essere, almeno alcune volte, in orbita intorno alle pulsar! Quest'ultima scoperta è stata realizzata nel 1992 da Alexander Wolszczan e Dale Frail, che hanno usato il radiotelescopio da 305 m situato ad Arecibo, in Portorico, per misurare i tempi di arrivo degli impulsi provenienti dalla pulsar PSR1257+12. Le pulsar sono stelle di neutroni rotanti, che emettono un fascio radio simile a quello di un proiettore. Quando le pulsar sono rivolte verso la Terra, si creano impulsi con il periodo di rotazione. Essendo questo periodo molto preciso, le pulsar risultano essere tra gli orologi più precisi.
Monitorando questi impulsi, Wolszczan e Frail si accorsero che, sovrapposte al periodo di rotazione della pulsar, si potevano rilevare periodicità minori, di 67 e 98 giorni, e si convinsero che queste erano causate da due oggetti di massa all'incirca pari a quella della Terra, in orbita intorno alla stella di neutroni e causa, perciò, di una modulazione del periodo della pulsar. Si poteva trattare di pianeti? Le stelle di neutroni sono ciò che resta di una stella di massa molto più grande dopo che questa è esplosa in una supernova, spargendo nello spazio interstellare ciò che si trovava al suo interno. Potrebbero due pianeti sopravvivere a un evento come questo? O potevano questi pianeti appartenere a un'altra stella di massa molto minore che originariamente faceva parte di un sistema binario con il precursore della stella di neutroni? Nessuna di queste spiegazioni, in realtà, appariva molto soddisfacente.
Nuovi elementi di conoscenza vennero comunque forniti tre anni dopo da Michel Mayor e Didier Queloz, dell'Osservatorio di Ginevra, i quali produssero le prove dell'esistenza di un pianeta delle dimensioni di Giove in orbita intorno alla stella vicina, di tipo simile al Sole, chiamata 51 Peg. Questa scoperta rappresentò un trauma notevole per la comunità scientifica. Il supposto pianeta era stato trovato attraverso misure molto accurate dello spostamento Doppler delle linee spettrali relative alla superficie delle stelle. Si tratta del ben noto effetto scoperto da Christian Andreas Doppler nel 1845, e familiare a tutti coloro che si siano trovati sul marciapiede di una stazione e abbiano ascoltato il fischio emesso da un treno che attraversa velocemente la stazione senza fermarsi: si sente un fischio sempre più acuto via via che il treno si avvicina e sempre meno acuto quando il treno si allontana. Analogamente, Mayor e Queloz scoprirono che la 51 Peg sembrava prima avvicinarsi alla Terra e poi allontanarsi. Ne conclusero, analogamente agli studiosi delle pulsar, che la causa era un pianeta in orbita intorno a 51 Peg. L'elemento sorprendente però era che il pianeta sembrava essere più vicino a 51 Peg di quanto Mercurio lo fosse al Sole e, inoltre, sembrava possedere una grande massa, superiore a quella di Giove.
Questa prima scoperta fu seguita da molte altre, che hanno dimostrato come una piccola percentuale delle stelle simili al Sole abbia dei compagni. La Tav. I fornisce un esempio delle curve di velocità che sono state misurate per alcune di esse (la curva continua rappresenta la velocità prevista per un pianeta della massa specificata in alto). Molte stelle simili a 51 Peg hanno pianeti di massa analoga a Giove, abbastanza vicini alla stella madre. Sulle prime queste constatazioni sembrarono contraddire idee consolidate sulla formazione del nostro Sistema solare, secondo le quali i piccoli pianeti rocciosi, come Mercurio, Venere, Terra e Marte, si sarebbero formati vicino al Sole, mentre i pianeti giganti (in particolare Giove e Saturno), con un contenuto molto superiore di idrogeno, si sarebbero formati molto più lontani dal Sole, a distanze confrontabili con le loro posizioni attuali. Ci si aspetta, per esempio, che la formazione di Giove sia facilitata al di là del limite delle nevi perenni, dove la temperatura è abbastanza bassa da impedire la sublimazione del ghiaccio (intorno ai 150 K). Rimane il problema, per il quale non si ha ancora una risposta completamente convincente, di spiegare la presenza di pianeti giganti simili a Giove così vicini alla loro stella madre. È chiaro, però, che la tecnica utilizzata per trovare questi pianeti favorisce l'individuazione di corpi celesti di grandi dimensioni e vicini alla loro stella madre.
In queste situazioni, infatti, l'effetto Doppler è maggiore e gli spostamenti delle righe spettrali causati dal pianeta sono più facilmente distinguibili da quelli dovuti ad altre cause. Ciononostante, si deve cercare di spiegare come abbiano fatto pianeti di grandi dimensioni ad arrivare tanto vicino. A prima vista si presentano due alternative: la prima è che essi si siano formati nelle vicinanze della stella, il che sembra improbabile per i motivi cui abbiamo accennato; la seconda è che questi pianeti simili a Giove si siano formati a distanze analoghe a quella in cui si è formato Giove, migrando poi verso la stella. Anche quest'ultima spiegazione, sebbene sia quella preferita dalla maggior parte dei teorici, presenta enigmi irrisolti, come, per esempio, quale possa essere la causa della migrazione. Una possibilità è che essa sia dovuta alle forze di marea derivanti dall'interazione con il disco di polvere e gas che è presente nella fase protostellare; queste forze possono causare una migrazione verso l'interno sia del disco stesso sia di qualsiasi pianeta associato.
È necessario, allora, porsi ulteriori domande quali, per esempio, che cosa impedisca a questi pianeti giganti di cadere sulla stella centrale e perché il nostro Giove (per non parlare della Terra) si sia potuto sottrarre a tale sorte. La risposta non è del tutto chiara, ma certamente, mentre i pianeti giganti si muovono verso il centro, il disco si dissipa ed è possibile che ciò avvenga abbastanza rapidamente da salvare almeno alcuni dei pianeti da una morte infuocata. In ogni caso, ormai conosciamo quasi un centinaio di pianeti extrasolari, alcuni dei quali, confrontabili con Giove, si trovano a distanze dalla loro stella madre paragonabili alla nostra. Ne concludiamo, quindi, che vi è una grande varietà di sistemi planetari extrasolari. Come succede con le persone, essi sono tutti tendenzialmente diversi e, anche se è vero che abbiamo le prove dell'esistenza della vita su un solo pianeta, e che per ora non conosciamo alcun pianeta delle dimensioni della Terra intorno a una stella simile al Sole, tale varietà di ambienti può dar luogo a una corrispondente varietà nello sviluppo dei processi chimici. D'altra parte, è anche senz'altro vero che i pianeti costretti a immergersi nella loro stella madre non hanno avuto il tempo di formare batteri e quindi il nostro particolare, e piuttosto stabile, Sistema solare sembra essere più favorevole allo sviluppo di specie viventi rispetto alla maggior parte dei sistemi esoplanetari scoperti finora.
Un altro stimolo per la discussione sulla possibilità di vita al di fuori del Sistema solare è venuto dalla consapevolezza, gradualmente acquisita negli anni Sessanta e Settanta del Novecento, del fatto che nello spazio interstellare sono presenti molte specie chimiche relativamente complesse. A quel tempo si trattava di una sorpresa, perché si era appena capito che una parte rilevante della materia interstellare (e in particolare una gran parte dell'elemento più abbondante, l'idrogeno) si presentava in forma molecolare. Si trattava di un mutamento di paradigma per molti astrofisici; un cambiamento ancor maggiore del modo di pensare consisteva poi nell'accettare che specie poliatomiche potessero essere relativamente abbondanti in alcune nubi interstellari. Che ciò fosse vero fu dimostrato dalla scoperta di molecole interstellari con un numero fino a 11 di atomi di carbonio. Particolarmente interessanti furono, negli anni Settanta, i risultati ottenuti da un gruppo di ricerca del canadese Herzberg Institute, che scoprì una emissione dalla serie di cianopoliini (HC3N, HC5N, HC7N, ecc.) in direzione di una nube mole-colare vicina. La fig. 3 mostra la struttura di questemolecole: si vede che si tratta essenzialmente di semplici derivati dell'acetilene, con uno scheletro estremamente stabile consistente in legami alternati semplici e tripli.
Queste emissioni dai cianopoliini furono inizialmente osservate in una nube vicina TMC1 (Taurus molecular cloud 1), la cui caratteristica più interessante è la sua ordinarietà. Si trova solo a poche centinaia di anni-luce dal Sole (in confronto, il centro della Via Lattea si trova a 20.000 anni-luce) e corrisponde a uno dei molti 'buchi nel cielo' scoperti originariamente da William Herschel e studiati successivamente in dettaglio da Edward Emerson Barnard. Questi buchi nel cielo sono regioni con concentrazioni di particelle di polvere tali che la luce stellare di fondo si estingue. Il buco nel cielo, quindi, corrisponde essenzialmente a un'assenza di stelle. La fig.4 mostra un esempio in cui l'assorbimento dovuto alla polvere è confrontato con l'emissione sia del C18O (isotopomero del CO) sia di azoto molecolare protonato (CN2H+). Come si può osservare, vi è un accordo relativamente buono tra i contorni relativi all'emissione di C18O e l'oscuramento da parte della polvere. La ragione fondamentale di questo accordo risiede nel fatto che le particelle di polvere che ci impediscono di vedere la luce delle stelle sullo sfondo impediscono anche ai fotoni ultravioletti di penetrare la nube. I fotoni ultravioletti, d'altra parte, distruggono rapidamente il CO e le sue forme sostituite. Le abbondanze di specie chimiche come il CO, quindi, aumentano rapidamente nelle regioni dalle quali i fotoni ultravioletti sono esclusi, e questo è ciò che vediamo riflesso nei contorni della fig. 4.
Inoltre, non sono necessarie condizioni eccezionali o temperature elevate per produrre catene molecolari relativamente lunghe. Si ritiene che la temperatura nella TMC1 sia di 10 K e la densità di circa 10−19 g/cm3. Si tratta di un vuoto assai più spinto di quello ottenibile attualmente in laboratorio, tuttavia, rispetto alle condizioni dello spazio interstellare, sono valori abbastanza normali. Vediamo, dunque, che si possono avere fenomeni di chimica organica in condizioni che possono essere normali nello spazio ma difficilmente ottenibili in laboratorio. I cianopoliini non sono inconsueti, anche se all'epoca della loro scoperta non era semplice produrli in laboratorio. Pur non essendo molecole biologiche, essi sono senza dubbio molecole organiche e fu una sorpresa scoprire una tale relativa complessità, con abbondanze di circa 1/109 di atomi di idrogeno. Inoltre, si scoprì presto che la regione di emissione all'interno della quale i ciano-poliini risultavano abbondanti si estendeva per diversianni-luce. La massa di gas 'infettato' dalle specie chimiche ricche di carbonio era diverse volte quella del Sole; se ne deduce, dunque, che le 'fabbriche' che producono molecole organiche sono grandi ed efficienti.
Si chiarì presto, inoltre, che i cianopoliini erano solo la punta dell'iceberg, nel senso che in nubi simili alla TMC1 vi erano probabilmente molte altre specie chimiche ricche di carbonio con abbondanze simili. Di fatto, tutti i modelli elaborati per riprodurre le quantità osservate dei cianopoliini producevano anche molte altre catene ricche di carbonio, come la serie di radicali del carbonio C2H, C3H, C4H, C5H, ecc., che in effetti furono poi trovate. La ragione per cui la molecola di cianopoliino fu la prima a essere scoperta, tra quelle contenenti da 5 a 15 atomi di carbonio, risiede nella sua semplice struttura lineare, che ne consentiva una facile rivelazione e analisi, sia in laboratorio sia nello spazio. A partire dagli anni Settanta sono state individuate molte specie chimiche e i relativi isomeri, e se ne può concludere che, in nubi come la TMC1, almeno una frazione pari a 10−4 del carbonio si presenta nella forma di molecole organiche moderatamente complesse come queste. Il problema, dunque, è spiegare come sia possibile produrre catene e radicali di grandi dimensioni a densità così basse e in un vuoto tanto spinto. Reazioni molecolari a tre corpi, che richiedano l'urto simultaneo di tre diverse molecole, sono altamente improbabili in condizioni come queste. D'altra parte, nubi quali la TMC1 sono attraversate da raggi cosmici galattici prodotti nelle esplosioni delle supernovae. Questi raggi cosmici (in particolare la loro componente di bassa energia) ionizzano sia l'idrogeno sia l'elio e producono ioni reattivi in grado di innescare la formazione di specie chimiche quali l'acetilene, che riveste probabilmente un ruolo nella formazione dei cianopoliini.
È necessario ancora tener presente che le particelle di polvere, che impediscono alla luce stellare di penetrare, possono anche catalizzare alcune reazioni chimiche, comportandosi di fatto come un terzo corpo, ed è possibile che le reazioni avvengano sulla loro superficie. Noi crediamo, in effetti, che la formazione della molecola più abbondante nel mezzo interstellare, l'idrogeno molecolare, avvenga mediante la ricombinazione degli atomi di idrogeno sulla superficie delle particelle di polvere. Ritieniamo inoltre, che l'acqua (più precisamente il ghiaccio) si formi sulla superficie delle particelle quando l'ossigeno atomico (sulla superficie) si ricombina successivamente con due atomi di idrogeno.
Ora, però, consideriamo in quale misura le reazioni in fase gassosa possono spiegare la formazione delle lunghe catene di carbonio trovate nella TMC1 e in nubi di polvere simili. Una risposta è che la chimica in fase gassosa in situ è in grado di spiegare gran parte di ciò che si osserva. Le nubi molecolari come la TMC1 sono attraversate da raggi cosmici di bassa energia (pochi MeV), efficienti nella ionizzazione dell'idrogeno e dell'elio. La ionizzazione dell'idrogeno molecolare dà luogo allo ione molecolare idrogeno H2+, che reagisce rapidamente con H2 e forma H2 protonato o H3+. L'H2 protonato, a sua volta, trasferisce rapidamente un protone ad altre specie chimiche con maggiore affinità protonica, come CO. Il risultato di tutto ciò è la presenza, all'interno delle nubi molecolari, di ioni come lo ione formile HCO+, che è stata una delle specie rivelate nello spazio prima che il suo spettro rotazionale fosse determinato in laboratorio (era noto a quel tempo con il nome di X-ogeno). La fig. 5 illustra schematicamente questo processo e mostra anche come l'acqua sia un altro possibile sottoprodotto della ionizzazione ad opera dei raggi cosmici.
Questi ioni molecolari sono importanti perché indicano la traccia della ionizzazione all'interno della nube. La ionizzazione è fondamentale per motivi sia dinamici sia chimici. Dal punto di vista dinamico, è la componente ionica che determina la natura dell'interazione tra la nube, prevalentemente neutra, e il campo magnetico di fondo. Le forze magnetiche sono in grado di agire sul gas prevalentemente neutro grazie a queste piccole quantità di ionizzazione ed è ciò che consente al magnetismo interstellare di svolgere un ruolo nel determinare il tasso di formazione delle stelle. Gli ioni godono anche dell'utile proprietà di poter pilotare efficacemente le reazioni chimiche. Ciò, in parte, è dovuto al fatto che le reazioni che coinvolgono ioni tendono a procedere al tasso di Langevin, dipendente solo dal momento di dipolo delle specie chimiche coinvolte, senza alcuna barriera di attivazione sulla superficie dell'energia potenziale. Ne deriva l'importante conseguenza che le reazioni ione-molecola sono veloci anche a temperature basse come 10 K. In base a ciò, Eric Herbst, dell'Università dell'Ohio, ha dimostrato che, almeno in linea di principio, si può pensare di formare lunghe molecole lineari come i cianopoliini attraverso sequenze di reazioni ione-molecola di tale tipo.
Rimane da scoprire se questo sia in realtà il meccanismo dominante, anche se vi sono dubbi al riguardo, perché è chiaro che in tale contesto sono presenti altri processi attivi. I grani di polvere, oltre alle altre loro proprietà, sono eccellenti catalizzatori di reazioni chimiche. Anche se le densità interstellari sono troppo basse per dar luogo a reazioni chimiche a tre corpi in misura significativa, un grano di polvere può fungere in linea di principio da terzo corpo, che assorba l'energia e la quantità di moto in eccesso in una reazione chimica. Si pensa, in effetti, che la formazione dell'idrogeno molecolare abbia luogo principalmente grazie alla ricombinazione di atomi di idrogeno sulla superficie di particelle di polvere. È dunque naturale chiedersi se la formazione di molecole organiche complesse possa avvenire seguendo una strada analoga. In effetti, vi sono prove che dimostrano parzialmente che ciò accade. La maggior parte dei dati rilevanti provengono in questo caso dalla rilevazione, nell'infrarosso vicino, delle caratteristiche di specie chimiche quali H2O, CO e CO2 allo stato solido (come, per es., il ghiaccio), osservate in assorbimento nella direzione di protostelle giovani. Enormi progressi sono stati compiuti in questo contesto grazie ai risultati ottenuti con lo spettrometro SWS (Short wavelength spectrometer) installato sull'ISO (Infrared satellite observatory). Dai ghiacci rivelati in questo modo si è potuto dimostrare che, all'interno delle nubi molecolari, una frazione apprezzabile di elementi pesanti (C, N, O) si è condensata sulla superficie dei grani di polvere. Il ghiaccio di H2O sembra essere la specie chimica allo stato solido più abbondante e assorbe quasi il 20% dell'ossigeno disponibile nei casi analizzati finora.
Tutto questo, naturalmente, in qualche misura deve tener conto della chimica che avviene sulla superficie dei grani di polvere. Non c'è abbondanza sufficiente di acqua allo stato gassoso per poter spiegare le caratteristiche osservate per il ghiaccio attraverso la condensazione di H2O allo stato gassoso. Probabilmente, il processo dominante è l'accrescimento di ossigeno atomico sulla superficie dei grani, seguito dalla ricombinazione di atomi di idrogeno sulla superficie. Analogamente, il metanolo (CH3OH, osservato allo stato solido in quantità relativamente elevate) si può formare dalla condensazione di CO dalla fase gassosa, seguita da reazioni sulla superficie in cui si aggiungono gli atomi di idrogeno. Possiamo ragionevolmente chiederci se questi processi superficiali possano dar luogo a specie organiche complesse. Una difficoltà risiede nel fatto che la sensibilità che abbiamo per piccole quantità di una specie chimica è di gran lunga minore nello stato solido che in quello gassoso. Con l'ISO si è riusciti a rivelare, grosso modo, specie allo stato solido con abbondanze fino a un fattore 10−6 rispetto a quella dell'idrogeno, mentre tecniche che usano lunghezze d'onda millimetriche riescono a rivelare molecole in fase gassosa con abbondanze di 6 ordini di grandezza inferiori, un fattore 10−12 rispetto all'idrogeno.
Per fortuna, si possono ricavare informazioni sulla quantità di ghiaccio utilizzando tecniche indirette. Le protostelle di grande massa sono in grado di scaldare il loro involucro fino a temperature sufficienti a far sublimare i ghiacci principali (approssimativamente al di sopra dei 100 K). Si pensa che, per alcune migliaia di anni dopo la sublimazione, le quantità relative nella fase gassosa rimangano le stesse dello stato solido, anche se si ritiene che su tempi più lunghi le reazioni ione-molecola cui abbiamo accennato decompongano le molecole evaporate più di recente. In alcuni casi, questa scala di tempi è comunque abbastanza lunga da far ritenere che la miscela osservata nella fase gassosa sia una rappresentazione ragionevolmente fedele delle abbondanze dei ghiacci precedenti l'accensione della protostella. In ogni caso, questi involucri protostellari di grande massa sono caldi e densi e irraggiano efficacemente in corrispondenza delle righe spettrali di molte specie (tipicamente saturate), come il cianuro di metile e il cianuro di etile (CH3CN e C2H5CN), e l'etere dimetilico (CH3OCH3). Questi involucri caldi sono stati chiamati nuclei caldi, anche se le specie chimiche scoperte in queste regioni sono meno ricche di carbonio di quanto si osservi nel mezzo delle nubi molecolari ricche di cianopoliini. L'analisi delle abbondanze delle specie chimiche in questi nuclei caldi è comunque complicata dalla necessità di distinguere se le molecole osservate siano primarie (cioè evaporate direttamente dalla superficie dei grani di polvere) o secondarie (ovvero prodotte da successive reazioni in fase gassosa). Per esempio, si pensa che il CH3OCH3 osservato nei nuclei caldi sia un prodotto di reazione del metanolo da poco sublimato, piuttosto che il risultato di reazioni superficiali.
Una caratteristica delle molecole scoperte sia nelle zone oscure e fredde in cui si trovano specie chimiche ricche di carbonio, sia nei nuclei caldi, consiste nel fatto che le molecole ad anello sono rare. Anche se è vero che la forma ciclica del C3H2 si trova in abbondanza, non si sono finora rinvenute specie aromatiche o derivati del benzene. Si sa, d'altra parte, che questi sono presenti nella materia che circonda le stelle evolute. Inoltre, vi sono prove della presenza di specie aromatiche relativamente complesse (i cosiddetti PAH, Polyciclic aromatic hydrocarbons, idrocarburi policiclici aromatici), con un numero di atomi di carbonio all'incirca tra 20 e 100, in vari esempi di materia interstellare. Si è fatto ricorso a queste molecole per spiegare diverse caratteristiche specifiche nella zona spettrale dell'infrarosso vicino, individuate, per esempio, nei pressi dei bordi di nebulose ionizzate, come la Nebulosa di Orione. Si pensa che queste molecole siano eccitate da fotoni ultravioletti (1000÷2000 Å); esse possono sopravvivere alle interazioni senza subire una fotodissociazione, poiché possiedono un numero sufficiente di gradi di libertà vibrazionali per liberarsi dell'energia assorbita senza rompere i legami. Non c'è però accordo unanime sull'identificazione delle caratteristiche NIR (Near infrared) con emissioni PAH. D'altra parte, sembra plausibile che ne siano responsabili certi composti organici ricchi di carbonio e che siano coinvolte alcune specie aromatiche. Le molecole organiche complesse sono chiaramente molto comuni nel mezzo interstellare, anche se l'ambiente appare a prima vista piuttosto ostile.
Notiamo, infine, che un'interessante proprietà delle abbondanze delle molecole nel mezzo interstellare consiste nel fatto che l'arricchimento in deuterio è frequente ‒ e più pronunciato ‒ negli ambienti densi e freddi. Intendiamo dire con ciò che la quantità misurata per una specie deuterata rispetto alla forma idrogenata corrispondente è molto più grande del rapporto D/H nel mezzo interstellare. Quest'ultimo si può misurare direttamente osservando le righe Lyman del deuterio e dell'idrogeno nella regione ultravioletta dello spettro, nella direzione di stelle vicine e calde, e vale circa 1,5×10−5, eccetto qualche variazione. D'altra parte, i valori osservati, per esempio, del rapporto [DCN]/[HCN], negli ambienti densi e freddi, arrivano fino a 0,1, con un aumento quindi di 10.000 volte. I rapporti delle abbondanze per le componenti deuterate nei nuclei caldi sono più piccoli (tipicamente 0,001), tuttavia, ancora un paio di ordini di grandezza più grandi del rapporto D/H interstellare. Questi incrementi si possono spiegare, almeno in linea generale, sulla base della chimica ione-molecola, in quanto determinati da reazioni di scambio tra HD (che nelle nubi molecolari è la principale riserva di D) e ioni come H3+. L'energia di punto zero di ioni come H2D+ favorisce l'acquisizione di un atomo D al posto di un H, e ciò diventa molto importante alle temperature interstellari. Di conseguenza, le specie organiche che si formano alle basse temperature dello spazio interstellare sono molto arricchite in deuterio.
All'inizio è stata menzionata la possibilità che alcune molecole organiche di grandi dimensioni, o perfino alcune entità biologiche, siano state trasportate sulla Terra primordiale da comete o da meteoriti. In effetti, si sa che alcune inclusioni all'interno di meteoriti contengono molecole organiche di rilevanza biologica, come gli amminoacidi. Il problema che ci si pone è individuarne la provenienza. Vi è un acceso dibattito sulle possibili risposte a questo problema, ma è chiaro, comunque, che le comete rappresentano un campione relativamente puro e non inquinato della materia che costituiva il Sistema solare primordiale. Quindi, il loro contenuto in molecole può fornire una ragionevole guida per inferire la composizione degli oggetti che bombardavano la Terra ai suoi primordi. Specialmente alla fine degli anni Novanta del Novecento una serie di determinazioni sempre più accurate della composizione degli elementi volatili delle comete (cioè le sostanze che sublimano dal nucleo della cometa quando questa si avvicina al Sole) ha consentito di acquisire un quadro molto più chiaro della chimica presente in questi corpi celesti. In particolare, la comparsa delle comete Hale-Bopp e Hyakutake, tra il 1995 e il 1996, ha permesso misurazioni accurate sia della loro composizione sia del loro comportamento in funzione della distanza dal Sole.
Queste ultime ci hanno indicato che la distribuzione delle abbondanze chimiche nelle comete è notevolmente simile a quella che si trova nei nuclei caldi all'interno delle nubi molecolari. A posteriori queste somiglianze non appaiono sorprendenti: in entrambi i casi si stanno osservando prodotti di evaporazione dei ghiacci. Qualcuno ha avanzato l'ipotesi che i ghiacci delle comete si siano depositati in condizioni simili a quelle dell'involucro pre-protostellare, che avrebbe dato luogo alla fine a un nucleo caldo. Questo potrebbe significare che i ghiacci delle comete, malgrado siano passati attraverso la nebulosa solare, abbiano mantenuto la loro composizione interstellare. È però difficile credere che ciò sia del tutto vero. Lo spettro di Hale-Bopp, per esempio, mostrava emissioni da silicati cristallini, al contrario dei grani interstellari, che sembrano essere disordinati e amorfi. L'interpretazione più diretta di questo fenomeno è che la polvere della Hale-Bopp sia stata riscaldata fino a temperature di circa 1000 K, il che, tuttavia, provocherebbe certamente l'evaporazione dei ghiacci interstellari. Vediamo, quindi, come l'interpretazione dell'origine e dell'evoluzione dei grani presenti nelle comete sia ancora controversa.
Un altro aspetto di questa storia riguarda l'analisi delle abbondanze delle specie deuterate. Le comete, anche se non avessero trasportato batteri sulla Terra primordiale, potrebbero aver contribuito in modo apprezzabile alla formazione degli oceani, senza i quali la vita sulla Terra avrebbe certamente avuto una storia molto diversa, ed è quindi importante verificare tale ipotesi. Un approccio per affrontare questo problema consiste nel confrontare il rapporto [HDO]/[H2O] nelle comete e negli oceani terrestri. La tab. 1 fornisce una sintesi di alcune misure recenti di queste quantità e anche dei rapporti delle abbondanze di altre specie deuterate. Come si vede dalla tabella, il rapporto [HDO]/[H2O] nelle comete differisce di un fattore 2 da quello rilevabile sulla Terra. L'interrogativo che ci si deve porre è quanto sia significativa questa differenza. Essa, infatti, è maggiore della stima formale degli errori sperimentali, ma le comete di oggi sono abbastanza diverse da quelle che bombardavano la Terra 4,5 miliardi di anni fa. Vi sono opinioni discordanti, ma è probabile che i valori misurati siano abbastanza vicini tra loro da non poter attualmente escludere, sulla base di questi dati, che gli oceani siano stati originati dalle comete.
Inoltre, le abbondanze delle specie deuterate misurate in alcune inclusioni in condriti carbonacee (le meteoriti considerate più antiche, in quanto le loro abbondanze sono essenzialmente coerenti con quelle del Sole) sono confrontabili con quelle trovate nei nuclei caldi. Questo dato è stato interpretato come indicativo del fatto che si stanno osservando grani interstellari i quali hanno avuto abbastanza fortuna da sopravvivere non solo all'impatto con l'atmosfera terrestre, ma anche al processo di accrescimento del disco della nebulosa solare e ai 4 miliardi di anni successivi di storia piuttosto agitata. È certamente vero che i valori meteoritici sono apprezzabilmente più grandi di quelli riscontrati sulla Terra e che, quind,i si può escludere una contaminazione di origine terrestre. Vale la pena di notare che Ewine van Dishoeck, Gerd van Zadelhoff e un gruppo di ricercatori dell'Università di Leida hanno utilizzato il James Clerk Maxwell telescope (JCMT) sul Mauna Kea, nelle Hawaii, per rivelare la prima specie deuterata (DCO+) in un disco protoplanetario giovane. Questo può far pensare che gli stessi processi che hanno luogo nelle nubi interstellari avvengano anche nella successiva fase di nebulosa solare, ma la questione è ancora aperta. Tuttavia, la scoperta recente più importante, nell'ambito di questo argomento, è stata forse quella dell'esistenza degli oggetti della cintura di Kuiper o KBO (Kuiper belt objects), che misurano fino a un centinaio di chilometri, in una regione esterna all'orbita di Nettuno, a 60 volte il raggio dell'orbita della Terra. I KBO sono noti da un decennio circa, e se ne conoscono già una cinquantina. Probabilmente queste rocce sono rimaste in uno splendido isolamento dall'epoca della formazione del Sistema solare, e quindi la comprensione delle loro proprietà e della loro relazione con le comete e le meteoriti ci aiuterà a capire le nostre origini.
Siamo ancora molto lontani dal possedere risposte definitive alle domande che abbiamo posto all'inizio. Invece di fare congetture sulle probabili risposte, sembra più produttivo discutere in quali direzioni è lecito attenderci risultati in un futuro non troppo lontano. È chiaro, per esempio, che ci possiamo aspettare alcuni sviluppi rapidi nel campo degli esopianeti. Questa aspettativa è giustificata in parte dal perfezionamento delle tecniche attuali: appare evidente che, continuando il monitoraggio, è probabile che vengano scoperti esopianeti con periodi maggiori e quindi ci si può attendere di individuare alcuni pianeti simili a Giove a distanze dalla loro stella madre confrontabili con quelle che si hanno nel nostro Sistema solare. Questo ci aiuterà a rispondere alla domanda sulla possibilità che i Giove caldi, come quelli scoperti da Mayor e Queloz intorno a 51 Peg, siano l'eccezione o la regola. Nuovi input, e nuovi esopianeti, si attendono da missioni spaziali future, come GAIA, che misurerà le posizioni delle stelle con precisione senza precedenti e, di conseguenza l'oscillazione della posizione delle stelle dovuta alla presenza di pianeti ci si aspetta che sarà in grado di rilevare pianeti delle dimensioni di Giove fino a distanze di 600 anni-luce. Si tratta di una sensibilità di gran lunga maggiore delle tecniche basate sull'effetto Doppler utilizzate finora, che dovrebbe permettere la rivelazione di pianeti di massa inferiore (i pianeti di massa più piccola tra quelli scoperti finora hanno approssimativamente la massa di Saturno) e più distanti dalla stella centrale. Saremo così in grado di confrontare altri sistemi planetari con il nostro e di valutare in modo quantitativo in che misura il nostro Sistema solare si debba considerare tipico.
Naturalmente, è necessaria l'osservazione diretta di un esopianeta (in contrasto con le tecniche indirette appena discusse) se si vogliono comprendere le caratteristiche delle atmosfere planetarie. La rivelazione diretta permetterebbe di determinare le caratteristiche principali delle atmosfere degli esopianeti, come pure delle loro temperature superficiali e delle loro densità medie. Un approccio a questo problema consiste nell'osservare i transiti dei pianeti che occultano parzialmente la loro stella centrale. Si è già riusciti a farlo in un'occasione, ma chiaramente questo è possibile nell'1% circa dei casi in cui il piano dell'orbita dell'esopianeta si presenta di taglio. Di utilità più generale potrebbero essere le tecniche di interferometria di azzeramento (nulling) nell'infrarosso medio, in cui ci si aspetta l'emissione più intensa da parte del pianeta. In questa tecnica si usa un interferometro a due elementi per azzerare l'emissione dalla stella centrale, permettendo quindi la rivelazione della più debole emissione planetaria. Il grande telescopio binoculare LBT (Large binocular telescope), attualmente in costruzione in Arizona da parte di un consorzio americano-italo-tedesco, consistente in 2 specchi da 8 m posti a una distanza di 14 m, dovrebbe essere in grado di effettuare questa misura. Un'altra possibilità è la missione DARWIN, che sarà lanciata nel 2015 e che utilizzerà anch'essa tecniche di interferometria nell'infrarosso medio, con l'ulteriore vantaggio di trovarsi al di fuori dell'atmosfera. Nei prossimi decenni ci possiamo attendere un miglioramento continuo della nostra comprensione della formazione dei sistemi planetari e delle protostelle.
In questo contesto, la capacità di effettuare osservazioni con risoluzione angolare e sensibilità sempre migliori a lunghezze d'onda millimetriche sarà decisiva. I sistemi più vicini attualmente in formazione si trovano a oltre 100 anni-luce e raccogliere informazioni sulla loro struttura richiederà risoluzioni angolari pari a 10 millesimi di secondo d'arco. La migliore prospettiva, da questo punto di vista, è offerta dall'ALMA (Atacama large millimeter array), che è un interferometro di 64 telescopi da 12 m costruito in collaborazione tra Stati Uniti d'America e Unione Europea nel deserto Atacama, nel Cile settentrionale. La linea di base in questo caso arriverà a 10 km, il che per lunghezze d'onda di 0,45 mm dovrebbe consentire la risoluzione desiderata. Ci si aspetta, inoltre, che i pianeti eliminino dalla loro orbita gas e piccole particelle, lasciando così un anello vuoto che sta a indicare in questo modo la regione in cui si è formato il pianeta. Se solo potremo comprendere quando, e in quali circostanze, abbia luogo la formazione dei pianeti, saremo in una condizione di gran lunga migliore per trarre conclusioni sulle nostre origini.
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