Cavour, Camillo Benso conte di
Statista (Torino 1810-ivi 1861). Con G. Mazzini e G. Garibaldi fu il maggiore esponente del Risorgimento italiano e uno dei grandi statisti europei della sua epoca, ispirato, nella sua azione di governo, dai principi della monarchia costituzionale e del liberalismo europeo. Cadetto di Michele e di Adele de Sellon, destinato alla carriera militare, dal 1824 paggio di Carlo Alberto principe di Carignano, fu allontanato dalla corte nel 1826 per insofferenza e liberalismo. Ufficiale del genio dal 1827, fu trasferito per punizione al forte di Bard per aver manifestato il suo consenso alla Rivoluzione di luglio in Francia. Quindi, in seguito al provvedimento, C. decise di dare le dimissioni (1831). In mezzo alla diffidenza dei circoli conformistici, C. si inserì nel movimento riformatore subalpino, al quale collaborò sia con iniziative dirette (nel 1838-39, promosse asili e scuole d’infanzia; nel 1839, divenne membro della commissione superiore di statistica; nel 1842, uno dei fondatori dell’Associazione agraria) sia con la sua attività di pubblicista nella Bibliothèque universelle di Ginevra, nella Revue nouvelle di Parigi, nell’Antologia Italiana di Torino. La riforma della legge sulla stampa permise a C. l’ingresso nella politica vera e propria, con la fondazione (1847) del giornale moderato Il Risorgimento, dal quale si fece patrocinatore di una Costituzione, pur accentuando – soprattutto dopo la rivoluzione parigina del 1848 – un’esigenza conservatrice (suffragio censitario e collegio uninominale). Le Cinque giornate di Milano lo spinsero a interessarsi ai problemi di politica estera, e nel celebre articolo L’ora suprema della monarchia sabauda esortò il sovrano ad assumere una coraggiosa iniziativa militare. Eletto deputato alle elezioni suppletive del 1848, battuto a quelle successive del 1849, si mostrò favorevole all’intervento in Toscana contro il partito rivoluzionario e ostile alla ripresa della guerra contro l’Austria. Rieletto nel marzo 1849, C. sostenne il ministero d’Azeglio contro le correnti di sinistra, ma dopo le elezioni del dic. 1849 cambiò rotta politica individuando il pericolo non più a sinistra ma a destra. Nel frattempo si era andata consolidando la sua posizione parlamentare: il 7 maggio 1850, C. aveva fatto la prima importante affermazione del suo programma difendendo alla Camera le leggi Siccardi; nello stesso anno entrò nel gabinetto d’Azeglio come ministro dell’Agricoltura e Commercio. Dopo aver realizzato il proprio ideale libero-scambista con una serie di trattati commerciali (Francia, Belgio, Inghilterra), nel 1851 assunse anche il ministero delle Finanze; con un prestito all’estero e nuove tasse riuscì a risolvere il problema finanziario, svincolando il Piemonte dalla soggezione finanziaria ai Rothschild. I problemi tecnici, tuttavia, non distolsero C. dalla politica generale e, di fronte all’atteggiamento moderato di d’Azeglio, per allargare il suo sostegno in Parlamento, promosse un’alleanza (➔ ) tra conservatori moderati e progressisti di U. Rattazzi (1852), preparando così la caduta del gabinetto. Da questo momento ebbe inizio quella grande politica che doveva portare al compimento del Risorgimento italiano. Costretto alle dimissioni dall’esecutivo, pochi mesi dopo C. fu designato presidente del Consiglio da Vittorio Emanuele II, che aveva tentato invano di affidare il governo al capo della destra C. Balbo. C. diede quindi impulso al progresso economico e sociale del regno, alla lotta contro Mazzini e contro le correnti guidate da C. Cattaneo e G. Ferrari, che auspicavano un’Italia repubblicana fondata su una federazione di Stati regionali. Scopi di C. erano l’espansione del regno di Sardegna fino alla costituzione di un regno dell’Alta Italia, l’indipendenza dell’intera nazione italiana dall’Austria e una confederazione di Stati che comprendesse i regni del Settentrione, del Centro e del Mezzogiorno. C. attuò rapidamente quasi del tutto il libero scambio; caddero molti privilegi dell’aristocrazia; furono assunti i migliori degli esuli politici nell’amministrazione statale, vincendo le diffidenze dei subalpini; fu sancita la soppressione delle corporazioni religiose e della manomorta, riportando una netta vittoria sul re, che aveva rifiutato di sanzionare la legge e costretto C. a dimettersi (26 apr. 1855), ma aveva dovuto poi richiamarlo (3 maggio). Con questa vittoria in Piemonte – almeno in politica interna – il regime parlamentare trionfò sul potere personale del sovrano. Forte delle sue istituzioni liberali, il Piemonte si considerò investito di una missione nazionale, e C. lavorò instancabilmente al suo raggiungimento. L’alleanza con la Francia e l’Inghilterra contro la Russia (1855), e la conseguente spedizione in Crimea, frutto della volontà di prestigio dinastico del sovrano e di abile calcolo politico-liberale del suo ministro, diede a C. il diritto di porre per la prima volta diplomaticamente dinanzi all’Europa la questione italiana nel Congresso di Parigi (1856). La realizzazione del programma cavouriano procedette al prezzo di una battaglia costante contro i clericali e i conservatori – che C. riuscì a contenere sacrificando Rattazzi (1858) e agitando lo spettro del mazzinianesimo e del sovvertimento sociale – e contro i mazziniani e gli ultrademocratici. Questi, tuttavia, fornirono a C. le migliori armi per la propria azione e l’attentato di F. Orsini contro Napoleone III contribuì a far presente all’imperatore l’urgenza di risolvere la questione italiana (convegno di Plombières, 1858). Ma C. ancora non aveva aderito all’idea unitario-nazionale e accettò la divisione della penisola in tre grossi Stati. Scoppiata la guerra con l’Austria (1859), sostenuta dalla Francia e dal regno sabaudo, l’armistizio di Villafranca imposto da Napoleone III, con la cessione della Lombardia al Piemonte, mise in pericolo l’intero progetto di C., che preferì dimettersi. Ma il movimento popolare per le annessioni dell’Italia centrale fornì a C., ritornato al potere nel genn. 1860, l’opportunità di risolvere radicalmente il problema. Annessi mediante plebiscito la Toscana e i ducati di Parma e Modena (11-12 marzo), e cedute alla Francia, previo plebiscito, Nizza e la Savoia (12-14 marzo), C. poté imporre il proprio piano diplomatico nell’impresa che Garibaldi stava per effettuare in Sicilia. Dopo le vittorie garibaldine di Calatafimi e di Palermo, per non lasciarsi sfuggire la direzione del movimento nazionale e sottrarre alle forze democratiche e repubblicane il successo della conquista del Mezzogiorno, fece invadere dall’esercito regio le Marche e l’Umbria, anche per impedire a Garibaldi di arrivare nella Roma papale. L’atteggiamento tenuto da Garibaldi nel colloquio di Teano diede partita vinta a C.; risolto il problema garibaldino, conclusi i plebisciti delle Due Sicilie (21-22 ott.), delle Marche e dell’Umbria (4 e 5 nov.), C. poteva a buon diritto trasformare giuridicamente il regno di Sardegna in regno d’Italia. Morì poco dopo la proclamazione (17 marzo 1861) del regno d’Italia, ancora, tuttavia, privo del Veneto e di Roma, proprio mentre erano iniziate le trattative da lui promosse per la soluzione del problema dei rapporti tra Stato e Chiesa, sulla base di quel principio di libertà religiosa che era stata la sorgente più intima del suo liberalismo.
Nasce a Torino
Abbandona la carriera militare e inizia una serie di viaggi in Europa
Inizia a occuparsi delle proprietà di famiglia nel Vercellese, introducendo migliorie tecniche
Fonda il periodico Il Risorgimento, di impostazione liberale
Eletto deputato
Presidente del Consiglio
Partecipazione del Piemonte alla guerra di Crimea
Proclamazione del regno d’Italia; poco dopo C. muore a Torino