Benedetto XV
Giacomo Della Chiesa nacque a Genova il 21 novembre 1854 dal marchese Giuseppe, di antica famiglia originaria dai duchi di Spoleto, e da Giovanna Migliorati, discendente di un casato nobiliare che aveva dato alla Chiesa il papa Innocenzo VII. Frequentò il ginnasio nell'Istituto Danovaro e Giusso, presso cui ottenne la licenza. Entrò, quindi, come esterno al seminario arcivescovile di Genova, dove studiò per il liceo. Il Della Chiesa rivelò la sua vocazione allo stato ecclesiastico a un prozio, il cappuccino Giacomo da Genova, figlio del marchese Antonio Raggi, di profondo spirito francescano. Ancora universitario, partecipò alle prime attività dell'Azione Cattolica. Conseguita la laurea in legge, entrò il 16 novembre 1875 nel collegio Capranica di Roma, di cui era allora rettore monsignor Francesco Vinciguerra. Seguì i corsi di teologia alla Gregoriana, dove ebbe come maestri il padre Camillo Mazzella e il padre Antonio Ballerini. Ricevette gli ordini sacri il 21 dicembre 1878. Passò, quindi, all'Accademia dei Nobili Ecclesiastici, presso cui si laureò nel 1880. Nel gennaio del 1881 conobbe Mariano Rampolla del Tindaro, allora segretario della Congregazione degli Affari Straordinari, che più tardi lo volle suo segretario particolare in Spagna, dove era stato mandato come nunzio da Leone XIII.
Mariano Rampolla fu l'intelligente interprete e realizzatore di quella politica di Leone XIII mirante a restituire alla Santa Sede una posizione di prestigio e di autorevolezza mondiale, dopo gli anni di isolamento del pontificato di Pio IX. Egli preparò il terreno favorevole all'offerta di arbitrato avanzata da Bismarck a Leone XIII per comporre la vertenza tra la Germania e la Spagna, sorta in seguito all'occupazione da parte tedesca delle isole Caroline.
Nel Concistoro del 14 marzo 1887 Rampolla fu elevato alla porpora e due mesi dopo nominato segretario di Stato. Il Della Chiesa divenne minutante alla Segreteria di Stato: qui, anche assolvendo a compiti modesti, ebbe modo di seguire da vicino l'attenta e abile scuola diplomatica del Rampolla, sempre ispirata al grande disegno leoniano di restaurazione mondiale dell'autorità della Santa Sede.
Il Della Chiesa a poco a poco divenne una delle figure più note in Vaticano, a contatto con ecclesiastici, con diplomatici, con giornalisti di tutto il mondo, dispiegando presto sensibilità giuridica e storica, maturità di giudizio politico e finezza diplomatica. Uomo anche di grande pietà, come attestò il padre Ehrle, il grande erudito, prefetto della Biblioteca Vaticana: "Egli era uno zelante e attivo membro dell'Associazione dei sacerdoti che nelle lunghe e quiete notti consolano nelle ore di adorazione il Salvatore nel SS. Sacramento. Quando veniva il suo turno, allora si affrettava di sera tardi alla chiesa, dopo il lungo lavoro della Segreteria di stato, faceva per alcune ore la sua adorazione: poco dopo la mezzanotte celebrava la santa Messa: dopo di che un brevissimo riposo gli bastava per poter poi alla solita ora entrare primo alla Segreteria" (F. Ehrle, p. 215).
Il 23 aprile 1901 il Della Chiesa fu promosso sostituto alla Segreteria di Stato. Scomparso Leone XIII, fu chiamato da Pio X a succedere al cardinale Svampa come arcivescovo di Bologna. Il 25 maggio 1914 fu compreso da Pio X tra i cardinali del suo ultimo Concistoro. A successore di Pio X, fra il 31 agosto e il 3 settembre, oramai nel tragico infuriare del conflitto europeo, i cardinali, riuniti in conclave, elessero papa l'arcivescovo di Bologna, cardinale Giacomo Della Chiesa, l'allievo e amico fedele del Rampolla, che prese il nome di Benedetto XV in omaggio al predecessore nella cattedra di S. Petronio e di S. Pietro, Prospero Lambertini. A segretario di Stato il nuovo papa chiamò il cardinale Domenico Ferrata e, dopo la morte di questo, il cardinale Pietro Gasparri, l'autore del Codex iuris canonici, pubblicato nel 1917, opera egregia per equilibrio e limpidezza giuridica.
Discepolo anche il Gasparri di Leone XIII, giurista solido, fornito di un'eccezionale capacità nel maneggio degli affari diplomatici più complessi, ricco di senso realistico e di concretezza, fu, insieme col cardinale Bonaventura Cerretti, il più valido collaboratore di Benedetto XV. C'è chi ritiene il Gasparri diplomatico della stoffa e dell'ingegno di un Consalvi, altri lo definì il Giolitti della Chiesa. Di lui Giuseppe De Luca scrisse acutamente: "La sua politica, se è lecito un'impressione di profano, è l'ultima politica europea di tipo tra veneziano e inglese, ispirata cioè dai fatti più che dalle idee, dal diritto più che dalla cosiddetta cultura" (Pietro Gasparri nel centenario della nascita, "L'Osservatore Romano", 19 novembre 1952).
L'atteggiamento che B. assunse e mantenne nel corso del conflitto mondiale, e che fu origine di tante polemiche, è già chiaramente delineato nell'enciclica Ad Beatissimi del 1° novembre 1914.
Vera causa della "disastrosissima guerra" è per il papa la scomparsa dagli ordinamenti statali delle norme e delle pratiche della saggezza cristiana, "che sole guarentivano la quiete e la stabilità delle istituzioni". I mali della società, secondo B., erano: "la mancanza di mutuo amore fra gli uomini; il disprezzo dell'autorità; i beni materiali fatti unico obbiettivo dell'attività dell'uomo, quasi non ci fossero altri beni, e molto migliori da raggiungere". Nell'enciclica si condanna l'egoismo nazionalistico, l'odio di razza, la lotta di classe. B. non propende per nessuna delle parti belligeranti, ma sin dagli inizi del suo pontificato si impegna a denunciare ai capi delle potenze belligeranti e ai popoli le cause ideologiche comuni del conflitto, insistendo in maniera particolare su quell'elemento della scristianizzazione della società e del rovesciamento dei fini dell'attività dell'uomo nella pura pratica empirica del soddisfacimento personale, contro cui aveva già fatto sentire la sua voce Leone XIII. Al tempo stesso l'atteggiamento assunto da B. è ormai al di fuori di quella mentalità romantica tradizionalista, che aveva caratterizzato per lungo tempo la vicenda del movimento cattolico papale nel secolo precedente, secondo cui altro riparo ai mali non v'era se non nel ritorno alle società preborghesi e alla restaurazione del principio divino dell'autorità.
Non mancarono nemmeno allora in Italia i cattolici che ripetevano i vecchi temi cari all'intransigentismo cattolico: difesa dell'Austria come "baluardo all'irrompere dei nemici di Dio contro l'Europa cristiana", la guerra come flagello scaraventato da Dio "ad corripiendos homines", "la ribellione della società a Dio" come causa ultima del conflitto, il conflitto come provocazione della massoneria per cercare "di sbarazzarsi di quei regnanti" che erano ancora "affezionati alla fede cattolica". Ma si trattava delle interpretazioni di una minoranza, che dalla fine del pontificato di Leone XIII in poi si era fatta sempre più sottile e che mantenne qualche vivacità polemica sino all'intervento dell'Italia in guerra. In genere i cattolici in Italia aderirono alla neutralità sostenendola anche con fervore, e allineandosi all'atteggiamento della Santa Sede di denuncia delle origini ideologiche comuni del conflitto. Ma pure concordando con i moniti dell'enciclica Ad Beatissimi i cattolici dettero un peso diverso alla difesa della neutralità.
Vi furono coloro che si dichiararono neutralisti ad oltranza, come gli "intransigenti" e i seguaci di Guido Miglioli, sia pure con valutazioni diverse; vi furono i "neutralisti" che appoggiarono il ministero Salandra e che si possono definire filogovernativi e patriottici; vi fu l'Unione Popolare, ligia al messaggio di pace di B., pronta a invitare i cattolici a compiere il loro dovere se l'Italia fosse intervenuta nel conflitto, anche se non fu disposta ad assumere responsabilità per l'intervento. Non mancarono le posizioni filotripliciste anche tra le gerarchie ecclesiastiche. Erano queste posizioni dovute alla passione, alla particolare visione che ebbero certi uomini di Chiesa, laici e non laici, della guerra e degli interessi della Santa Sede; ma, come si desumeva dalle encicliche di B. e dalle messe a punto del cardinale Gasparri, tali posizioni erano superate dalla concreta necessità dell'istituzione ecclesiastica di assumere un atteggiamento chiaro e realistico, attorno al quale i cattolici di tutto il mondo, italiani, francesi, tedeschi e inglesi, non potessero nutrire dubbi. Pertanto, l'atteggiamento di B. non avrebbe potuto essere qualificato secondo quell'ideologia clericale che si sviluppò in Italia nelle particolari contingenze imposte dalla questione romana e dalla polemica ultramontana e intransigente avversa allo Stato unitario. In tale senso la dichiarazione del cardinale Gasparri del 28 giugno 1915 tagliava corto con le formulazioni più gravi della politica tradizionale protestataria, la quale aveva inclinato a fare della questione romana una questione internazionale, una specie di ipoteca accesa dal concerto delle potenze europee sull'unità italiana: la Santa Sede aspettava "la sistemazione conveniente della situazione non dalle armi straniere ma dal trionfo di quei sentimenti di giustizia, che augura si diffondano sempre più nel popolo italiano, in conformità del suo verace interesse".
Anche l'atteggiamento dei vescovi in Italia, pure mantenendosi conforme in linea di massima alla condanna della guerra e delle origini ideologiche di questa contenuta nell'enciclica di B., presenta sfumature assai interessanti da regione a regione. Indubbiamente mancano le posizioni estreme che potevano riscontrarsi tra gli "intransigenti" dell'Unità cattolica, decisamente filoaustriacanti, e i clerico-nazionalisti. In prevalenza i vescovi sono per la neutralità, pochi gli interventisti come monsignor Carmelo Pujia, arcivescovo di S. Severina, o come monsignor Alfonso Maria Andreoli, vescovo di Recanati. Ma l'interventismo di questi vescovi è nazionalistico (gli "alti destini" dell'Italia, il raggiungimento dei "sacri confini", "la rivendicazione delle legittime aspirazioni della patria nostra", ecc.) senza essere necessariamente e violentemente antiaustriaco. Insomma, confondendo il loro linguaggio con quello del nazionalismo moderato di Salandra, questi vescovi finirono per rovesciare l'impostazione neotomistica sul problema della guerra nazionale, che era stata già difesa da padre Luigi Taparelli contro Gioberti nella nota polemica sulla nazionalità. Ma l'atteggiamento della grande maggioranza dei vescovi, come l'arcivescovo Giorgio Gusmini, successo a Giacomo Della Chiesa nella cattedra di S. Petronio, non si discostò in sostanza da quello dell'Unione Popolare, che era il nucleo centrale dell'Azione Cattolica di allora e che aveva alla sua testa il conte Giuseppe Dalla Torre. Essi difatti esortarono i cattolici alla obbedienza alle leggi, collaborarono con le autorità governative locali nel fronteggiare le esigenze e le difficoltà della vita cittadina, dettero efficace contributo alle opere assistenziali connesse con lo stato di belligeranza, fungendo da tramite fra lo Stato e le popolazioni specialmente contadine (A. Monticone, I vescovi italiani e la prima guerra mondiale, in Benedetto XV, i cattolici e la prima guerra mondiale, pp. 627-59). In breve, senza indulgere a forme di patriottismo nazionalistico e mantenendo ferma la condanna della guerra di B., i vescovi per lo più non si stancarono di invitare i cittadini alla obbedienza fiduciosa all'autorità. Decisamente più vicina alla scuola taparelliana e neotomistica nella questione della guerra fu, invece, la posizione di vescovi come monsignor Nicola Monterisi, vescovo di Monopoli, tra le figure più belle e colte dell'episcopato meridionale, che da giovane aveva sostenuto tenaci battaglie locali in nome della Democrazia Cristiana. Particolare considerazione merita l'atteggiamento del vescovo di Rossano e poi di Taranto, nel 1917, monsignor Orazio Mazzella: egli ammetteva il principio della guerra giusta per violazione di un diritto certo, di cui non si è potuto ottenere riparazione in modo pacifico. Quindi la guerra dell'Italia non sarebbe stata legittimata da spirito espansionistico, ma dalla necessità di una difesa contro la volontà aggressiva degli Imperi centrali.
L'azione di B. non si limitò al piano dottrinale della condanna della guerra come mezzo per la soluzione dei contrasti tra gli Stati, ma si rivolse anche al campo dell'assistenza per alleviare le sofferenze dei feriti, per aiutare le popolazioni colpite dalle devastazioni e i prigionieri di guerra.
Numerose le sue iniziative, a cominciare dalla proposta della tregua di Natale 1914, che non fu accolta e che dette luogo ad un altro dei suoi accorati appelli in occasione della risposta agli auguri natalizi del Sacro Collegio: "Deh! cadano al suolo le armi fratricide! Cadano alfine queste armi ormai troppo macchiate di sangue [...] e le mani di coloro che han dovuto impugnarle tornino ai lavori dell'industria e del commercio, tornino alle opere della civiltà e della pace". Imponente l'organizzazione di assistenza che la Santa Sede riuscì a realizzare nei quattro anni del conflitto. Anzitutto lo scambio dei prigionieri di guerra inabili ai servizi militari, in seguito a trattative e proposte intercorse tra i governi delle potenze in lotta; lo scambio dei detenuti civili; la ospitalizzazione in Svizzera di feriti e di malati di tutti i paesi belligeranti. La trattativa tra la Santa Sede e Berna fu condotta da Carlo Santucci, accreditato per questa particolare missione dalla Segreteria di Stato presso il presidente della Repubblica svizzera. Va ancora ricordata l'opera per l'ospitalizzazione nella Svizzera dei prigionieri padri di quattro figli ed in prigionia da diciotto mesi, per il rimpatrio senza scambio dei tubercolotici prigionieri; l'azione dispiegata per i soccorsi materiali alle popolazioni più colpite, da quelle del Belgio a quelle polacche e del Montenegro, e poi a favore degli Armeni e dei Maroniti del Libano, dei cristiani di Siria e dei profughi russi.
Complessa e tenace l'attività diplomatica di B., che va dai passi compiuti per evitare l'intervento dell'Italia nel conflitto mondiale al suo progetto d'una pace senza vinti e senza vincitori, senza annessioni e riparazioni. La Santa Sede si adoperò in ogni modo per mantenere aperta la possibilità di una trattativa e di un'intesa tra Roma e Vienna sino alla vigilia dell'intervento dell'Italia nel conflitto.
Sin dal gennaio 1915 propose all'imperatore Francesco Giuseppe la cessione del Trentino; d'altra parte, Vienna ricorse più di una volta all'autorità del papa nei contatti con il governo Salandra. Dalle memorie di Carlo Santucci sappiamo che B. non cessò di offrire i suoi buoni uffici fino a poco prima dell'intervento. Vienna conservò sempre qualche riserva sull'azione del papa sia prima dell'intervento dell'Italia che nel corso del conflitto. Pur tuttavia, B. e l'imperatore Carlo continuarono a mantenere rapporti ancora nell'agosto del 1918.
Ma il principale atto diplomatico, che resta al centro dell'azione del pontefice durante la prima guerra mondiale, fu senza dubbio la nota del 1° agosto 1917 inviata alle potenze belligeranti.
La nota è breve, e, contrariamente ai precedenti messaggi del papa, non si limita ad un appello generale alla pace, ma discende "a proposte più concrete e pratiche", invitando i governi dei paesi belligeranti ad accordarsi sui seguenti punti: "Diminuzione simultanea e reciproca degli armamenti, secondo norme e garanzie da stabilirsi, nella misura necessaria e sufficiente al mantenimento dell'ordine pubblico nei singoli Stati; e, in sostituzione delle armi, l'Istituto dell'arbitrato con la sua funzione pacificatrice, secondo le norme da concertare e la sanzione da convenire contro lo Stato che ricusasse o di sottoporre le questioni internazionali all'arbitrato o di accettarne la decisione"; libertà di navigazione e comunanza dei mari; reciproca condonazione dei danni e delle spese di guerra; reciproca restituzione dei territori attualmente occupati, quindi, "da parte della Germania evacuazione totale sia del Belgio, con la garanzia della sua piena indipendenza politica, militare ed economica di fronte a qualsiasi potenza, sia del territorio francese", "dalla parte avversaria pari restituzione delle colonie tedesche". La nota papale continuava così: "Per ciò che riguarda le questioni territoriali, come quelle ad esempio che si agitano fra l'Italia e l'Austria, fra la Germania e la Francia, giova sperare che, di fronte ai vantaggi immensi di una pace duratura con disarmo le parti contendenti vorranno esaminarle con spirito conciliante, tenendo conto, nella misura del giusto e del possibile, come abbiamo detto altre volte, delle aspirazioni dei popoli, e coordinando, ove occorra, i propri interessi a quelli comuni del gran consorzio umano. Lo stesso spirito di equità e di giustizia dovrà dirigere l'esame di tutte le altre questioni territoriali e politiche, nominatamente quelle relative all'assetto dell'Armenia, degli Stati balcanici, dei paesi formanti parte dell'antico Regno di Polonia". La nota si chiudeva con quella definizione della guerra come "inutile strage", che doveva suscitare tante forti polemiche: "Nel presentarle, pertanto, a Voi, che reggete in questa tragica ora le sorti dei popoli belligeranti, siamo animati dalla cara e soave speranza di vederle accettate, e di giungere così quanto prima alla cessazione di questa lotta tremenda, la quale, ogni giorno più apparisce inutile strage". L'attenzione dell'opinione pubblica si concentrò allora nell'espressione della guerra come "inutile strage", espressione che, con qualche variante, ricorre più volte nelle lettere, quasi un rapporto, che i vescovi delle diocesi il cui territorio era coinvolto nelle azioni militari inviarono al papa sin dai primi giorni del conflitto. Il vescovo di Padova, Luigi Pellizzo, il 4 luglio 1917, circa un mese prima della nota, scriveva a B.: "Ma quando avrà fine questa orribile ed inutile carneficina?".
La nota di B. del 1° agosto 1917 era stata preceduta da due importanti iniziative diplomatiche: la nota degli Imperi centrali all'Intesa del 12 dicembre 1916 e l'appello del presidente degli Stati Uniti Wilson del 18 dicembre, che mostravano una certa tendenza in campo internazionale a trovare alcuni principi positivi per impostare una trattativa, a cui peraltro spingevano la staticità delle operazioni militari e la stanchezza dei fronti interni. La Santa Sede, informata della nota delle potenze centrali, aveva cercato di convincere Vienna e Berlino che era necessario presentare proposte concrete per rispondere alle accuse dell'Intesa che la diplomazia tedesca e austriaca era insincera. Anche quando l'Intesa respinse la nota degli Imperi centrali, la Santa Sede continuò nella sua azione per accertare fino a che punto gli animi erano veramente disposti alla trattativa e suggerendo all'imperatore Guglielmo alcune premesse generali che avrebbero potuto favorire l'incontro. Le premesse, come precisò il segretario di Stato Gasparri al nunzio a Monaco Aversa in un dispaccio del 15 gennaio 1917, dovevano essere: garanzie per la libertà dei mari, assicurazione della libertà e indipendenza dei piccoli Stati, diminuzione proporzionale degli armamenti, "garanzie per la esclusione di ogni egemonia ed imperialismo in Europa". Punti scelti oculatamente e che mediavano le richieste di massima dell'uno e dell'altro gruppo delle potenze belligeranti.
Con l'arrivo a Monaco del nuovo nunzio Eugenio Pacelli l'azione della Santa Sede per verificare le effettive disposizioni della Germania e per impostare più concretamente la sua iniziativa di pace entrò in una fase assai delicata. Il nunzio ebbe dapprima a Berlino incontri con il cancelliere Bethmann-Hollweg e con il ministro degli Affari esteri von Bergen, dal 26 al 28 giugno; a Monaco il 30 giugno incontrò l'imperatore d'Austria, Carlo. Dalla complessa attività del nunzio, il Gasparri trasse la convinzione che si potesse pervenire oramai alla formulazione di proposte precise e che su queste si potesse avere il consenso della Germania. Furono inviate istruzioni al nunzio, tra cui anche la proposta di ammettere il principio di una democratizzazione interna del regime, desiderata dai ministri inglesi. "Ministri Inghilterra [scriveva il segretario di Stato] hanno dichiarato essere disposti a trattare con Germania democratizzata e considerare democratizzazione come sufficiente garanzia per l'avvenire. Considerando che democratizzazione consisterà nel rendere cancelliere responsabile davanti Parlamento, V.E., nel modo che riterrà più opportuno, procuri ottenerla dall'Imperatore spianando così la via alla pace". Intanto al cancelliere Bethmann-Hollweg era successo il Michaelis, con il quale il nunzio ebbe uno scambio di idee il 24 luglio. A Eugenio Pacelli non sfuggì che la nuova situazione politica era caratterizzata da una preponderanza dell'elemento militare. Dopo un secondo incontro che ebbe con il Michaelis il 30 luglio a Monaco, il nunzio annotò che non sarebbe stato "possibile Germania vero e proprio Parlamentarismo a causa soprattutto Costituzione Federale Impero". Pacelli suggeriva che il papa non indugiasse più "anche perché se autorità militari riuscissero fare introdurre nella risposta definitiva modificazioni inaccettabili Santa Sede si troverebbe poi legata".
La nota del papa del 1° agosto fu consegnata alle potenze interessate tramite quegli Stati che avevano rappresentanza diplomatica presso la Santa Sede. L'Inghilterra trasmise all'Italia il documento papale. L'iniziativa di B., che pure era nata sotto favorevoli auspici, non ebbe il risultato che la Santa Sede si attendeva.
Dopo che il cardinale Gasparri insistette inutilmente per avere una "risposta favorevole" sul Belgio, ritenuta questione pregiudiziale a ogni trattativa con l'Intesa, la Germania prese tempo, tergiversando nelle risposte, mentre l'Austria si oppose alla più piccola concessione all'Italia. Anche l'Intesa lasciò cadere l'iniziativa papale, scaricando ogni responsabilità sull'atteggiamento reticente e non impegnativo degli Imperi centrali. L'Italia, che nel patto di Londra aveva inserito quell'articolo 15, che escludeva la Santa Sede dalle trattative di pace, rispose all'invito di B. con un discorso del suo ministro degli Esteri Sidney Sonnino alla Camera. Il Sonnino credette di scorgere nella nota papale "quella medesima indeterminatezza che caratterizza le comunicazioni da parte nemica". Secondo il ministro degli Affari esteri italiano, la proposta del papa di allontanare gli eserciti dal Belgio, "con la garanzia della sua piena indipendenza politica, militare ed economica di fronte a qualsiasi potenza" sapeva "alquanto di ispirazione germanica, quasi che volesse mirare a scusare o attenuare la criminosità dell'invasione, perpetrata all'inizio della guerra". Dalle memorie e dai documenti di archivio che si conoscono attorno alla nota di B. l'accusa di Sonnino non esce convalidata; d'altra parte il governo italiano era al corrente della natura dei passi compiuti dal nunzio a Berlino avendo intercettato i dispacci scambiati tra il cardinale Gasparri ed Eugenio Pacelli. In realtà, con l'articolo 15 del patto di Londra il governo italiano si era cautelato nei confronti di un eventuale arbitrato della Santa Sede, dal quale esso temeva che avrebbe potuto nascere occasione per sollevare in sede internazionale la questione romana. L'articolo 15 del patto di Londra si esprimeva così: "La France, la Grande Bretagne et la Russie appuieront l'opposition que l'Italie formera à toute proposition tendant à introduire un représentant du Saint Siège dans toutes les négociations pour la paix et pour le règlement des questions soulevées par la présente guerre". Sonnino mantenne fermo questo articolo e il relativo impegno dei firmatari del patto, anche quando la Santa Sede alla fine di luglio del 1918 tentò, con una iniziativa diplomatica molto abile, di ottenerne la sostituzione con la seguente formula: "Aucun non belligérant ne sera admis à la conférence éventuelle de paix, si ce n'est du consentement des soussignés" (R. Mosca, La mancata revisione dell'art. 15 del Patto di Londra, in Benedetto XV, i cattolici e la prima guerra mondiale, pp. 401-13). Il segretario di Stato aveva chiesto al governo belga di interpellare sulla sua proposta il governo britannico. Il Gasparri riteneva che la nuova formula, annullando un testo offensivo per la Chiesa, non avrebbe dovuto suscitare difficoltà tra i firmatari del patto di Londra, tanto più che le polemiche apertesi su questo articolo avrebbero potuto nuocere alla "unione dell'Intesa". Solo il governo inglese, pure assicurando di considerarsi vincolato al patto di Londra così come era stato firmato, espresse, a titolo personale, il parere che l'accettazione della formula proposta dal Gasparri, che non alterava la sostanza della stipulazione dell'articolo 15, "avrebbe potuto presentare qualche vantaggio non solo per l'alleanza in generale ma anche per l'Italia". Il governo francese e quello americano non presero in nessuna considerazione la proposta della Santa Sede. Dal suo canto Sonnino, telegrafando al suo ambasciatore a Londra, Imperiali, aveva già sostenuto che il governo italiano non poteva in alcun modo consentire che si ponesse in discussione "qualsiasi revisione o modificazione o sostituzione delle disposizioni sancite dalla Convenzione di Londra del 1915", che formavano "il Patto fondamentale dell'entrata in guerra dell'Italia" e dovevano "restare intatte per tutto quanto riguarda le obbligazioni reciproche tra i governi che vi presero parte, così per l'articolo 15, come per tutto il resto". In breve, fermo doveva restare per Sonnino il principio dell'integrità del patto: qualora si fosse mosso un solo articolo, in una situazione così diversa da quella degli inizi del conflitto (i quattordici punti di Wilson e le sue successive prese di posizione avevano dato maggiore forza ai diritti delle nazionalità oppresse), si sarebbe corso il rischio di rimettere in discussione i termini della stessa questione adriatica.
Importante anche l'azione diplomatica e religiosa svolta da B. alla fine della guerra nel settore orientale dell'Europa.
Nel 1918 inviò in Polonia e in Lituania come visitatore apostolico monsignor Achille Ratti, nunzio a Varsavia l'anno dopo. La Santa Sede riconobbe tra i primi il nuovo Stato della Polonia e tentò opera di mediazione tra Polacchi e Lituani specialmente durante l'offensiva della Russia bolscevica, decisa a respingere il piano del generale Pilsudski di portare le frontiere polacche a Kiev e sul Mar Nero. Il nunzio Ratti si adoperò anche per dirimere le controversie fra Polacchi e Tedeschi per il plebiscito nell'Alta Slesia. L'acceso nazionalismo, che divideva popolazioni considerate tradizionalmente baluardo del cattolicesimo, resero ingrata e difficile l'azione della Santa Sede in quelle regioni, specialmente tra i Polacchi che avevano mire espansionistiche. Il nunzio Ratti finì per essere combattuto da tutte le parti, da Tedeschi, Polacchi e Lituani. Quell'intesa che egli credeva di potere stabilire tra Polacchi e Lituani fallì miseramente con l'attacco lanciato nell'ottobre 1920 dalle truppe polacche contro i Lituani. Il 1° febbraio 1920 fu nominato visitatore apostolico in Ucraina il padre Giovanni Genocchi, il quale aveva svolto sotto il pontificato di Leone XIII attività missionaria in Siria, a Costantinopoli e nella Nuova Guinea. Monsignor Ogno venne nominato commissario pontificio per i territori sottoposti a plebiscito dell'Alta Slesia e della Prussia Orientale. La sua missione per la pacificazione fra Polacchi "latini" e Ruteni uniati e il suo tentativo di avvicinare gli ortodossi a Roma non ebbe successo. Egli non riuscì nemmeno ad arrivare in Ucraina (cfr. A. Tamborra, Benedetto XV e i problemi nazionali e religiosi dell'Europa orientale, in Benedetto XV, i cattolici e la prima guerra mondiale, pp. 855-84).
Situazioni delicate si presentarono alla Santa Sede anche nei paesi divenuti indipendenti dopo il crollo dell'Impero asburgico: il problema principale era sempre di trovare una linea mediana tra i molti contrasti che dividevano popolazioni anche cattoliche nella delimitazione dei confini. Quel nazionalismo che, fin dalla enciclica Ad Beatissimi, era stato indicato come il più grave ostacolo all'instaurazione di rapporti pacifici tra i popoli continuò ad essere tale per B. anche dopo la fine della guerra.
Della politica di B. si può ripetere ciò che scrisse Giuseppe De Luca: "La S. Sede fu neutrale: ma la sua neutralità le costò, possiam dire, una doppia guerra: guerra con gli uni, guerra con gli altri. La S. Sede non poté far nulla di bene, che subito non fosse tratto a male" (Il Cardinale Bonaventura Cerretti, p. 209).
Con l'Italia B. cercò di raggiungere un accordo per risolvere la questione romana.
Un passo importante fu compiuto per incarico del segretario di Stato dall'orvietano monsignor Bonaventura Cerretti (1872-1933) a Parigi il 1° giugno 1919. Il Cerretti, segretario della Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari, dove era successo a Eugenio Pacelli, fu con il Gasparri il migliore collaboratore di Benedetto XV. Anch'egli apparteneva a quella diplomazia vaticana che si era formata nell'Ottocento nel clima del pontificato di Leone XIII, proteso a restituire alla Chiesa una posizione di prestigio nei rapporti con le grandi potenze. Il Cerretti era stato inviato dal papa a Parigi come negoziatore ufficiale per la tutela degli interessi delle missioni cattoliche nelle colonie tedesche, che rischiavano di essere pregiudicati. Si temeva in Vaticano che le missioni cattoliche, qualora per l'articolo 122 del trattato di Versailles i missionari tedeschi avessero dovuto rimpatriare, cadessero in mani non cattoliche. La missione del Cerretti si concluse positivamente, anche perché implicitamente la Santa Sede entrava nel trattato di Versailles come sovrana autorità religiosa internazionale. Fu nel corso di questa missione che monsignor Cerretti ebbe un colloquio con il presidente del Consiglio italiano Orlando per avviare a soluzione la questione romana. L'incontro era stato preceduto da un altro fra monsignor Francesco Kelly, poi vescovo di Oklahoma, e Orlando. Il colloquio tra monsignor Cerretti e il presidente del Consiglio italiano ebbe luogo a Parigi all'Hotel Ritz. Il rappresentante della Santa Sede sottopose all'attenzione di Orlando un promemoria del cardinale Gasparri, contenente le proposte per la soluzione della questione romana. Era previsto il carattere di Stato indipendente e sovrano per la Santa Sede, con un ampliamento territoriale che andava poco più di là di quello che poi venne effettivamente riconosciuto con la Conciliazione. Orlando ritenne che in linea di massima il promemoria di Gasparri offrisse un terreno sufficiente per aprire le trattative tra il governo italiano e la Santa Sede, riconoscendo anche l'opportunità che la Santa Sede entrasse a fare parte della Lega delle Nazioni, che ad essa avrebbe garantito il territorio. Orlando scrisse subito a Roma, al vicepresidente del Consiglio dei ministri, Gaspare Colosimo, perché informasse Vittorio Emanuele III della proposta della Santa Sede. Colosimo rispose a Orlando il 9 luglio 1919 manifestando l'opposizione del re alla trattativa: "Circa la comunicazione che mi hai incaricato di fargli [scriveva Colosimo] [il re] ti è grato per la riserva ed il tatto con cui hai risposto a Monsignore Cerretti, ma ritiene che la proposta, se accettata, sarebbe di danno a noi ed al Vaticano; annullerebbe tutti i benefici di tante lotte culminate con la legge sulle Guarentigie, ed egli andrebbe via, piuttosto che sobbarcarsi ad un concordato simigliante" (la lettera di Colosimo è in Roma, Archivio Centrale dello Stato, Vittorio Emanuele Orlando, corrispondenza, fasc. "Colosimo"). Il 10 giugno Orlando rientrò in Italia, e il 19 cadde il suo governo.
L'azione diplomatica di B., volta ad allargare e stabilizzare i rapporti della Santa Sede con gli Stati moderni, fu coronata da successo, anche se l'influsso del suo pensiero sui problemi della pace non ebbe l'incidenza che egli si attendeva sui governi. Quando ascese al soglio pontificio, presso la Santa Sede si contavano appena quattordici rappresentanze diplomatiche; alla sua morte erano ventisette.
Prima fu l'Inghilterra che, appena scoppiato il conflitto mondiale, inviò presso la Santa Sede, dopo tre secoli e mezzo di carenza di rapporti, un incaricato d'affari; poi venne nel 1915 il Principato di Monaco, l'Olanda nel 1916, il Giappone nel 1917, il Portogallo nel 1918, il Brasile, la Finlandia, la Polonia, il Perù, l'Estonia, l'Ucraina, la Iugoslavia, la Cecoslovacchia. Ma l'avvenimento diplomatico più importante fu la ripresa delle relazioni diplomatiche con la Francia, dopo le lotte religiose del periodo prebellico. Nel corso della guerra la Francia era stata particolarmente ostile alla politica di pace di B., che fu accusato di favorire di fatto gli Imperi centrali. "Le Pape boche" era una qualifica dispregiativa corrente. Dopo la fine della guerra, divenuto presidente della Repubblica Deschanel e presidente del Consiglio Millerand, il riallacciamento delle relazioni tra la Santa Sede e la Francia apparve sempre più possibile. B. non nascose mai la sua aspirazione di vedere risolto il conflitto con la Francia e non dimenticò che la politica di Leone XIII aveva fatto dell'amicizia con il popolo francese uno dei suoi cardini. La Francia per tutto l'Ottocento aveva esercitato sempre una forte attrazione sulla Curia romana, anche quando si abbandonava alle sfuriate anticlericali di Gambetta e di Combes. Il pensiero cattolico sociale veniva dalla Francia; il primo che aveva fatto fremere la Corte pontificia con la sua idea di una cristianizzazione della democrazia era un abate francese, Lamennais; l'apologetica era francese, così anche la pietà. Di B. poi si riportavano le parole: "Se in Francia mi si offre un dito, io tenderò la mano; se mi si offre la mano, aprirò le braccia". Il 28 maggio 1920 Jean Doulcet, inviato come incaricato di affari presso la Santa Sede, concluse un accordo con il segretario di Stato Gasparri per la ripresa delle relazioni con la Francia. Il 16 maggio in S. Pietro era stata celebrata la canonizzazione di Giovanna d'Arco. Il 18 maggio 1921 Briand nominò per decreto Célestin Jonnart ambasciatore straordinario presso la Santa Sede. Restò ancora aperta la questione delle associazioni cultuali, anche per dissensi insorti tra l'episcopato francese, che non accettava la legge del 1905, e la Santa Sede, disposta a transigere. Soltanto con l'enciclica di Pio XI Maximam gravissimamque la questione sorta con la legge di separazione ebbe per il momento termine.
Anche dopo la guerra, B. continuò a insistere nel suo concetto che la pace per essere valida doveva essere fondata "sulla carità vicendevole", poiché, egli spiegava, "non è punto diversa la legge evangelica della carità tra gli individui da quella che deve esistere tra gli Stati e le nazioni, non essendo esse infine che l'agglomeramento dei singoli individui". Per favorire "le visite che i Capi degli Stati e dei Governi usano reciprocamente" al fine di accrescere la "concordia tra le genti civili", B. mitigò il divieto, fatto da Pio IX e confermato dai suoi successori, ai principi cattolici di venire a Roma in forma ufficiale. Nell'ultima parte dell'enciclica il pontefice prometteva il suo appoggio alla Lega delle Nazioni: "E una volta [egli disse] che questa lega tra le nazioni sia fondata sulla legge cristiana, per tutto ciò che riguarda la giustizia e la carità, non sarà certo la Chiesa che rifiuterà il suo valido contributo" (enciclica Pacem Dei munus pulcherrimum, 23 maggio 1920). Per quanto riguarda i rapporti con lo Stato italiano, B. dichiarava nell'enciclica: "Noi, considerando le mutate circostanze dei tempi e la piega pericolosa degli eventi, pur di cooperare a questo affratellamento dei popoli, non saremmo alieni dal mitigare in qualche modo il rigore di quelle condizioni che, abbattuto il principato civile della Santa Sede, furono giustamente fatte dai nostri antecessori ad impedire la venuta dei principi a Roma in forma ufficiale". Il papa aggiungeva però che questa "remissività" non si doveva intendere come "tacita rinunzia ai sacrosanti diritti" ovvero come accettazione della condizione "anomala" in cui si trovava la Santa Sede dal 1870. Una conferma della disponibilità di B. ad avviare a soluzione il problema dei rapporti tra la Santa Sede e lo Stato italiano è data anche dal Diario del barone Carlo Monti, funzionario di Stato, amico di vecchia data del papa. Il Monti, il "Vice Papa", come lo chiamò B., poteva scrivere, già nel luglio 1918, che le relazioni "ufficiose" con il governo italiano erano in corso: "si dovrà trovare una via per giungere alle relazioni ufficiali". D'altra parte, l'abolizione del "non expedit" (il divieto per i cattolici a partecipare alle elezioni politiche) e la conseguente formazione del Partito Popolare Italiano, per iniziativa di Luigi Sturzo (18 gennaio 1919), furono eventi che liquidavano ogni pretesa di rivendicazione legittimistica, chiudevano la fase dell'opposizione cattolica e favorivano l'ingresso dei cattolici nella vita pubblica come forza politica autonoma.
Sturzo dichiarò di non aver trovato opposizione in Vaticano "in quanto appunto il partito, nel suo programma e nel suo nome, si proponeva di evitare ogni confusione che potesse comunque vincolare le responsabilità della Santa Sede" (intervista a "Il Messaggero", 29 gennaio 1919). In una lettera privata a Carlo Santucci il segretario di Stato cardinale Pietro Gasparri, rievocando le origini del Partito Popolare Italiano, ricordava che questo era sorto "senza alcuna intervenzione della Santa Sede" e che, secondo il suo apprezzamento, il Partito Popolare "non era molto diverso dagli altri partiti" (la lettera del cardinale Gasparri, in data 1° agosto 1928, conservata nelle carte Santucci, è pubblicata in G. De Rosa, I conservatori nazionali, pp. 77-9).
La nascita del Partito Popolare Italiano portò a una riforma anche dell'Azione Cattolica. Già nel terzo convegno delle giunte diocesane, che si tenne a Roma nel marzo 1919, il conte Giuseppe Dalla Torre, presidente dell'Unione Popolare, affermò: "Se l'Azione cattolica non può sempre prescindere dall'attività politica, non può confondersi con questa" (cfr. "L'Osservatore Romano", 28 marzo 1919). Con B. finiva anche quel clima di sospetto, di lotte intestine senza esclusione di colpi tra i cattolici, che s'era formato per effetto delle polemiche contro il modernismo.
Sin dall'enciclica Ad Beatissimi B. aveva affermato: "Noi dovremo rivolgere una attenzione specialissima a sopire i dissensi e le discordie tra i cattolici, quali esse siano, e ad impedire a non fare più uso di quegli appellativi di cui si è cominciato a fare uso recentemente per distinguere cattolici da cattolici". Un colpo mortale venne inferto all'azione dell'integrismo svolta dal "Sodalitium pianum", che aveva come suo organo la "Corrispondenza Romana", nata nel 1907 con il compito di "combattere in ogni paese il progresso degli errori correnti, liberalismo, modernismo multiforme, e le opposizioni, aperte o mascherate, alle direttive della Santa Sede". Anche in Francia integristi e "Action française" non godettero più le protezioni di un tempo, e se la condanna dell'opera di Maurras tardò a venire, ciò dipese dal timore della Santa Sede di offrire, nel corso della guerra, pretesto a nuove asprezze polemiche tra i cattolici francesi.
Pontificato, quello di B., attento allo studio dei mezzi per un adeguamento della Chiesa alle esigenze moderne dell'apostolato in tutto il mondo. La guerra aveva sollevato una serie di gravi problemi per il movimento missionario. B. portò alle dirette dipendenze della Congregazione "de Propaganda Fide" l'Opera pontificia della propagazione della fede, la Santa infanzia e l'Opera di S. Pietro apostolo. Egli dette, inoltre, un forte impulso all'organizzazione del clero indigeno.
Fondamentale è l'enciclica Maximum illud (30 novembre 1919), diretta ai capi delle missioni. Qui esortava i vescovi a trattare "insieme gli interessi comuni d'una medesima regione", a creare un clero autonomo non disgiunto dal tipo di cultura del paese da evangelizzare, sollecitava le diocesi già evangelizzate a partecipare allo sforzo missionario dei nuovi territori, raccomandava il modo di dirigere le missioni, perché chi vi si dedicava non si sentisse abbandonato. Il pontefice accennava anche all'opportunità che i preti si procurassero con il proprio lavoro i mezzi di sostentamento. Da lui hanno ricevuto impulso gli studi di missionologia.
L'ispirazione mistico-religiosa è evidente nelle sue raccomandazioni ai predicatori. Ricevendo il 19 febbraio 1917 i quaresimalisti di Roma, disse: "Nelle parole di San Paolo, in sublimitate sermonis, chi potrà tollerare che i predicatori dell'epoca nostra usurpino ai tribuni la foga del dire, e si mostrino così accesi nel volto, così smaniosi nel gesto, da degradarne le scene del teatro?". Non voleva che sul pulpito si portassero critiche di storia, disquisizioni politiche o di diritto pubblico e privato.
Sulla predicazione è l'enciclica Humani generis Redemptorem (15 giugno 1917), indirizzata ai patriarchi, primati, arcivescovi, vescovi ed altri ordinari. Il papa lamentava che la predicazione evangelica non portasse sufficiente rimedio alla crescente disattenzione e dimenticanza delle cose soprannaturali nel costume pubblico e privato. Raccomandava ai vescovi di procedere alla scelta dei predicatori con somma vigilanza e adottando i criteri della santità di vita e dell'abbondanza di dottrina contro i comuni difetti della predicazione (ricercatezza formale, effetto, animosità politica, istrionismo, ambizioni di utili materiali). L'enciclica ricordava il fine della predicazione nella testimonianza della verità rivelata, invitava il predicatore a guardare a Dio, non a sé, a confidare nella preghiera e nella grazia e a non rifuggire dalla trattazione di argomenti spiacevoli (l'umiltà, l'abnegazione, la castità, il disprezzo delle cose umane, l'obbedienza, il perdono, i rapporti con il prossimo, la necessità di una scelta fra Dio e Satana, il giudizio finale).
Come i suoi predecessori, Leone XIII e Pio X, B. sognò il ritorno delle Chiese orientali separate. Quando scoppiò la rivoluzione russa, ritenne giunto il momento per cercare di liberare la Chiesa ortodossa slava dal peso dell'influenza dei governi. Il 1° maggio 1917 costituì con un "motu proprio" la Congregazione per la Chiesa orientale; il 15 ottobre dello stesso anno eresse a Roma un istituto pontificio per gli alti studi orientali. Nell'allocuzione concistoriale del 10 marzo 1919 ricordò che la Chiesa latina conservava gelosamente i riti orientali e li difendeva. Una grande ricchezza di motivi mistici è disseminata nei messaggi e nelle encicliche di B., specialmente del periodo bellico. Il motivo dell'espiazione per le colpe dell'umanità è frequente ed ha favorito la particolare disposizione di anime religiose alla dottrina della riparazione, vale a dire l'inclinazione mistica a sentirsi "ostia", "vittima", in funzione espiatrice, secondo una tradizione di pietà, che nell'età moderna va da Margherita Maria Alacoque sino a s. Teresa del Bambino Gesù. Il pontificato di B. durò poco più di sette anni (Giacomo Della Chiesa morì il 22 gennaio 1922), pur tuttavia è da considerarsi fra i più intensi e importanti nella storia contemporanea della Chiesa per diversi aspetti. Al suo attivo possono contarsi: la difesa dell'autonomia del magistero ecclesiastico contro ogni tendenza a strumentalizzare la forza del cattolicesimo secondo finalità particolaristiche, di ordine e di conservazione all'interno, e di espansione all'esterno; l'ammodernamento e il generale ampliamento dei poteri di intervento della Chiesa nell'opera di assistenza in una società sconvolta dai mezzi della guerra moderna e dalle rivoluzioni; nuovi e più moderni indirizzi all'attività missionaria; la promulgazione del Codice di diritto canonico (28 giugno 1917); il superamento del "non expedit", quindi l'avvio a soluzione della questione romana; la liquidazione delle pesanti dilacerazioni intervenute fra i cattolici nel corso delle arroventate polemiche fra modernisti e integristi.
fonti e bibliografia
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Sui diversi aspetti dell'azione diplomatica di B., sull'atteggiamento del clero e dell'episcopato in Italia e in altri paesi europei v.: Benedetto XV, i cattolici e la prima guerra mondiale. Atti del Convegno di studio tenuto a Spoleto, 7-9 settembre 1962, a cura di G. Rossini, Roma 1963; E.C., II, s.v., coll. 1285-94; Dizionario storico del Papato, a cura di Ph. Levillain, I, Milano 1996, s.v., pp. 173-78.