Pio X, santo
Giuseppe Melchiorre Sarto nacque a Riese (Treviso) il 2 giugno 1835, secondogenito tra dieci fratelli e sorelle, da Giovanni Battista e Margherita Sanson. Battezzato il giorno successivo alla nascita, crebbe in una famiglia di modeste ma non misere condizioni economiche. Dopo le classi elementari nel paese natale, tra il 1846 e il 1850 compì gli studi ginnasiali a Castelfranco Veneto, presentandosi agli esami presso il seminario di Treviso. Il 19 settembre 1850 vestì l'abito clericale e il 13 novembre entrò nel seminario di Padova, avendo ottenuto un posto gratuito. Fu ammesso alla quinta ginnasiale, e quindi frequentò con ottimi risultati il triennio del liceo. Nel 1852 si trovò di fronte a una difficile scelta. Pochi giorni dopo la nascita del decimo figlio, papà Sarto morì, il 4 maggio 1852. I familiari avrebbero voluto il rientro in famiglia del seminarista, ma il giovane era assolutamente convinto della sua scelta e rimase in seminario. Tra il 1854 e il 1858 frequentò il corso teologico. La sua richiesta di frequentare l'università per approfondire le lingue orientali fu respinta: forse perché ai corsi universitari non erano mandati quanti usufruivano in seminario di un posto gratuito. Quasi tutti i seminaristi dell'epoca dedicavano parte del loro tempo a scrivere versi, anche in latino. Il giovane Sarto predilesse un'altra attività, che lo accompagnò negli anni successivi: organizzò e diresse una piccola "schola cantorum", trascrisse e anche compose brani di musica sacra. Tra il 1856 e il 1858 ricevette gli ordini minori e gli ordini maggiori, e fu ordinato sacerdote il 18 settembre 1858 nella chiesa di Castelfranco Veneto. Nel novembre 1858 venne inviato cappellano a Tombolo, un piccolo borgo di circa millequattrocento abitanti, dove restò nove anni. Fra le sue attività, se ne ricordano alcune in particolare, perché sono indicative di quelle preoccupazioni che lo accompagneranno tutta la vita, come parroco, vescovo e papa. Prima di tutto, l'impegno per rendere decorose le cerimonie liturgiche: come già in seminario, anche qui avviò una scuola di canto liturgico, e iniziò a riflettere sul rinnovamento della catechesi. Ma nello stesso tempo aprì una scuola serale per analfabeti. Mantenne un forte riserbo sulle sue inclinazioni e scelte politiche, ma nel 1866 votò sì al plebiscito per l'annessione all'Italia. Il 13 luglio 1867 lasciò Tombolo; era stato nominato parroco a Salzano, comune di circa tremila abitanti. In conformità alle leggi del tempo, assunse anche la carica di sovrintendente scolastico comunale. Riemerse immediatamente la sua preoccupazione per la liturgia: la scuola serale che fondò anche a Salzano era dedicata all'insegnamento del latino e della musica, al servizio delle cerimonie religiose. Ampliò anche le sue conoscenze catechistiche, e aprì un nuovo capitolo della sua attività futura, redigendo un catechismo a uso dei suoi parrocchiani. La prima redazione comprendeva ben cinquecentosettantasette domande e risposte, elencate senza un apparente ordine logico. Di anno in anno, l'autore provvide a migliorare il testo iniziale. Non mancarono le occasioni per il giovane parroco di dimostrare la sua dedizione e la sua preoccupazione per il miglioramento delle condizioni socio-economiche dei suoi parrocchiani. Nel 1873 fu tra i più impegnati nell'assistenza agli ammalati di colera. L'attenzione allo sviluppo dell'occupazione lo portò a diventare amico di una famiglia di proprietari del luogo, i Romanin Jacur, che possedevano una filanda. I buoni rapporti del parroco con questa famiglia destarono sorpresa, e anche qualche richiamo da parte del vescovo: si trattava infatti di una famiglia di ebrei. Quell'amicizia però continuò e rimase tale, e certamente sin più significativa, anche negli anni del pontificato. L'atteggiamento comunque non lasciava possibilità di equivoci: attento e sensibile nei rapporti personali, intransigente e fedele ai principi sui rapporti istituzionali. Il suo giudizio sul popolo ebraico restò sempre molto prudente, per non dire negativo: non si potevano fare concessioni al popolo che aveva rifiutato il Messia. Dopo anni di parrocchia, ancora un cambiamento. Nel luglio 1875 il vescovo lo chiamò a Treviso come cancelliere della Curia. Sistemate le varie incombenze parrocchiali, Sarto vi si stabilì nel novembre. La sua attività si intensificò, mettendone in risalto pregi e difetti. Considerato eccessivamente rigido nella sua linea politica, rivelò buone doti di mediatore nelle varie controversie che dovette affrontare, in buona parte provocate dal clero locale. Aumentò la sua fama di predicatore, semplice ed efficace e per questo molto richiesto; e dimostrò anche una buona padronanza del diritto canonico. Lo stesso suo vescovo, monsignor G. Apollonio, in una lettera del 1884 ci fornisce informazioni sull'attività del cancelliere. Oltre a tale carica, il Sarto era stato nominato canonico della cattedrale, direttore spirituale del seminario, professore di religione nel liceo vescovile e consigliere del tribunale ecclesiastico. Nessuno si stupì quindi quando giunse la nomina a vescovo di Mantova, una diocesi considerata difficile dati alcuni precedenti e gli orientamenti politici poco adatti al clima e alla mentalità ecclesiastica del tempo. Mantova era la patria di don E. Tazzoli, noto soprattutto per essere stato condannato con i martiri di Belfiore (1852), ma già conosciuto prima per la sua attività e i suoi scritti che auspicavano una nuova cultura del clero e l'abbandono volontario del potere temporale, un tema particolarmente delicato in quegli anni. Ma non era solo la memoria del Tazzoli a preoccupare; la stessa città aveva visto operare monsignor L. Martini, discusso protagonista di scelte considerate filoliberali, proprio quando Pio IX non perdeva occasione per definire i cattolici-liberali ancora più pericolosi e subdoli degli stessi liberali. Mantova aveva visto nascere e svilupparsi un forte movimento contadino ostile alla Chiesa. In alcune parrocchie si era verificata l'elezione del parroco da parte della popolazione. Erano pure presenti significative comunità protestanti. Sembrava dominante il pensiero filosofico positivista.
Del clero mantovano aveva fatto parte il maggiore filosofo positivista italiano, R. Ardigò, che nel 1871 aveva lasciato il canonicato e il sacerdozio. Quell'abbandono era anche segno di una crisi che serpeggiava nelle fila del clero. Sarto fu ordinato vescovo a Roma il 16 novembre 1884 e il 19 aprile 1885 fece il suo ingresso nella diocesi. Nel 1888 convocò il sinodo, l'assemblea diocesana che periodicamente aggiornava le linee direttive dell'attività pastorale di una diocesi. Alcuni elementi emergono molto chiaramente: i preti dovevano astenersi da ogni impegno diretto di carattere politico, dedicando la loro attenzione esclusivamente all'attività spirituale; nessuna tolleranza e comprensione per i cattolici-liberali. Il sinodo dedicò larga attenzione alla catechesi nei suoi significati più ampi, da organizzare a beneficio di tutte le età e le categorie. Gli orientamenti pastorali del vescovo furono chiariti soprattutto nel corso delle visite pastorali che compì nella diocesi. Molto attento alla dimensione spirituale, non per questo dimenticò di incentivare le attività assistenziali e di promuovere il lavoro sociale svolto dall'Opera dei congressi, l'organizzazione cattolica nata nel 1874 e diventata il riferimento vincolante di tutta l'azione del cattolicesimo organizzato. L'Opera tra l'altro era nata con un forte spirito polemico nei confronti dello Stato italiano che Pio IX aveva chiesto di non riconoscere, e nel suo interno andava accentuandosi lo spirito intransigente e antiliberale, che si confermò con la direzione del conte G.B. Paganuzzi. Non tutto l'episcopato lombardo era schierato sulla stessa linea. Non lontano da Mantova operava monsignor G. Bonomelli, il vescovo di Cremona noto proprio per il suo spirito transigente e conciliatorista, che non aveva nascosto le sue speranze che si potesse giungere a una rapida conciliazione tra la Chiesa e lo Stato. Sulla stessa linea si poneva un grande amico di Bonomelli, monsignor G. Scalabrini, vescovo di Piacenza; mentre a Milano si pubblicava "L'Osservatore Cattolico", che sotto la direzione di don D. Albertario diventò uno dei massimi esponenti del più puro intransigentismo. Il vescovo di Mantova si collocò sulla stessa linea, e non nascose le sue critiche verso quei vescovi che sembravano poco entusiasti delle scelte pontificie. Sarto non perse occasione per esprimere l'avversione verso quei cattolici che pensavano potesse essere opportuno dare il proprio appoggio, nelle elezioni amministrative, ai candidati liberali. "Intransigente fino al midollo", si autodefinisce in una lettera al conte Paganuzzi; anche se si tratta di un'intransigenza che si sarebbe smussata con il trascorre degli anni (la lettera a Paganuzzi è conservata nell'archivio dell'Opera dei congressi, presso il seminario di Venezia: citata da A. Zambarbieri, Patriarca a Venezia [1894-1903], in Pio X. Un papa e il suo tempo, p. 146). Le vicende connesse con la nomina alla sede di Venezia gli avrebbero ricordato che il conflitto tra Stato e Chiesa non era ancora terminato, e si manifestava nei modi più diversi. Il 15 giugno 1893 Leone XIII lo trasferiva alla sede patriarcale di Venezia, avendolo già tre giorni prima, il 12 giugno, con procedura alquanto insolita, promosso alla dignità cardinalizia. Per poter prendere possesso della nuova sede era necessario l'"exequatur" da parte del governo, che tardò ad essere concesso, così come stava succedendo nella sede di Milano per A. Ferrari e nella sede di Bologna per D. Svampa. Il conflitto per Venezia nacque forse dal fatto che quella sede conservava il vecchio privilegio del patronato regio, al quale il papa non era ricorso. Si dice che Leone XIII avesse pensato di non esasperare il conflitto, chiamando Sarto a Roma come cardinale vicario, al posto del cardinale L.M. Parocchi. Il ritorno al governo di Crispi facilitò la soluzione, e il 10 ottobre 1894, sedici mesi dopo la nomina, Sarto ottenne l'"exequatur", e poté entrare in Venezia il 24 novembre. Le preoccupazioni del patriarca continuarono ad essere volte all'attività pastorale e al governo della diocesi, alle visite pastorali e all'organizzazione del sinodo. Il modello rimase la pastorale indicata dal concilio Tridentino e dalle riforme suggerite dallo stesso: lotta contro l'ignoranza religiosa con la promozione della catechesi per ragazzi e adulti; incremento e dignità della preghiera liturgica e forte centralità della devozione eucaristica; sviluppo del canto liturgico, in questo aiutato da uno dei grandi maestri compositori del tempo, futuro direttore della Cappella Sistina, don L. Perosi. L'impegno sociale rimase forte: promosse le varie forme associative, incrementò il lavoro dell'Opera dei congressi, che tra l'altro aveva la direzione centrale proprio a Venezia. Vide con favore il forte sviluppo delle Casse rurali, mentre nascevano anche Casse operaie. Rimase però sostenitore di una forte centralizzazione e soprattutto della totale dipendenza delle varie Opere dalla Chiesa gerarchica. Il che significava, concretamente, che non concepiva alcuna autonomia decisionale da parte dei laici, ma esigeva da loro la totale sottomissione al clero, al vescovo e quindi alle direttive pontificie. In quest'ottica, a più riprese aveva espresso a Roma il desiderio che il papa assegnasse al consiglio direttivo dell'Opera dei congressi un assistente ecclesiastico. I suoi orientamenti dottrinali non mutarono: il liberalismo è fra i peggiori nemici del cattolicesimo, così come tutti quei fermenti che derivano per filiazione diretta dalla Riforma protestante e che assumono la veste di valori moderni, di una modernità che si presenta antitetica alla mentalità religiosa, e che un giorno verrà considerata dal Sarto divenuto pontefice la vera grande nemica. Se ne sente l'eco in alcuni passaggi delle sue lettere pastorali: "Iddio è discacciato dalla politica colle teorie della separazione della Chiesa dallo Stato, dalla scienza col dubbio elevato a sistema, dall'arte avvilita sino al verismo, dalle leggi informate alla morale della carne e del sangue, dalle scuole coll'abolizione del catechismo, e perfino dalla famiglia, che si vorrebbe sconsacrata nelle sue origini e privata della grazia del sacramento". Di tutto questo la causa prima è il liberalismo, che alcuni cattolici, anche preti, vorrebbero guardare con qualche benevolenza. "Si guardino i sacerdoti dall'accettare nessuna delle idee del liberalismo [scrive ancora] che sotto la maschera del bene, pretende di conciliare la giustizia con la iniquità, che tutto accorda allo Stato, nulla, od assai poco, alla Chiesa, quasiché questa altro non fosse che una derivazione o parte di quello. Il liberalismo predica sempre la carità e la prudenza, quasi sia carità lasciare che il lupo sbrani le pecore, e sia virtù quella prudenza della carne, che è morte ed è riprovata da Dio" (le citazioni in A. Zambarbieri, Patriarca a Venezia, p. 156). Intransigente nei principi, con il passare degli anni diventò più flessibile nelle applicazioni: così si può desumere dal nuovo atteggiamento che assunse a Venezia, parzialmente diverso da quanto affermato a Mantova. Nel 1895 si disse favorevole ad un'alleanza, in vista delle elezioni amministrative, tra cattolici e moderati, sollevando non poche proteste tra quei cattolici intransigenti che lo avevano considerato il loro alleato. Il Comune era presieduto da R. Selvatico, rappresentante dell'ala più avanzata del liberalismo. La nuova alleanza, benedetta dal patriarca, portò in Comune ventiquattro clericali, sei conservatori e trenta liberali, ed elesse a sindaco il conte P. Grimani, personaggio che godeva della stima di Sarto e che sarebbe rimasto sindaco di Venezia fino al 1919. Il patriarca stava sposando una forma di intransigentismo moderato, la linea che considerava unica realisticamente possibile, se si escludeva l'idea di liste cattoliche. Una linea moderata che non significava abbandonare le premesse intransigenti: le occasioni per ribadirlo non mancarono, alcune delle quali piuttosto significative. Nel 1902 il re era in visita a Venezia, e il patriarca ignorò volutamente l'evento. Nello stesso anno, un attacco portato da R. Murri al Paganuzzi, occasionato da un commento al crollo del campanile di S. Marco, spinse il patriarca a intervenire in favore del presidente dell'Opera dei congressi, determinando una polemica con il prete marchigiano che stava operando per modificare la linea dell'Opera, e parlava ormai apertamente della possibilità di avviarsi alla costituzione di un partito, la Democrazia Cristiana, che facesse gradualmente spazio a una larga autonomia politica dei laici cattolici.
Il 20 luglio 1903 Leone XIII morì; il patriarca di Venezia lasciò la città per recarsi al conclave il 26 luglio. Una tradizione vuole che al momento della partenza abbia dichiarato: "Vivo o morto ritornerò"; è comunque molto probabile che il cardinale non immaginasse una sua elezione al pontificato. Il conclave doveva riservare qualche sorpresa, rivelata dal diario di un cardinale, F.D. Mathieu, e in seguito dagli appunti di vari altri protagonisti, in particolare l'arcivescovo di Milano A. Ferrari. Vi erano i cardinali favorevoli alla linea di governo del defunto pontefice, molto attento all'attività diplomatica e ai rapporti internazionali: il loro candidato era il segretario di Stato di Leone XIII, M. Rampolla; e vi erano i cardinali che auspicavano un cambiamento e cercavano la persona adatta a una nuova linea di governo più pastorale. Di questi si faceva interprete il cardinal Mathieu, che avrebbe dichiarato: "Vorremmo un papa che sia stato estraneo a ogni polemica, che abbia trascorso la vita nella cura delle anime, che si occupi minuziosamente del governo della Chiesa e che, soprattutto, sia padre e pastore. Un tale pontefice noi l'abbiamo a disposizione. Ha dato ottima prova di sé nella sua importante diocesi. Unisce una retta capacità di giudizio a una grande austerità di costumi e a una ammirevole bontà che gli ha guadagnato l'animo di tutti dovunque sia passato. Noi voteremo per il patriarca di Venezia". Anche se tali dichiarazioni avevano un po' il sapore di un giudizio sugli eventi ormai realizzati (le frasi fanno parte dell'articolo del cardinal Mathieu, nella "Revue des Deux Mondes", 20, 1904, pp. 241-85), il cardinal Sarto non si poteva considerare un candidato sconosciuto. Più volte si era parlato di lui, lo stesso Leone XIII lo stimava, e al trono pontificio sarebbe così salito un papa che, caso raro, non proveniva da nessun tipo di esperienza diplomatica, ma aveva percorso tutti i gradini dell'impegno pastorale diretto. Nei primi scrutini, i sessantadue cardinali presenti diedero parte delle loro preferenze a Rampolla, distribuendo i rimanenti voti su diversi altri candidati, fra i quali anche il Sarto. Il 2 agosto, dopo varie indecisioni il cardinale arcivescovo di Cracovia, J. Puzyna, ritenne giunto il momento di comunicare agli elettori il veto, o forse sarebbe meglio dire l'auspicio che la candidatura di Rampolla fallisse, in quanto sgradita al governo austriaco. Il conteggio dei suffragi lascia pensare che tale intervento non sia stato determinante: il Rampolla non aveva mai superato la soglia necessaria, neppure prima del veto. Ma certamente quell'intervento fece scalpore: e avrebbe presto determinato il nuovo pontefice a pubblicare un documento che proibiva simili intromissioni. Il 4 agosto si svolgeva lo scrutinio definitivo, con il quale veniva designato il cardinal Sarto, che aveva chiaramente manifestato il desiderio di non essere eletto. Riceveva invece cinquanta voti, contro i dieci di Rampolla e i due di G.M. Gotti. Avrebbe scelto il nome di Pio X. L'incoronazione ufficiale avveniva il 9 agosto, nella basilica di S. Pietro. Il nuovo papa portava in Vaticano un'esperienza pastorale molto ricca, e una formazione culturale non troppo ampia, anche se non così povera come talvolta si è voluto far credere; una formazione basata più sui manuali e sulle sintesi che sulla ricerca personale. Due tipi di esperienze, quella pastorale e quella culturale, che possono spiegare le scelte e i programmi del suo pontificato: da un lato una forte attrazione verso la pastoralità, la catechesi, le riforme della liturgia e della musica sacra in modo da portare i fedeli a una più profonda vita di preghiera e a una migliore partecipazione ai sacramenti; dall'altro una costante diffidenza nei confronti della ricerca scientifica, troppo spesso da lui considerata come desiderio di evasione dalla sottomissione all'autorità, e non come travaglio interiore dettato da un grande amore alla fede e alla Chiesa. Il tutto poi condizionato da una concezione fortemente gerarchica della Chiesa, dove la virtù suprema è l'ubbidienza, e il male assoluto l'orgoglio della mente, la superbia dello studioso che si arroga il diritto di giudicare il proprio superiore. Diversi di questi orientamenti apparivano già nella sua enciclica programmatica, E supremi apostolatus Cathedra, pubblicata il 4 ottobre 1903, a due mesi esatti dall'elezione, con la quale veniva affermata la sua volontà di mettere mano a una lunga serie di riforme all'interno della Chiesa. Una volontà ribadita qualche settimana dopo, nel discorso tenuto in occasione del primo Concistoro, il 9 novembre 1903, dove ripeteva che la sintesi del suo programma era chiara: "Instaurare omnia in Christo". Cristo si presenta come l'unica verità; se ne desume che "il nostro primo dovere sarà anzitutto di insegnare, di proclamare e di difendere la verità e la legge di Cristo. Da ciò il dovere di illustrare e confermare quei principi della verità, sia naturali, sia soprannaturali […], consolidare i principi di dipendenza, di autorità, di giustizia, di equità che oggi sono conculcati; dirigere tutti secondo le norme della moralità, anche nelle cose sociali e politiche, tutti, diciamo, tanto quelli che obbediscono, quanto quelli che comandano. Sappiamo benissimo che urteremo non pochi dicendo che ci occuperemo necessariamente di politica. Ma ogni giusto estimatore delle cose vede che il Sommo Pontefice, investito da Dio del supremo magistero, non può assolutamente separare le cose che appartengono alla fede ed ai costumi dalla politica. Essendo egli inoltre capo e primo magistrato della società della Chiesa, società composta di uomini e vivente fra gli uomini, è necessario che con i capi delle nazioni e con le autorità civili esso abbia mutue relazioni se si vuole che, dovunque sono cattolici, sia provveduto alla loro sicurezza e libertà, non dimenticando che, a presidio della fede, nostro dovere apostolico è ancora di confutare e rigettare i principi della moderna filosofia e del diritto civile, i quali oggi spingono il corso delle umane cose là, dove non permettono le restrizioni della legge eterna" (la citazione in S. Tramontin, Il papato [1903-1914], in Pio X. Un papa e il suo tempo, p. 183). Il programma è chiaro: difesa dei grandi principi cattolici, rafforzamento dell'autorità e della relativa dipendenza, riaffermazione del primato della società religiosa sulla società civile e conseguente diritto del pontefice di dettare orientamenti e norme vincolanti non solo per i suoi sudditi, ma anche per i governi, evitando che facciano propri i principi di filosofie che sfuggano ai dettami della legge divina. Nulla dunque esulava dal programma restauratore: e il papa avrebbe subito messo mano alle riforme religiose, senza per questo trascurare né le organizzazioni di carattere socio-politico che si erano sviluppate nel mondo cattolico, né gli sforzi per riportare sulla giusta linea i rapporti con i vari Stati. Il programma di riforme gli era indicato dai risultati della visita apostolica alle diocesi, soprattutto italiane, che aveva fatto iniziare pochi mesi dopo la sua elezione. Nel marzo 1904, con il documento Arduum sane munus dava avvio al lavoro di maggior respiro, la codifica del diritto canonico. Da vario tempo si sentiva l'esigenza di un lavoro che mettesse ordine fra le molte leggi ecclesiastiche, nate in epoche diverse e quindi in certi casi non più adeguate ai nuovi bisogni e inoltre di non sempre facile interpretazione. Tutto il lavoro veniva affidato alla regia di un abile canonista, monsignor P. Gasparri, futuro segretario di Stato e in questa veste firmatario nel 1929, con Mussolini, dei Patti Lateranensi. Il lavoro fu enorme, e P. non ne vide la fine. Il codice sarebbe infatti stato promulgato da Benedetto XV nel 1917. Come molte norme giuridiche nate in epoca postridentina, anche la struttura della Curia romana era ancora retta dalle norme emanate da Sisto V nel 1588.
P. nominava una commissione per la riforma e, nel giugno 1908, con la costituzione Sapienti consilio, entravano in vigore i nuovi ordinamenti. Le Congregazioni romane da venti venivano ridotte a undici, e fra queste assumevano grande importanza la Congregazione Concistoriale, incaricata della nomina dei vescovi e del governo delle diocesi, e la Congregazione del Concilio, custode della disciplina del clero e dei fedeli. La Congregazione "de Propaganda Fide" assumeva la responsabilità di tutti i territori di missione, mentre nasceva una nuova Congregazione per la Disciplina dei Sacramenti, chiamata a realizzare i programmi pastorali del papa. Una nuova importanza assumeva anche la Segreteria di Stato, un vero e proprio ministero degli Esteri, affiancata dalla Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari, cui erano affidate le competenze sulle leggi civili e lo studio dei rapporti con gli Stati. La Congregazione dell'Indice restava distinta da quella del Sant'Uffizio, nonostante avessero competenze analoghe. P. però pensava, e lo avrebbe quasi subito dimostrato, che i libri da esaminare (e spesso da condannare) erano in grande crescita, e sarebbe stato un errore sopprimere un ufficio che aveva proprio quel compito. Quasi a coronamento della riforma, veniva preparata una bozza di riorganizzazione anche degli uffici del Vicariato, le strutture di governo cioè delle diocesi di Roma, affidando maggiori poteri al cardinale vicario, cui il papa di fatto delegava la conduzione della propria diocesi. Fra i primi interventi in proposito, il papa avrebbe regolamentato la vita dei giovani, seminaristi e preti, che si recavano a Roma per compiere i loro studi. Già nel 1904, ribadendo la necessità che i giovani fossero avviati ed educati al sacerdozio fin dai teneri anni, P. stabiliva che quanti venivano a Roma per proseguire gli studi dovevano dimorare in un collegio ecclesiastico o in un seminario; norma da estendersi anche a quanti venivano a Roma per proseguire gli studi dopo l'ordinazione sacerdotale e che spesso fungevano da prefetti in collegi laici. I preti inoltre potevano venire a Roma solo su esplicita richiesta del loro vescovo, che si impegnava anche a riprenderli in diocesi dopo gli studi. Le università ecclesiastiche poi non dovevano ammettere, come alunni, seminaristi o preti che non vivessero in collegi ecclesiastici o in seminari. D'altra parte veniva stabilito, con una lettera indirizzata il 5 maggio 1904 al cardinale P. Respighi, vicario di Roma, che per essere ordinati preti bisognava aver terminato il quarto anno di teologia ed essere stati per almeno tre anni alunni di un seminario o collegio ecclesiastico: una norma che rappresentava una tappa essenziale nella storia della formazione del clero, in quanto poneva praticamente fine al chiericato esterno, alla prassi cioè ancora molto diffusa di compiere gli studi teologici senza risiedere in seminario, ma a casa propria, frequentando solo le lezioni o addirittura presentandosi esclusivamente per gli esami. Oltre alle norme locali, il papa provvedeva anche a preparare un nuovo ordinamento degli studi per i seminari, affidando il compito a una "Commissione pontificia per il riordinamento dei Seminari in Italia", che svolgeva il proprio compito tra il 1905 e il 1908. Questo permetteva al pontefice di pubblicare nel maggio 1907 un Programma generale degli studi, con dettagliate indicazioni sui curricula per i seminari, che prevedevano tra l'altro l'adozione per il ginnasio e il liceo dei programmi governativi, un problema che aveva sollevato in quegli anni appassionati e anche polemici dibattiti. Nel gennaio 1908 i programmi venivano integrati con le Norme per l'ordinamento educativo e disciplinare, un vero e proprio regolamento per la vita interna dei seminari. La riforma sarebbe stata completata con la fondazione dei seminari regionali, luoghi di formazione in cui sarebbero stati concentrati i seminaristi di varie diocesi, quando le stesse diocesi, soprattutto quelle piccole, non fossero in grado di mantenere in vita, causa la povertà sia economica che culturale, un proprio seminario. Nel volgere di pochi anni sarebbero sorti vari seminari regionali, soprattutto nel centro-sud, affidati per l'insegnamento al clero secolare, con cinque eccezioni riguardanti i Gesuiti. Nel 1912 alcuni altri documenti avrebbero completato il lavoro, che aveva visto una profonda trasformazione dei modelli educativi per il futuro prete. L'altro capitolo delle riforme concerneva la vita sacramentale dei fedeli, a partire dal rinnovamento della loro cultura religiosa. I testi per la catechesi erano stati da sempre l'assillo del Sarto, fin dagli anni di Salzano. Era tornato sul problema nei sinodi convocati da vescovo e in vari interventi presso i confratelli delle regioni lombarda e veneta. Voleva pervenire a un testo base, che superasse i troppi catechismi in circolazione. L'elezione al pontificato gli dava la possibilità di realizzare il programma; e nel 1905 faceva pubblicare un Compendio della dottrina cristiana, le cui fonti ispiratrici erano due testi settecenteschi, uno opera del vescovo di Mondovì, monsignor A. Casati, e l'altro di A. Pouget, pubblicato a Parigi e tradotto anche in italiano. Il papa avrebbe provveduto a numerose variazioni e stesure; fino al testo, varato nel 1912, imposto a tutte le diocesi italiane, basato su una serie di brevi domande e risposte, diventato il Catechismo della dottrina cristiana pubblicato per ordine di S.S. papa Pio X. La catechesi è la base della vita del cristiano, come la liturgia è la base della pratica religiosa. Nel periodo dell'episcopato mantovano, e poi come patriarca di Venezia, Sarto aveva chiesto al padre A. De Santi, collaboratore de "La Civiltà Cattolica", di preparargli dei testi di riflessione sulla musica da utilizzare nelle cerimonie liturgiche. Quei testi erano anche stati inviati a Roma, dove però avevano preso la strada degli archivi. Eletto papa, disponeva ora dell'autorità per pubblicarli; li riprendeva quindi e il 22 novembre 1903 presentava un documento con il quale venivano ridefiniti gli scopi del canto liturgico e i vincoli per l'uso della musica in chiesa. Veniva ammessa la musica polifonica, ma si raccomandava in modo particolare l'uso del canto gregoriano, mentre si proibiva l'uso della musica cosiddetta profana. Nelle chiese romane era prassi diffusa eseguire e cantare musica operistica anche durante le messe, così come era prassi diffusa far eseguire brani per soprano da cantori adulti di sesso maschile: con grandi effetti folcloristici, ma scarso sentimento della sacralità del luogo e della preghiera. L'intervento del pontefice avrebbe prodotto radicali modifiche nelle vecchie abitudini; e il lavoro del Perosi e di altri noti compositori di musica sacra avrebbe reso possibile l'applicazione della riforma. Ancora in ambito liturgico, sarebbe stata varata nel 1911 la riforma del Breviario, il testo cioè utilizzato da tutti i preti per la preghiera quotidiana; e soprattutto sarebbero state preparate nuove norme per il sacramento dell'eucarestia. Due erano gli elementi base di questa riforma: da un lato, l'invito ai fedeli alla comunione anche quotidiana, superando gli ultimi residui del rigorismo giansenista, e trasformando in possibilità concreta un auspicio che da decenni era stato fatto proprio da vari studiosi, compreso Leone XIII; l'altra novità era l'abbassamento dell'età per accostarsi alla comunione. Nell'agosto del 1911, con il decreto Quam singulari, il papa fissava l'età della prima comunione al primo uso di ragione, e concretamente attorno ai sette anni. La radicale trasformazione della Curia romana, la codifica del diritto canonico, le riforme che hanno coinvolto quasi tutti gli ambiti della vita della Chiesa hanno portato alcuni storici a definire P. il più grande papa riformatore degli ultimi secoli. Ma molto spesso, nella storiografia che si è sviluppata a partire dagli anni Sessanta, tutti questi aspetti sono rimasti un po' in ombra, per lasciare spazio alle vicende della crisi modernista e ai mezzi messi in atto dal pontefice per difendere la Chiesa da quella che egli definiva la sintesi di tutte le eresie, una specie di mostro a molte teste che poteva essere combattuto solo operando su tutti i fronti. La grave crisi dottrinale vissuta nei primi anni del Novecento dal mondo cattolico, causa le conseguenze che i progressi delle scienze bibliche e teologiche stavano producendo, doveva spingere P. a interventi sempre più severi per sradicare l'eresia modernista, quella tendenza cioè che spingeva a fare propri i ritrovati della scienza, anche quella più radicale, accettando una modernità che sembrava in antitesi totale con lo spirito religioso e la sua mentalità dogmatica e autoritaria. Il papa, che fin dai primi atti del pontificato aveva manifestato la sua preoccupazione, sentiva che i pericoli non erano più esterni, ma interni alla Chiesa, raggiungevano il clero e i seminari. Lo spirito critico, la scienza che si riservava di accettare solo quanto era fondato scientificamente, non quanto offerto dalla gerarchia mandava in crisi il principio di autorità, una delle basi dell'apologetica cattolica. Quella scienza, che pretendeva di diventare autonoma dalla fede, provocava reazioni analoghe negli altri ambiti: in politica, qualcuno diceva che si doveva giungere alla totale autonomia dalla gerarchia ecclesiastica, invitata a non uscire dalle proprie competenze; un criterio simile si voleva applicare nel più vasto ambito sociale. Ma, secondo quella stessa gerarchia, l'affrancamento dall'autorità e l'irrisione verso forme di ubbidienza considerate non più adatte ai nuovi tempi avevano un'unica ragione: il demone dell'orgoglio, la superbia, l'affermazione del proprio io di fronte al superiore che rappresentava la volontà di Dio. La Chiesa era prima di tutto ordinamento gerarchico: opporsi ad esso significava scardinare le basi stesse della sua esistenza, volute da Dio e manifestate da Cristo, che ha fondato la Chiesa sugli apostoli ai quali si deve totale e assoluta ubbidienza. Anche la scienza non poteva mettere in causa quei principi: e quanti si facevano fautori di una scienza che accampasse pretese, che rifiutasse la normatività imposta dall'autorità ecclesiastica, diventavano pericolosi, soggetti da tenere sotto tutela, eventualmente da estromettere dalla comunità dei credenti. Della necessità di ubbidire, P. parla fin dai primi atti del suo pontificato, in un discorso che rivolse ai seminaristi del seminario francese di Roma il 24 settembre 1903. Tutte le varie riforme concernenti la vita dei preti e dei seminaristi, che abbiamo ricordato, erano dirette a un controllo più severo e al ristabilimento di una disciplina che, soprattutto a Roma, lasciava a desiderare. Il rischio maggiore però veniva dalle dottrine che si andavano diffondendo in ambito teologico e biblico, con le loro applicazioni alla sfera sociale e politica. L'azione del pontefice tendeva dunque a offrire strumenti nuovi per confrontarsi correttamente con le varie novità scientifiche, e nello stesso tempo togliere dalla circolazione quei testi che venivano considerati particolarmente pericolosi. La Commissione Biblica, istituita da Leone XIII nel 1902, diventava responsabile, con un decreto del 23 febbraio 1904, del conferimento dei titoli accademici concernenti le scienze scritturistiche, e nel marzo 1906 veniva imposto a tutti gli alunni di teologia di seguire un corso completo di Sacra Scrittura. Nel 1909 veniva decisa la fondazione del Pontificio Istituto Biblico. Con la condanna, nel dicembre 1903, di alcune opere di A. Loisy, esegeta e storico francese, si apriva anche il fronte della repressione. Fra i libri condannati, vi era L'Évangile et l'Église, il celebre "livre rouge" (dal colore della copertina) considerato il manifesto fondativo del modernismo. Ma tra il 1903 e il 1907 sarebbero stati condannati ben trentadue libri. A Loisy si sarebbero affiancati altri studiosi francesi, quali A. Houtin, L. Laberthonnière, E. Le Roy; poi sarebbero arrivati gli italiani, e fra questi A. Fogazzaro, l'autore di quel romanzo, Il Santo, la cui condanna avrebbe sollevato le più vivaci polemiche. Negli anni successivi l'elenco avrebbe compreso E. Buonaiuti, S. Minocchi e R. Murri. Il papa intanto preparava gli interventi che dovevano, nei suoi intenti, porre la parola fine alla vicenda, con la denuncia e la condanna degli errori. L'enciclica Pieni l'animo, del 28 luglio 1906, con la quale si condannava la Lega democratica nazionale, e su cui si avrà occasione di tornare, conteneva già una serie di messe in guardia contro gli errori che si diffondevano fra il clero e nei seminari. Si chiedeva di allontanare dai seminari quei professori che correvano dietro a novità pericolose e quei seminaristi "che mostrassero inclinazioni contrarie alla vocazione sacerdotale, precipua fra esse la indisciplinatezza e ciò che la genera, l'orgoglio della mente". Gli stessi seminaristi potevano frequentare le pubbliche università solo per gravi ragioni; era poi impedita loro la lettura di tutti i giornali; e fra i periodici, ne era permesso solo qualcuno di solidi principi, "stimato dal vescovo opportuno allo studio degli alunni" (Acta Sanctae Sedis, XXXIX, pp. 323-24). Il vero preannuncio delle condanne veniva fatto dal papa il 17 aprile 1907, nel discorso ai nuovi cardinali; e il 17 luglio veniva reso pubblico, con il titolo Lamentabili sane exitu, un elenco di proposizioni che dovevano essere considerate "reprobatae et proscriptae". Le sessantacinque espressioni condannate concernevano l'autorità del magistero della Chiesa, l'ispirazione e il valore storico delle Scritture, le nozioni di rivelazione, dogma e fede, l'origine e lo sviluppo della dottrina cristologica e sacramentaria, la costituzione della Chiesa, i caratteri generali e il valore della dottrina cristiana nel suo insieme. Non venivano indicati gli autori incriminati, ma anche una sommaria conoscenza delle opere condannate negli ultimi tempi poteva permettere di individuarli facilmente. Il 16 settembre giungeva l'enciclica Pascendi (la data ufficiale del documento è l'8 settembre), precisa e spietata analisi delle dottrine moderniste. Se il decreto era stato soltanto un elenco di proposizioni, l'enciclica si presentava come un vero trattato sistematico, una sintesi meticolosa di tutte le posizioni che si erano espresse negli ultimi anni. Il modernismo vi appariva come un sistema di pensiero fondato sull'agnosticismo e l'immanentismo, e quindi del tutto in contrasto con la dottrina cattolica. Nella condanna, venivano accomunate tendenze filosofiche, teologiche e bibliche, ma anche specificamente politiche, quali quelle sui rapporti tra Chiesa e Stato e sull'autonomia politica del credente nei confronti della gerarchia ecclesiastica. Tra le varie forme di modernismo veniva così annoverato, e condannato, il modernismo politico, il tentativo cioè di dare una base dottrinale al diritto dei credenti di fare scelte politiche senza attendere le direttive ecclesiastiche, facendo anzi notare alla stessa autorità che in quell'ambito non esistevano dottrine definite, ma libera ricerca dei credenti: e l'intervento dell'autorità doveva limitarsi all'espressione di un'opinione, autorevole ma non vincolante. P. opponeva a tali teorie il diritto-dovere della Chiesa di intervenire in tutto quello che ha un legame diretto con la morale, sia essa privata che pubblica; il diritto, quindi, di indicare autorevolmente ai cattolici quale ideologia e quale linea politica potevano dare una sufficiente garanzia al libero sviluppo del cattolicesimo. Sembrava anzi che il modernismo politico potesse presentare aspetti anche più pericolosi degli altri, perché metteva in causa i tradizionali ordinamenti degli Stati, in nome di una democrazia politica che era ben diversa dalla democrazia sociale auspicata dalle encicliche pontificie.
L'enciclica Pascendi terminava con una parte normativa, in cui si davano indicazioni sui provvedimenti di carattere disciplinare e si chiedeva la costituzione di organismi di sorveglianza che impedissero la ripresa o la diffusione delle dottrine condannate. Il tutto finiva per creare sospetti e spesso provvedimenti disciplinari contro persone di sicura integrità dottrinale, causa lo scatenarsi di gruppi di pressione che si sentirono investiti di una missione purificatrice e ricorsero a tutti i mezzi, compresa la delazione e la calunnia, per distruggere quelli che consideravano gli avversari della Chiesa. Alcuni di loro, sotto la direzione di un prelato che ricopriva importanti incarichi in Vaticano, monsignor U. Benigni, costituirono una vera e propria organizzazione spionistica, il "Sodalitium pianum" (in ricordo del grande papa inquisitore, s. Pio V), che adottava metodi poco edificanti. Dopo l'enciclica, si ebbe una forte ripresa delle condanne nei confronti di persone e di pubblicazioni. Preoccupato di non dare spazio a nessun personaggio sospetto, P. preferiva rischiare di colpire anche gli innocenti, con i suoi interventi di condanna. Raccoglieva sotto uno stesso anatema, come notava un osservatore contemporaneo, monsignor Birot, amici e nemici. "Il papa [aggiungeva] è come un colonnello d'artiglieria che da una cresta di collina cannoneggia nella pianura due eserciti antagonisti nel più forte della mischia e sbaraglia col medesimo colpo le sue truppe migliori" (E. Poulat, Storia, dogma e critica nella crisi modernista, Brescia 1967, p. 457). Per qualche anno, e in particolare tra il 1910 e il 1914, la storia della Chiesa è piena di necrologi: il domenicano J.M. Lagrange, uno dei più fedeli servitori della Chiesa e della scienza biblica, dovette lasciare la scuola di Gerusalemme, mentre la sua "Revue Biblique" rischiava la soppressione; gli "Annales de Philosophie Chrétienne" furono messi all'Indice, mentre L. Laberthonnière, dopo una nuova condanna nel 1913, dovette cessare qualsiasi attività pubblicistica; Bremond fu a sua volta condannato dall'Indice, per la sola colpa di avere scritto la biografia di una santa senza utilizzare i vecchi schemi apologetici. Nel 1912 anche L. Duchesne, storico abituato a un linguaggio poco ecclesiastico ma di provata ortodossia, fu condannato. La messa all'Indice della sua Histoire ancienne de l'Église sollevò grande scalpore in tutto il mondo scientifico. È uno di quei casi in cui l'autorità spara sulle truppe migliori. Furono accomunati nei sospetti anche vescovi e cardinali: fra le vicende più note vi è quella del cardinale Ferrari, arcivescovo di Milano, a più riprese accusato di scarsa vigilanza sulla sua diocesi da squallidi libelli e giornali, che ottennero però l'avallo di qualche Congregazione romana e dello stesso Pio X. Perfino la Compagnia di Gesù, che aveva sempre brillato per la devozione al pontefice e che aveva in Italia alcuni degli esponenti più noti della corrente antimodernista, sarebbe stata coinvolta nelle accuse: P. le avrebbe rimproverato qualche deviazione dottrinale, fino al punto di prendere in considerazione un drastico intervento censorio. D'altra parte, non va dimenticata la situazione in cui P. venne a trovarsi negli anni del suo pontificato: un clero troppo abbondante numericamente, ma con una formazione spesso disastrosa; delle posizioni teologiche che, solo perché nuove, erano accettate acriticamente, soprattutto da coloro che non erano in grado di vederne la debolezza e la precarietà; e la conseguente impressione, che P. dovette avere chiara, del pericolo di un radicale sovvertimento all'interno della Chiesa e della necessità di un intervento altrettanto radicale per rimettere ordine in una situazione che pareva sfuggire di mano all'autorità ecclesiastica. La scelta degli uomini che dovevano condurre il risanamento della Chiesa non fu sempre felice. Molti di essi, o per troppo zelo, o per ignoranza, o per preoccupazioni arrivistiche non certo molto evangeliche, andarono ben oltre quello che doveva essere il loro ruolo di custodi dell'integrità dottrinale. Non pochi dei visitatori apostolici, mandati nelle diocesi anche per verificare l'attuazione delle norme disciplinari imposte dalla Pascendi, interpretarono il loro ruolo in chiave di vera e propria restaurazione disciplinare, ignorando le più elementari forme di rispetto dovuto alle persone, spesso condannate senza avere avuto la possibilità di difendersi. P. poi non perdeva occasione per tornare sull'argomento, e ricordare i pericoli del modernismo e la necessità di combatterlo senza incertezze. Nel settembre 1910 pubblicava ancora un documento, che costituiva il vero suggello alla sua attività di profligatore di eretici. Constatando, ma forse il papa esagerava nel descrivere la realtà, che i modernisti, acutissimi nel loro modo di agire e di mimetizzarsi, continuavano a diffondere i loro errori con pubblicazioni, libri e giornali, nascondendosi sotto pseudonimi e diventando così un grave pericolo per il giovane clero, il nuovo documento non solo imponeva ulteriori misure restrittive nei seminari e un più severo controllo sui docenti, ma conteneva anche una confessione di fede, in cui venivano ribadite le principali dottrine cattoliche, con l'aggiunta di quegli elementi che sembravano in special modo messi in dubbio dai modernisti. Il testo si presentava sotto forma di giuramento, che doveva essere prestato e firmato in pratica da tutto il clero: vi erano infatti tenuti tutti i professori all'inizio dell'anno scolastico, i superiori religiosi, i sacerdoti in cura d'anime e i chierici al momento di ricevere gli ordini maggiori. Il provvedimento suscitava reazioni e discussioni vivaci un po' in tutti gli ambienti, con accenti più forti in Germania, causa la presenza di un discreto numero di ecclesiastici titolari di cattedre nelle università statali, ai quali sembrava venisse in qualche modo limitata la libertà di ricerca. Dopo lunghe discussioni provocate anche dalle implicazioni politiche del documento, il papa decideva di dispensare dal giuramento in Germania quei sacerdoti che non esercitassero un'attività pastorale, oltre all'insegnamento universitario. Qualche altro accomodamento veniva trovato per singole persone: era il caso ad esempio di padre G. Semeria, al quale P. concedeva di giurare con riserva, cioè senza impegnarsi a credere a quelle affermazioni contenute nel testo che erano ancora parte delle discussioni aperte fra gli studiosi. Il dibattito e simili concessioni lasciavano intuire che al documento in sé non veniva attribuita un'importanza assoluta; senza con questo dedurre che la lotta al modernismo fosse ormai da considerarsi finita. Infatti, negli anni immediatamente successivi continuarono le condanne e le messe in guardia, e in non pochi casi la risposta ad altri problemi era condizionata dai timori per il ritorno, o il permanere, del pericolo. Il giuramento antimodernista aveva dunque creato qualche problema non solo nei rapporti tra le persone, ma anche con il governo e le università tedesche. Proprio sul piano dei rapporti con i vari Stati gli anni di P. non erano stati molto facili. Definito "papa religioso" in contrapposizione con il suo predecessore Leone XIII, papa Sarto ebbe però non poche occasioni per scelte di carattere sociale e politico. Egli stesso, tre mesi dopo la sua elezione, come abbiamo ricordato, aveva detto esplicitamente che il papa riveste una carica e un ruolo che lo costringono a fare politica. La situazione italiana restava fortemente condizionata dalla rottura dei rapporti tra Stato e Chiesa, conseguenza dell'occupazione di Roma del 1870. I cattolici italiani quindi, in segno di protesta, non partecipavano alla vita politica. P. non modificava ufficialmente tale situazione; ma in occasione delle elezioni del novembre 1904, volute da G. Giolitti quasi come una risposta ai socialisti che avevano provocato lo sciopero generale nel settembre, introduceva una grande novità, allargando all'ambito nazionale quanto aveva accettato per le elezioni amministrative di Venezia. Preso atto che in certe situazioni la partecipazione al voto dei cattolici avrebbe potuto costituire un valido aiuto a candidati moderati contro eventuali candidati socialisti, permetteva ai vescovi di decidere caso per caso, secondo le esigenze locali, favorendo così quelle scelte che verranno definite clerico-moderate. Tale scelta rendeva tra l'altro impraticabile la via della costituzione di un partito cattolico, o di un partito dei cattolici, auspicata da R. Murri e con diverse sfumature da L. Sturzo; il papa aveva già lasciato intuire la sua preferenza per le alleanze clerico-moderate con lo scioglimento dell'Opera dei congressi. Nel corso del 1903 l'organizzazione cattolica aveva visto crescere la presenza dei gruppi giovanili che mettevano in causa la vecchia dirigenza e non condividevano il rigido intransigentismo di questa. Non pochi pensavano che i tempi richiedessero nuovi orientamenti, e fosse giunto il momento di pensare al ritorno alla vita politica. Il dibattito si sarebbe aperto sui modi di tale ritorno: un'alleanza con i moderati del gruppo liberale, secondo F. Meda e i suoi amici, la preparazione di un programma proprio in vista della costituzione di un partito, secondo R. Murri. Nel settembre 1903 aveva luogo a Bologna l'annuale congresso dell'Opera, diretta dal nuovo presidente G. Grosoli, che non nascondeva la sua simpatia per le correnti giovanili; e queste, con il loro maggiore esponente, R. Murri, trionfarono al congresso, provocando l'astiosa reazione della vecchia dirigenza e le preoccupazioni romane per l'impressione che l'organizzazione stesse avviandosi su strade politiche senza le dovute autorizzazioni gerarchiche. Per questo P., che non aveva alcuna simpatia per il prete marchigiano e non approvava la sua linea politica, nel dicembre 1903 pubblicava un documento che riassumeva le direttive dei suoi predecessori riguardanti l'azione popolare cristiana e ripeteva che queste dovevano essere osservate in modo totale e assoluto. Veniva in altri termini ribadita la volontà pontificia di riservarsi il diritto di indicare le strade da seguire anche in ambito socio-politico, e di evitare che nascessero movimenti che si facessero portatori di false dottrine circa la non competenza della gerarchia in materia politica. Qualche mese dopo, una circolare del presidente dell'Opera dei congressi che conteneva alcune frasi non gradite a Roma offriva l'attesa occasione per la soppressione della stessa Opera. Era il cardinale R. Merry del Val, segretario di Stato, che, rivolgendosi ai vescovi italiani, portava a conoscenza le nuove direttive sull'azione popolare, ora strutturata in modo da dipendere totalmente dall'autorità religiosa. Era di fatto la sconfessione della linea murriana. Il gruppo che faceva capo a R. Murri ritenne possibile percorrere la via dell'autonomia politica, mentre Sturzo, manifestando il suo totale dissenso verso le scelte clerico-moderate, riteneva dannoso e inutile proseguire la battaglia in quel momento, e più producente ritirarsi in disparte e attendere un tempo più propizio per ripresentare l'idea del partito (lo avrebbe fatto nel gennaio 1919, fondando il Partito Popolare). Nella interpretazione di Murri, lo scioglimento dell'Opera dei congressi poteva significare che ai cattolici veniva permesso di fare le proprie scelte in ambito politico, senza attendere le direttive dell'autorità religiosa. Per questo, il partito che decideva di fondare avrebbe preso il nome di Lega democratica nazionale, escludendo cioè il termine cristiano dalla sigla, per indicare che si trattava di una scelta squisitamente politica, e non voleva presentarsi come il partito che rappresentava il mondo cattolico negli schieramenti politici. Un tentativo analogo, anche se di ben altro significato, faceva F. Meda, prendendo numerosi contatti in vista della costituzione di un Centro politico dei cattolici italiani. Non si doveva trattare di un partito confessionale, un modello che Meda considerava inutile e impossibile, ma piuttosto di un raggruppamento che potesse raccogliere forze diverse, appartenenti alle aree moderate. D'altronde, proprio le elezioni del 1904, e la partecipazione ufficiosa di elettori cattolici a sostegno di candidati antisocialisti, avevano chiaramente proposto il problema: e non era strano che a cercare soluzioni e a chiedere che il problema venisse affrontato in modo chiaro fossero proprio quelle forze giovanili che si riconoscevano nei vari Murri, Sturzo e Meda. P. però aveva ben altre intenzioni quando decideva di sciogliere l'Opera dei congressi, e non pensava di sostituirla con qualche raggruppamento di carattere partitico. Riallacciandosi al documento del dicembre 1903, concernente l'azione popolare cristiana, nel giugno 1905 pubblicava l'enciclica Il fermo proposito, nella quale indicava chiaramente la distinzione fra l'attività religiosa, posta sotto la direzione della gerarchia, e l'attività socio-politica, delegata ai laici. Precisava poi che i preti dovevano astenersi da ogni impegno in questo secondo ambito, in quanto la loro missione era essenzialmente religiosa e dovevano di conseguenza evitare di partecipare a un tipo di attività che di per sé era suscettibile di introdurre divisioni tra le classi. Vi era in tali affermazioni una chiara presa di posizione contro quei preti, e non erano pochi, coinvolti nel dibattito politico; ma non vi era, come poteva sembrare, l'affermazione di un'autonomia politica del laicato, poiché gli stessi laici venivano posti sotto tutela, visto che tutta l'attività organizzata doveva comunque essere sottoposta al vaglio della gerarchia ecclesiastica. Venivano anche delineate le nuove strutture dell'Azione Cattolica, che sostituiva la defunta Opera dei congressi. Essa veniva suddivisa in tre "Unioni", più la "Società della gioventù cattolica italiana", così denominate: "Unione popolare fra i cattolici italiani", per le iniziative culturali e di propaganda, "Unione economico-sociale" e "Unione elettorale". Nel 1908 si sarebbe aggiunta l'"Unione fra le donne cattoliche d'Italia", e le varie organizzazioni sarebbero state coordinate da una "Direzione generale dell'Azione cattolica italiana". Prima però il papa aveva ripreso le messe in guardia contro i preti che si dedicavano alla politica. I giovani democratici cristiani avevano annunciato di voler tenere a Bologna, a fine marzo 1905, un convegno per studiare i loro programmi futuri. Il papa scriveva allora all'arcivescovo della città, il cardinale Svampa, perché impedisse tale convegno. Il convegno veniva sospeso. Non però gli incontri e il lavoro che avrebbe portato pochi mesi dopo alla costituzione della Lega democratica nazionale, alla quale aderivano anche preti. La risposta romana era particolarmente severa, e il papa pubblicava nel luglio 1906 l'enciclica Pieni l'animo, che apriva gli interventi contro il modernismo, come abbiamo ricordato. Essa conteneva la condanna aperta del nuovo partito e la minaccia di comminare le previste pene canoniche a quei chierici o preti che vi avessero aderito, mentre i vescovi venivano invitati a promuovere al sacerdozio solo quei candidati che non lasciassero sospettare uno spirito di insubordinazione e disubbidienza. Il papa ricordava infine che il pericolo maggiore veniva dal fatto che si tentava di dare una giustificazione dottrinale alla disubbidienza, sostenendo l'incompetenza dell'autorità religiosa in materia politica e aprendo la strada al modernismo politico, più pericoloso del modernismo teologico. La condanna dei vari tentativi di organizzazione di un partito tra le fila cattoliche rendeva più facile la linea alternativa voluta dal papa, quella di un graduale inserimento nella vita politica con il sistema delle alleanze, la strada che permetteva a qualche cattolico di diventare deputato, ma non come rappresentante ufficiale della Chiesa. Quella linea si sarebbe ulteriormente sviluppata negli anni successivi, fino a portare ad alleanze generalizzate in occasione delle elezioni del 1913, passate alla storia con il nome del conte O. Gentiloni, che rivestiva in quel momento la carica di presidente dell'Unione elettorale. La difficoltà di accettare lo svilupparsi di movimenti laicali responsabili e il giudizio negativo sulla modernità trovavano un ulteriore banco di prova nel grave conflitto che si sarebbe aperto con la Francia, fino alla rottura delle relazioni diplomatiche. Già negli ultimi due decenni del sec. XIX la Francia aveva scelto la strada della laicizzazione, varando una serie di leggi in contrasto con gli orientamenti della Chiesa, e manifestando apertamente la volontà di intervenire nelle nomine dei vescovi. A fare le spese maggiori di questo clima di diffidenza erano le Congregazioni religiose, poste di fronte a leggi vessatorie e in seguito espulse dal paese. Le conseguenze erano gravi in particolare per le scuole cattoliche, in buona parte legate alle stesse Congregazioni religiose. La classe dirigente non perdeva occasione per manifestare il proprio anticlericalismo; ma anche il cattolicesimo viveva un momento di divisione. Lo si era sentito soprattutto dopo alcuni interventi di Leone XIII, tesi a convincere i cattolici francesi ad accettare una Repubblica a loro ostile, e a cercare nuove forme di collaborazione politica. I cattolici intransigenti si sentivano traditi da Roma, mentre i cattolici liberali, e con loro alcuni vescovi, plaudivano a questa svolta. P. ereditò questa situazione, in un momento in cui in Francia stavano anche sviluppandosi forti fermenti innovativi. Al progresso degli studi biblici, che videro la sconfessione di Loisy ma anche gli importanti studi di J.M. Lagrange e di altri, si affiancò il lavoro nel sociale. Nel 1903 i Gesuiti fondarono l'"Action populaire", centro di studi e di ricerche di grande impegno; nel 1904 fu organizzata la prima settimana sociale dei cattolici francesi. Da parte governativa però l'atteggiamento diventò sempre più vessatorio. Tra l'altro, nell'aprile 1904 si svolse la visita a Roma del presidente della Repubblica francese, E. Loubet, un gesto che gli altri capi degli Stati cattolici non compirono, per evitare di ratificare quell'occupazione di Roma da parte dello Stato italiano che il papa continuava a considerare un sopruso. La protesta del papa, anche se in forma discreta, sollevò polemiche e contrasti in Francia. Nel luglio dello stesso anno una nuova legge vietò l'insegnamento alle Congregazioni religiose, provocando la chiusura di molte scuole cattoliche, mentre si riaprì la discussione sulle competenze del governo nelle nomine dei vescovi. A fine luglio si arrivò alla rottura delle relazioni diplomatiche, e il 9 dicembre 1905 fu proclamata la separazione dello Stato dalla Chiesa, con il conseguente incameramento di tutti i beni di quest'ultima. Era forse possibile trovare qualche compromesso; ma P. rifiutava qualsiasi forma intermedia e, di fronte al gesto unilaterale del governo francese di denunciare il concordato, rispondeva l'11 febbraio 1906 con l'enciclica Vehementer Nos, dichiarando quella legge e la conseguente separazione un'ingiuria a Dio e un'iniquità verso la Chiesa. Qualche vescovo aveva tentato di conservare in qualche modo la proprietà degli edifici di culto, costituendo delle associazioni cultuali erette dai fedeli, alle quali potevano essere affidati gli edifici. Questo sembrava avallare l'operato del governo, cosa che P. rifiutava in modo radicale, disapprovando quindi quei compromessi e forme diverse di parziale accordo che altri stavano studiando. Dopo qualche mese di riflessione, con un secondo intervento, l'enciclica Gravissimo officii munere del 10 agosto 1906, il papa rifiutava ogni forma di compromesso, proibiva le associazioni cultuali sotto qualsiasi forma e prendeva atto della avvenuta separazione. Pur tra tante difficoltà, P. voleva affermare che preferiva il rischio della povertà nella libertà, piuttosto che la conservazione di qualche privilegio a prezzo di compromessi non sempre chiari. L'intransigenza del papa però rischiava di provocare altri conflitti: quasi a imitazione della Francia, anche il Portogallo dopo l'avvento della Repubblica aveva adottato misure fortemente restrittive nei confronti della Chiesa, che avevano portato alla carcerazione di numerosi preti. Anche in questo caso, P. elevava la sua protesta con l'enciclica Iamdudum in Lusitania, nel maggio 1911, non riuscendo però ad evitare la rottura dei rapporti con Roma da parte del Portogallo, nel 1913. Esito che veniva invece evitato in Spagna, dopo qualche anno di difficoltà nelle relazioni diplomatiche. P. aveva un sentimento molto vivo della difesa degli interessi della Chiesa, e dimostrava però scarsa propensione per le sottigliezze diplomatiche, per qualsiasi forma di compromesso, che nei rapporti con gli Stati moderni erano ormai prassi obbligata. Preferiva le posizioni nette: e non sempre gli esiti erano soddisfacenti. I problemi vissuti con la Francia e il Portogallo si ripetevano in alcuni paesi dell'America Latina; in Messico a partire dal 1911 si arrivò anche a una vera e propria persecuzione contro la Chiesa. Simili situazioni erano determinate da scelte dei vari governi che avevano risvolti quasi vessatori verso la Chiesa cattolica. Ma vi era certamente anche l'incapacità di P. di cogliere uno degli aspetti nuovi della vita politica e il radicale mutamento del concetto di potere e di legittimità democratica. P. rimaneva ancorato a una visione tipica dell'"Ancien Régime", quando ogni potere veniva legittimato dall'autorità religiosa, e la democrazia aveva un significato ben diverso da quello che si andava affermando. Lo stesso atteggiamento si ritrova nella sua diffidenza verso i partiti di matrice cattolica; poteva accettarli dove già erano attivi, come in Germania, e cercava di impedirli dove ancora non esistevano, come in Italia. Ma non poteva ammettere che dei laici, emancipandosi in modo aperto o velato dalle indicazioni della gerarchia, studiassero programmi politici o attuassero alleanze desunte dallo studio della situazione, più che dalle direttive ecclesiastiche. Dimenticando tale ottica, diventa molto difficile capire certe scelte di P., la sua apparente duplice personalità, di pastore attento a dare al credente una migliore condizione nelle manifestazioni della sua fede, e di inquisitore intransigente in quegli ambiti che sentiva ormai lontani dalla sua autorità. La sua forte preoccupazione per un mondo che considerava avviato su strade pericolose lo spingeva a diffidare di qualsiasi compromesso e ad approvare quanti gli offrivano aiuto, anche se talvolta con metodi poco edificanti. Si spiega così la sua benevolenza, e il rifiuto di biasimarli anche quando si rendeva conto che stavano ricorrendo a metodi dubbi, verso uomini e pubblicazioni che si davano come scopo la difesa della Chiesa e del pontefice. Buona parte della repressione contro il modernismo, condotta da spiriti mediocri, si spiega in questa ottica; e le stesse ragioni si possono vedere nel suo atteggiamento verso la stampa, la sua tolleranza verso giornali di scarso livello, ma a lui fedeli, e i difficili rapporti con quella stampa cattolica che non gli dava garanzie di rigore dottrinale. Questo appare chiaro, ad esempio, nel suo atteggiamento verso quei giornali cattolici che avevano costituito un trust, e che egli considerava poco affidabili, perché poco papali. Ancora dalla Francia erano venute altre due vicende che lo avevano costretto a nuove prese di posizione. Sull'onda di quegli "abbés démocrates" che avevano accettato i presupposti della modernità politica, si era sviluppato il movimento del "Sillon", con il suo profeta, M. Sangnier, osannato da numerosi gruppi giovanili. Il loro successo era legato alla forza della loro utopia: i laici dovevano assumersi il compito di dare un'anima cristiana alla democrazia, riportando alla Chiesa le masse popolari e attuando la riconciliazione della stessa Chiesa con la Repubblica. Per aumentare il proprio influsso, il movimento aveva iniziato a estendersi anche al di fuori dei confini cattolici, cercando collaborazione anche negli ambienti laici: il solco (sillon) che i giovani avevano voluto tracciare, doveva diventare molto più grande.
Tale evoluzione portava il movimento a ripercorrere strade analoghe a quelle della Democrazia Cristiana di Murri, con la progressiva affermazione dell'autonomia politica dalla gerarchia ecclesiastica e il coinvolgimento di non pochi chierici e preti. Il timore del riemergere del modernismo politico, l'accusa di voler identificare il cattolicesimo con una forma di democrazia politica inducevano P. a condannare il movimento, che aveva già sollevato le preoccupazioni di non pochi vescovi. Nell'agosto del 1910 il papa inviava una lettera ai vescovi francesi con le accuse contro il Sillon: filomodernismo, emancipazione dall'autorità religiosa anche in questioni concernenti l'ambito morale, accettazione dei grandi principi delle libertà moderne, contro la dottrina cattolica sulla società. Tale documento dava maggior respiro all'altro movimento che si era sviluppato nella destra francese con il compiacimento di non pochi ambienti cattolici, il movimento della Action française, il cui maggiore esponente, C. Maurras, dichiaratamente ateo, considerava la Chiesa cattolica come uno dei grandi baluardi dell'ordine e della conservazione: e la difesa dell'autorità, della gerarchia e dell'ordine erano per P. meriti indiscutibili. Ma nel movimento confluivano anche i maggiori teorici dell'antisemitismo e i sostenitori di dottrine in totale antitesi con il cattolicesimo. Per questo dalla Francia nel 1912 veniva la richiesta a Roma di un'analisi delle dottrine dell'Action française, che attirava le simpatie di non pochi cattolici e vescovi. L'esito era molto severo: la commissione incaricata dell'analisi giudicava negative, e da condannarsi, cinque delle opere di C. Maurras, e chiedeva anche la condanna della rivista del movimento che portava lo stesso titolo, "Action Française". P. si trovava nel solito dilemma: condannare chi lo meritava, annullando però un suo difensore; o non condannarlo, permettendo la circolazione dell'errore. La soluzione si trovava ricorrendo a un compromesso: la commissione incaricata dell'esame delle opere aveva finito i lavori nel gennaio 1914; nel febbraio il papa ratificava il documento di condanna, ma decideva di non renderlo pubblico. Quella condanna sarebbe quindi rimasta su qualche scrivania fino al 1926, quando sarebbe stata riesumata e pubblicata da Pio XI. Il rigore disciplinare, la diffidenza verso forme di collaborazione con forze non controllate dalla gerarchia provocavano problemi anche a quelle organizzazioni che accettavano il dialogo e la collaborazione con il mondo riformato. P. aveva sempre manifestato scarse simpatie verso le Chiese protestanti, e non aveva certo incrementato forme di dialogo ecumenico. La stessa difficoltà provava nei confronti del mondo ortodosso. Si rendeva ben conto delle necessità per quelle Chiese di conservare tradizioni e riti secolari, e aveva fatto anche alcune concessioni in proposito; ma nello stesso tempo incoraggiava i missionari a diffondere in Oriente il rito latino, provocando con questo e altri gesti lo scontento dei cattolici melchiti, copti e armeni. Tali orientamenti influivano anche sulle scelte politiche vaticane. Si spiegano così le riserve verso la Russia ortodossa; e si spiega la difficoltà a capire l'evoluzione del sindacalismo e del movimento operaio in Germania. Le organizzazioni operaie tedesche avevano da tempo espresso due tendenze, una di carattere confessionale, l'altra più favorevole all'interconfessionalismo. La prima tendenza, che faceva capo a Berlino, era lentamente diventata minoritaria in rapporto all'altra, che aveva come riferimento Colonia. Tra l'altro, anche il Centro, che era l'espressione politica del mondo cattolico, aveva fatto ormai la scelta dell'apertura interconfessionale, sostenuto da buona parte della stampa cattolica. Le discussioni fra le due tendenze si erano accentuate nei primi anni del Novecento, e nei vari congressi vi erano state polemiche causate anche dalle diverse interpretazioni date a quanto il papa aveva detto privatamente ai membri delle due organizzazioni, provocando smentite e controsmentite. L'organizzazione confessionale favoriva una maggiore dipendenza dall'autorità ecclesiastica; e la necessità di tale dipendenza veniva ribadita da P. nell'enciclica Singulari quadam del settembre 1912, che approvava ed elogiava esplicitamente le organizzazioni berlinesi, profondamente cattoliche, affermando però che si potevano tollerare anche altre forme, quando le circostanze lo avessero richiesto e per evitare danni maggiori. Il papa poi raccomandava ai vescovi tedeschi, nelle cui regioni si fossero organizzati sindacati misti, di prendere precauzioni onde evitare i pericoli insiti in simili organizzazioni, che incrementavano quella specie di cristianesimo vago e indefinito che viene chiamato interconfessionalismo. Quei cattolici che ne facessero parte dovevano essere aiutati, anche con la partecipazione ad altre associazioni religiose, a conservare intatta la loro fede e a non approvare le scelte che fossero in contrasto con la gerarchia cattolica. L'intervento pontificio sembrava calmare le discussioni; che invece riprendevano più vivaci quando "La Civiltà Cattolica", in un articolo del 21 febbraio 1914 intitolato Sindacalismo cristiano?, metteva in causa non solo le varie tendenze interconfessionali, ma lo stesso sindacalismo. Quel termine aveva origini rivoluzionarie, fomentava la divisione di classe, teorizzava la lotta contro i padroni; insomma, aveva tutte le caratteristiche necessarie per renderlo del tutto antitetico al termine cristiano. Secondo la rivista dei Gesuiti, che avrebbe pubblicato altri articoli sull'argomento, il sindacalismo cristiano doveva essere considerato falso nei suoi presupposti e illusorio nei suoi scopi. Simile presa di posizione non poteva non sollevare gravi preoccupazioni; la rivista era abitualmente approvata, prima della sua pubblicazione, dalla Segreteria di Stato vaticana; e diverse testimonianze lasciavano capire che P. concordava con quegli interventi, che tra l'altro avevano sollevato perplessità all'interno della stessa Compagnia di Gesù. Non pochi pensavano che quegli articoli fossero la premessa a un nuovo documento pontificio, una specie di Sillabo antisindacalista, per combattere quella che E. Poulat ha chiamato l'ultima battaglia di Pio X. Il documento però non venne pubblicato, forse perché la guerra avrebbe richiesto altre attenzioni, ma più probabilmente grazie a qualche intervento presso il papa. Da vari documenti editi appare chiaro infatti che alcune note personalità, e fra queste G. Toniolo, uno dei più autorevoli ed ascoltati esponenti del cattolicesimo sociale, e i cardinali P. Maffi, di Pisa, e D. Mercier, di Malines, cercarono di dissuadere il papa da un intervento che poteva provocare grave turbamento nel mondo cattolico (v. A. Zussini, Luigi Caissotti di Chiusano e il movimento cattolico dal 1896 al 1915, Torino 1965, pp. 154-96). Riemergono in queste vicende i limiti culturali di papa Sarto: tutto preso dalla preoccupazione pastorale, ma scarsamente preparato a cogliere le profonde trasformazioni che la società stava vivendo e le conseguenze di una laicizzazione che nessun intervento autoritario avrebbe potuto frenare; sempre più rattristato da quello spirito di insubordinazione che credeva di scorgere ovunque, che lo spingeva a tornare in modo ossessivo sulla sottomissione e l'obbedienza al papa. Quando si ama il papa, aveva ancora detto in un discorso del 18 novembre 1912, non si discute sui limiti dell'obbedienza. Quando si ama il papa, si deve accettare che la sua autorità si estenda a tutti gli ambiti; e quando parla, gli si obbedisce e basta, senza chiedersi se è uscito dal suo ambito e se è informato sulle cose di cui parla. Era tornato su questi concetti nel discorso ai nuovi cardinali, il 27 maggio 1914, un intervento che sarebbe poi apparso quasi come il suo testamento. I nuovi porporati erano invitati a combattere contro ogni errore, a guardarsi dai falsi profeti, a mettere in guardia i preti da ogni forma di autonomia intellettuale e da tutte quelle pubblicazioni che la sostenevano, a incrementare le associazioni confessionali, consapevoli che il papa le preferiva, pur tollerando le altre in certe circostanze (Acta Apostolicae Sedis, IV, pp. 260-62). Il suo forte ecclesiocentrismo emergeva anche dagli atteggiamenti verso l'espansione missionaria, che portava lentamente le missioni cattoliche verso paesi prima ai margini. Il secondo Ottocento aveva visto l'espansione in Africa, ora ci si orientava sull'Asia. Il papa apriva un dialogo con diversi paesi asiatici, assumeva atteggiamenti di rispetto verso singoli governanti, cinesi e giapponesi. Ma nei suoi scritti destinati all'Opera per la propagazione della fede, anche in quelli in cui prendeva la difesa delle popolazioni indigene (ad esempio l'enciclica del giugno 1912, Lacrimabili statu indorum, in favore delle popolazioni indiane dell'America Meridionale), veniva costantemente teorizzato il ruolo dell'Europa nell'opera di civilizzazione di tutti i popoli, la necessità che per uscire dallo stato di inferiorità e di barbarie si accettasse la cultura europea e si diffondesse il cristianesimo come vero strumento di crescita umana, culturale e religiosa. Bisognerà aspettare i suoi successori perché si parli della necessaria formazione del clero indigeno, della missionarietà di tutta la Chiesa e non solo della gerarchia, della necessità di fare nascere le Chiese locali e non solo protettorati dipendenti dall'Occidente. Il papa però aveva coscienza delle difficoltà che andavano aumentando su questo versante. Le varie potenze coloniali, alle quali in qualche modo veniva demandato il ruolo di nazioni emancipatrici, la cui presenza nelle colonie avrebbe potuto aprire la strada alla evangelizzazione, avevano quasi tutte rapporti difficili con il Vaticano: l'Inghilterra non era cattolica, la Francia e il Portogallo avevano rotto i rapporti diplomatici, con l'Italia restava aperta la questione romana; anche con la Germania i rapporti ancora buoni erano peggiorati dopo la presa di posizione favorevole ai sindacati confessionali. Solo l'Austria poteva essere considerata un valido sostegno per la Chiesa: essa si presentava come il grande paese cattolico, che poteva anche giocare un ruolo importante nei confronti dei paesi slavi che tendevano a espandersi; il papa aveva poi una grande stima per l'imperatore Francesco Giuseppe. Il 24 giugno 1914 il Vaticano aveva firmato il concordato con la Serbia, grazie al quale veniva concessa ai cattolici libertà di culto. È probabile che gli Austriaci non avessero gradito quegli accordi, che a Roma avevano ritenuto opportuni. A un mese di distanza da quella firma scoppiava la crisi proprio tra l'Austria e la Serbia; e il papa avrebbe presto preso coscienza della sua scarsa possibilità di intervento con i canali diplomatici. Si disse che il papa avesse cercato di convincere l'imperatore austriaco a non provocare la guerra: ma non è facile provare la fondatezza di tali affermazioni. Grazie al concordato, si poteva intervenire sulla Serbia, invitandola ad accettare le condizioni poste dall'Austria, irritata per l'assassinio del principe ereditario. Una linea tra l'altro che coincideva con quella che aveva cercato di mettere in atto anche la diplomazia italiana. L'accettazione dell'ultimatum da parte della Serbia presupponeva che l'Austria si accontentasse delle scuse e della riparazione. Ma quale possibilità di successo avrebbero avuto simili interventi? Il papa comunque diede presto l'impressione di non sapere o volere fare altro che dichiarare la sua sofferenza per il dramma che si andava realizzando, incapace di compiere qualsiasi altro tentativo, che ormai considerava inutile. Il 2 agosto 1914 si rivolgeva a tutto il mondo cattolico chiedendo preghiere per il ritorno alla pace, con un discorso accorato, che lasciava trasparire un tragico sentimento di impotenza di fronte a un'Europa "quasi tutta trascinata nel vortice di una funestissima guerra" (testo del discorso ne "La Civiltà Cattolica", 65, 1914, nr. 3, pp. 486-87). Gli ultimi giorni della sua vita furono segnati dalle notizie della guerra, che peggiorarono il suo già precario stato di salute. Morì il 20 agosto 1914 e nell'immaginario popolare, in qualche modo confortato dalle dichiarazioni dei medici curanti, P. sarebbe stato considerato come una delle prime vittime della guerra stessa. A dieci anni dalla morte venivano avviati i vari processi locali in vista della sua beatificazione e il 12 febbraio 1943 sarebbe stato pubblicato il decreto per l'introduzione ufficiale della causa. Proprio le indagini relative a tale processo, le testimonianze di quanti avevano dovuto subire, e spesso ingiustamente, processi e condanne per ragioni dottrinali, ma soprattutto per lo zelo di troppi difensori dell'ortodossia, avrebbero indotto le Congregazioni romane ad aprire uno specifico capitolo di indagine dedicato ai metodi usati nella repressione antimodernista. I risultati ottenuti non furono brillanti, e soprattutto non fecero che confermare certe ipotesi: gli eccessi, quando ci furono, avevano una giustificazione nel fatto che il pericolo per la Chiesa era enorme, e proveniva dai suoi stessi seguaci; quindi si doveva tagliare il male alla radice, senza troppo badare ai metodi. La ricerca storica successiva avrebbe ridimensionato certe esagerazioni, per esempio sul ruolo e l'attività del "Sodalitium pianum" e del suo ideatore, monsignor U. Benigni. Ma avrebbe anche messo in crisi la linea apologetica tradizionale, volta a sostenere che le colpe maggiori erano di alcuni suoi collaboratori, mentre il papa era all'oscuro di certe manovre. Il papa sapeva, qualche volta accennava a rimproveri, ma riteneva che in certi momenti la difesa della Chiesa fosse la priorità assoluta da perseguire. In una nota lettera dell'ottobre 1912 al parroco di Casalpusterlengo aveva negato recisamente di essere all'oscuro di quanto succedeva in Vaticano. Lo pregava anzi di far sapere che il papa "nel governo della Chiesa è amorosamente aiutato da molti Em.mi Cardinali, ma che nessuno di questi si arroga di fare in di lui nome cosa alcuna che non sia in precedenza da lui ordinata e di pieno accordo stabilita; che quanti vanno propalando che sono tre Cardinali che comandano, sono di quegli esseri inqualificabili che non mancano mai nella Chiesa, i quali per sottrarsi all'ossequio doveroso, vogliono farsi la coscienza di non essere obbligati perché non è il papa che comanda" (Romana Beatificationis servi Dei Pii Papae X, pp. 123-24). Era dunque al corrente dei metodi usati nella repressione; gli mancavano però gli strumenti culturali che forse lo avrebbero aiutato a capire, anche senza accettare, una società che stava abbandonando ogni forma di sacralità e vivendo il passaggio alla laicizzazione: per P., quei processi erano solo opera di nemici da combattere. Naturalmente, non solo con le condanne, ma anche con una nuova e più forte proposta di presenza della Chiesa e del rafforzamento della cultura e della stessa fede dei credenti. Per questo, in ambito ecclesiale, aveva dedicato tanta attenzione alle riforme delle strutture e al miglioramento della catechesi e della liturgia. Le obiezioni non avrebbero fermato il processo di beatificazione al quale Pio XII parve particolarmente interessato. P., che era stato sepolto nelle Grotte vaticane, sarebbe stato beatificato il 3 giugno 1951 e canonizzato il 29 maggio 1954. La Chiesa lo festeggia il 21 agosto. Giovanni XXIII, suo successore sia a Venezia sia a Roma come pontefice, volle esaudire quella profezia che era attribuita a papa Sarto alla sua partenza da Venezia per il conclave, quando avrebbe detto "Vivo o morto ritornerò". Nell'aprile del 1959 la salma di P. sarebbe ritornata a Venezia, per restare esposta in S. Marco fino al 10 maggio, quando venne riportata a Roma. La tomba di papa Sarto era intanto stata trasferita dalle Grotte vaticane all'interno della basilica di S. Pietro.
fonti e biblibliografia
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Le encicliche e i vari testi del pontificato si trovano negli Acta Sanctae Sedis, XXXVI-XLI, ivi 1903-08, e negli Acta Apostolicae Sedis, I-VI, ivi 1909-14; sono stati recentemente ripubblicati in Enchiridion delle encicliche, IV, Pio X e Benedetto XV (1903-1922), Bologna 1998.
V. anche: San Pio X. Lettere, a cura di N. Vian, Padova 1958; Scritti inediti di San Pio X. 1958-1874, a cura di A. Sartoretto-F. da Riese, ivi 1971; Scritti inediti di San Pio X. 1875-1884, a cura di A. Sartoretto-F. da Riese, ivi 1974.
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