Bazin, André
Critico cinematografico francese, nato ad Angers (Maine-et-Loire) l'8 aprile 1918 e morto a Bry-sur-Marne (Seine-et-Marne) l'11 novembre 1958. Sospinto da un generoso slancio pedagogico e da una straordinaria vivacità intellettuale, e a ragione considerato il miglior critico cinematografico del secondo dopoguerra, B. seppe confrontarsi con le correnti più solide e problematiche della cultura francese ed europea (surrealismo, marxismo, esistenzialismo, fenomenologia) e disegnare, nel suo lavoro di critico militante, una precisa idea di cinema, accompagnando, e non di rado anticipando, le pratiche della 'modernità' cinematografica. Accusata di idealismo, realismo ingenuo, spiritualismo, la sua teorizzazione è piuttosto espressione della fenomenologia, dell'esistenzialismo e dello strutturalismo che hanno pervaso i più vivaci settori del pensiero progressista transalpino, con simpatie che vanno da H. Bergson, E. Mounier, P. Teilhard de Chardin a J.-P. Sartre, M. Merleau-Ponty, A. Malraux, E. Hemingway, W. Faulkner e J.R. Dos Passos. E ciò spiega la profonda influenza che ha avuto su un vasto numero di cineasti e studiosi, indipendentemente da appartenenze ideologiche, politiche, religiose. Effettuò i suoi studi presso le scuole di La Rochelle e di Versailles e successivamente all'École normale supérieure di Saint-Cloud, dove fondò un gruppo, Esprit. Nel 1942 iniziò la sua attività di critico cinematografico alla Maison des lettres, per proseguirla poi nel 1943 al- l'IDHEC (su "L'écho des étudiants", "L'information universitaire" e "Le courrier des étudiants") e, dal 1945, presso l'associazione culturale Travail et culture. Impegnato in un'intensa attività di animazione culturale, divenne critico presso "L'observateur" (poi "France-Observateur") e "Le Parisien libéré", e redattore di prestigio di "L'écran français", della rivista "Esprit", diretta da Albert Béguin ed espressione del personalismo di Emmanuel Mounier (che l'aveva fondata nel 1932), di "Les temps modernes", la rivista diretta da Jean-Paul Sartre e Maurice Merleau-Ponty, della seconda serie della rivista "La revue du cinéma", diretta da Jean-Georges Auriol, di "Radio-Cinéma-Télévision" (poi "Télérama") e della "Revue de l'éducation nationale". Nel 1951, con Jacques Doniol-Valcroze e Jean-Marie Lo Duca, fondò i "Cahiers du cinéma", culla della futura Nouvelle vague, cui collaborarono alcune delle migliori promesse del cinema francese, come François Truffaut, Jean-Luc Godard, Jacques Rivette, Eric Rohmer, Claude Chabrol.Buona parte degli scritti di B. è raccolta nei quattro volumi che portano il titolo Qu'est-ce que le cinéma?, editi a Parigi dalle Éditions du Cerf tra il 1958 e il 1962 (e di cui è stata pubblicata una traduzione parziale in Italia nel 1973 a cura di A. Aprà): I. Ontologie et langage, 1958; II. Le cinéma et les autres arts, 1959; III. Cinéma et sociologie, 1961; IV. Une esthétique de la réalité: le néo-réalisme, 1962. Sempre postume sono state pubblicate altre raccolte di articoli e saggi: Le cinéma de l'occupation et de la Résistance, che raccoglie, per opera di Truffaut e Janine Bazin, un'ampia selezione di scritti del periodo 1943-1945 (1975); Le cinéma de la cruauté (anch'esso con prefazione di Truffaut, 1975) e Le cinéma français de la Libération à la Nouvelle Vague (1945-1948), curato da Jean Narboni, 1983. B. ha lasciato anche diverse monografie, in parte incompiute, dedicate a Vittorio De Sica, Jean Renoir, Orson Welles e Charlie Chaplin, pubblicate la prima nel 1953, la seconda nel 1971 e le altre due nel 1973.
Fin dai primi scritti (1943), B. volle collegare al discorso sulla natura dell'arte cinematografica quello sulla critica e la sua funzione. Poiché il cinema è, per B., il "fatto estetico-sociale" più importante che si sia prodotto nell'era moderna, l'esortazione è a un atteggiamento critico che sia al riparo tanto dalla generica ignoranza della classe intellettuale, incapace di cogliere il nuovo perché arroccata sui territori delle arti consacrate da una tradizione libresca e universitaria, quanto dall'estetismo dei cineclub, incapace di comprendere le "leggi sociologiche fondamentali" della settima arte perché legato alle forme del cinema muto e disinteressato alla rivoluzione tecnica, economica e culturale provocata dal sonoro. Ciò che B. auspicava, per il progresso stesso del cinema, era il fatto che si ricostituisse un pubblico competente in materia, che di questo linguaggio conoscesse le tecni-che e la storia e che fosse perciò in grado di creare intorno all'opera un ambiente critico, di discussione e di giudizio estetico e socioculturale. Egli riteneva che un ruolo decisivo in questa direzione potessero svolgerlo le cattedre universitarie di cinema, la costituzione delle quali, insieme con il funzionamento a pieno ritmo della "Cinémathèque", B. riteneva indispensabili per una "presa di coscienza del fatto cinematografico" da parte del pubblico. Fatto complesso, che investe una pluralità di discipline, come la psicologia della percezione, la sociologia e la statistica, la psicoanalisi e la politica. Questa posizione, espressa da B. in una serie di articoli del 1943, anticipa le linee guida dei suoi scritti più maturi: quella secondo la quale il cinema va indagato al tempo stesso con gli strumenti dell'estetica (per comprendere il senso dell'opera, che non può essere disgiunto dalla sua collocazione nella storia del linguaggio cinematografico) e con quelli delle cosiddette scienze umane (per interpretare la funzione antropologica, sociale, storica e politica sia del film sia del cinema considerato nel suo complesso; linea, questa, che anticipa anche il lavoro di Gilbert Cohen-Séat e della filmologia); quella secondo cui con il sonoro, sia dal punto di vista tecnico sia da quello estetico, è iniziata una fase complessa del linguaggio, cui deve corrisponderne un'altra altrettanto complessa nella competenza della critica, la quale non dovrà essere più legata all'estetica "di élite" del cinema "puro" avanguardista; quella di una funzione "pedagogica" della critica, vale a dire la sua capacità di innescare nel pubblico processi di conoscenza estetica e di più ampio dibattito culturale, politico, storiografico, come condizione indispensabile alla salute stessa dell'arte cinematografica.Il cinema come arte 'fenomenologica' per eccellenza.
Attraverso il suo lavoro di critico militante, B. seppe tracciare i contorni di un'originale idea di cinema, radicata nella cultura, in larga misura di stampo fenomenologico ed esistenzialista, di cui egli fu espressione. Il punto di partenza è un concetto di realismo non riconducibile alle accezioni comuni della parola, ma piuttosto radicato nella riproduttività ottico-meccanico-chimica propria della fotografia e del cinema. "Il realismo oggettivo della cinepresa determina fatalmente la sua estetica" osserva B. nel 1944 (poi in A. Bazin, Le cinéma de l'occupation et de la Résistance, 1975, p. 92), portando a esempio i film di Max Linder e Tabu di Friedrich Wilhelm Murnau, sempre attuali a distanza di tempo perché capaci di "cercare l'eternità nell'esattezza dell'istante". Non dunque un realismo come 'retorica' del cinema, confrontabile, per es., con il realismo poetico francese o con il realismo socialista, ma qualcosa di molto diverso: la coscienza del carattere riproduttivo del dispositivo tecnico cinematografico, la quale, portata a livello di poetica autoriale, si fa motore di un atteggiamento estetico. Coscienza che B. trova in quelli che chiama i registi che "credono nella realtà" e che contrappone ai registi che "credono nell'immagine", distinzione che per lo studioso ha un'importanza, nella storia del linguaggio cinematografico, non inferiore a quella del passaggio dal muto al sonoro. Nel cinema del secondo dopoguerra, B. ritiene realizzato questo percorso nel Neorealismo italiano, e in particolare nei film di Roberto Rossellini e della coppia De Sica-Zavattini. Con la sua interpretazione della "Scuola italiana della Liberazione", B. partecipò da protagonista al contesto teorico-critico che portò alla definizione del Neorealismo come "realismo fenomenologico" da parte di Amédée Ayfre, da B. introdotto come critico cinematografico nella rivista "Esprit". Il primo punto che B. mette in rilievo nel realismo proposto dal cinema italiano è il fatto che esso, come tutti i realismi in arte, è profondamente "estetico", vale a dire costituisce un'evoluzione del linguaggio cinematografico, "un'estensione della sua stilistica". Siamo dunque all'opposto del realismo ingenuo rimproverato a B. da una critica riduttiva, che non ha voluto vedere come sia inserita, esplicitamente, in un discorso sull'evoluzione delle "forme" quella "ontologia" baziniana troppo spesso equivocata, che collega il cinema alla riproduzione fotografica e alla storia del naturalismo nelle arti dell'Occidente. Collocato così a livello formale, il discorso di B. sul Neorealismo italiano individua gli effetti della rivoluzione stilistica, di cui sono portatori film come Paisà di Rossellini, Ladri di biciclette di De Sica, La terra trema di Luchino Visconti, nella rottura degli automatismi produttivi e intellettivi del découpage classico e la sostanza del suo procedimento formale nella rottura del continuum narrativo attraverso la sostituzione del "fatto" alla "inquadratura" come unità del racconto cinematografico. Il fatto, vale a dire il "frammento di realtà bruta, in sé stesso multiplo ed equivoco" (in "Esprit", janvier 1948, poi ripubblicato in Qu'est-ce que le cinéma?, IV, 1962; trad. it. 1973, p. 299) è per B. il limite verso cui tende questa forma nuova, che punta alla scomparsa dell'attore, della messinscena, dell'azione e delle drammaturgie tradizionali, fino alla scomparsa paradossale del cinema stesso, in un'operazione di sofisticazione stilistica e di negazione delle forme classiche che mette in gioco un interrogativo radicale sull'atto del filmare. Il cinema fenomenologico di B. è tutto giocato in questa problematicità del gesto registico, che viola la norma classica sospendendo gli automatismi della produzione del senso e ritrovando la capacità di interrogarsi di fronte alle cose, riscoprendo l'ambiguità del reale al di là di ogni ideologia e di ogni sapere ereditato dal passato. In questo interrogare sé stesso e le cose, e nell'esibizione implicita di questo interrogativo, vale a dire di questa relazione fenomenologica tra la cinepresa e la realtà, consiste il cuore stesso di questo cinema e il senso più profondo della sua rivoluzione.
Più ancora che nel discorso sul Neorealismo, l'originalità del pensiero di B. risulta chiara nei saggi che egli dedicò al rapporto tra il cinema e le altre arti. Il più importante di questi scritti è quello sul film di Robert Bresson Le journal d'un curé de campagne del 1951, pubblicato sui "Cahiers du cinéma" nello stesso anno, in cui B. traccia il modello di un adattamento moderno dell'opera letteraria al cinema, contrapposto a quello tradizionale. Mentre quest'ultimo considera il testo letterario da adattare come un serbatoio di psicologie e di situazioni drammatiche e procede a una loro riscrittura senza curarsi del tessuto stilistico del testo, il modello illustrato da Bresson (e, prima di lui, osserva B., da Jean-Pierre Melville in Le silence de la mer, 1949, da Vercors) tratta il romanzo di G. Bernanos come una "realtà seconda", un "materiale grezzo", che non si deve cercare di "adattare" ma piuttosto di confermare nella sua essenza letteraria. È per questo, osserva B., che i dialoghi del film sono esattamente quelli del romanzo, che Bresson rifiuta di riscrivere, semplicemente tagliandoli e presentandoli come "frammenti originali" che denunciano apertamente la loro origine letteraria. Personaggi, scenografie e romanzo sono per Bresson tre realtà date, che il film riconferma nella loro matericità. Il risultato, osserva B., è un cinema antipsicologistico, antiespressionista, dove il senso più profondo è attingibile proprio grazie al fatto che tutto vi è giocato in superficie: il volto dell'interprete è "ridotto all'epidermide", la natura che lo circonda è "priva di artifici", il romanzo è "confermato nella sua essenza", considerato come una realtà in sé, vale a dire nel tessuto di relazioni semantiche di cui risulta costituito, non più inventario di situazioni e di psicologie cui attingere, come nell'adattamento classico, ma testo concreto nella sua strutturazione e nel suo stile, che non va dissolto ma al contrario "messo in risalto" dal film. Questa reciproca articolazione di cinema e letteratura, questo scarto sempre mantenuto tra i due testi che si affrontano e slittano uno sull'altro, in un confronto tra poetiche e tra linguaggi, delineano non soltanto un possibile modo di essere dell'adattamento, ma anche un possibile modo di essere del cinema. Quello che B. prospetta attraverso l'esempio dell'adattamento, infatti, è un rapporto tra forma e materiali tale per cui questi ultimi (le tante realtà profilmiche), nell'operazione della riproduzione cinematografica, conservano un residuo della loro materialità e vengono esibiti come tali, vale a dire come materiali che hanno una loro esistenza anche indipendentemente da quella cinematografica e che pertanto indicano un punto, al limite della forma, in cui collocare un interrogativo radicale sul linguaggio cinematografico e sulla funzione della regia (in modo non dissimile, osserva B., da quanto, nella poesia, è accaduto con la "pagina bianca" di S. Mallarmé e con il "silenzio" di J.-N.-A. Rimbaud). È l'approccio fenomenologico che ritorna a definire ancora una volta questo cinema dalla fortissima impronta riproduttiva, che B. chiama moderno, come luogo di un interrogativo portato al tempo stesso sui materiali e sul cinema, sul senso della realtà e sul senso del filmare. Un interrogativo, dunque, dalla fortissima valenza esistenziale, che è merito di B. aver mostrato operante in alcune delle pratiche di regia a lui contemporanee, e aver indicato come la via più interessante del cinema del dopoguerra, aprendo così la strada alla Nouvelle vague e al nuovo cinema internazionale degli anni Sessanta. La via, cioè, sulla quale si sarebbero posti cineasti come Truffaut (che a B. avrebbe dedicato il suo primo lungometraggio) e Godard, Rivette e Jean Eustache in Francia, Pier Paolo Pasolini e Bernardo Bertolucci in Italia, e non pochi altri, esponenti della nuova avanguardia della modernità cinematografica.
Omaggio a André Bazin, Biennale di Venezia, XX Mostra internazionale d'arte cinematografica, Venezia [1959].
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