tmesi
tmèṡi s. f. [dal lat. tardo tmesis, gr. τμῆσις, der. di τέμνω «tagliare»]. – 1. In linguistica, e in partic. nella storia delle lingue classiche, distacco della preposizione dal verbo finito con cui è composta, frequente soprattutto in Omero ma non ignoto al latino arcaico (sub vos placo = vos supplico): esso veniva inteso dagli antichi grammatici come taglio (tmesi), mentre in realtà si tratta di continuazione d’un più antico stato di cose nel quale il preverbio non era ancora prefissato al verbo. I poeti latini imitarono talvolta liberamente, anche fuori delle forme verbali, la tmesi omerica: «Garrulus hunc quando consumet cumque» (= quandocumque consumet; Orazio, Sat. IX, 33). 2. Nella metrica italiana, divisione di una parola in due parti di cui una alla fine di un verso e l’altra al principio del successivo, analogamente a quanto poteva accadere in greco tra due membri metrici uniti da sinafia (v.), per es. il terzo endecasillabo e l’adonio della strofe saffica. La tmesi si fa per solito fra due parti di una parola che siano etimologicamente distinte: «Fece la donna di sua man le sopra-/vesti» (Ariosto, Orl. Fur. XLI, 32); «Io mi ritrovo a piangere infinita-/mente con te» (Pascoli, Myricae, «Colloquio», II, vv. 6-7); raramente in altri casi: «L’ultimo, in terra, il capo ciondo-/loni via via le urtava» (Pascoli, Nuovi poem., «Gli emigranti nella luna», canto II, vv. 11-12).