tardare
v. intr. e tr. [lat. tardare, der. di tardus «lento»]. – 1. intr. (aus. avere) a. Giungere in un luogo o fare qualche cosa oltre il limite di tempo che sarebbe necessario, conveniente, desiderabile; spesso con un compl. indicante il termine cui si deve giungere, la cosa che si deve fare: t. a cena, t. a presentarsi, a rispondere, a capire; t. nel pagamento; Ma perché tu, aspettando, non tarde A l’alto fine (Dante). Spesso assol.: scusate se ho tardato; non vorrei tardare; anche con riferimento a persona che non è ancora giunta, non ha fatto ancora ciò che dovrebbe: non capisco perché tardi tanto; Del tuo lungo tardar solo si cruccia (Parini). b. letter. Con uso impers. e compl. di termine della persona, parere tardi, di cosa che si attende con ansia e ancora non viene: Oh quanto tarda a me ch’altri qui giunga! (Dante); avrei dovuto accorgermi che all’ufficiale tardava di essere lasciato solo con la sua carta e i suoi uomini (Svevo); e assol., avere fretta: Già tarda a la tua dama; e già con essa Precipitosamente al corso arrivi (Parini). 2. tr. Forma letter. o meno com. di ritardare: t. la consegna; rendere più lento, impedire nel cammino: vidi due mostrar gran fretta ... d’esser meco; Ma tardavali ’l carco e la via stretta (Dante); precorsa è la fama ... Che già s’è mosso e che non è chi ’l tardi (T. Tasso), chi lo trattenga.