spasimare
spaṡimare (ant. spasmare) v. intr. [der. di spasimo] (io spàṡimo, ecc.; aus. avere). – 1. non com. Essere in preda a spasimi, a dolori molto forti e acuti: ho una colica che mi fa s.; ha spasimato tutta la notte per il dolore; con valore estens. e spesso iperb., soffrire: s. di sete; spasima per il caldo. 2. fig. Desiderare ardentemente: spasima di tornare a casa; i soldati spasimavano di rivedere la famiglia; è tanto che quei due spasimano di sposarsi; s. per uno, per una, esserne innamorato: Il crudel sa che per lui spasmo e moro (Ariosto); anche con uso assol.: quel folle e sì ricantato amore del giovane [Narciso], che, fatto il volto a specchiarsi nell’acque, invaghì fino a spasimar della vana imagine di se stesso (D. Bartoli). ◆ Part. pres. spaṡimante, anche come sost. (v. la voce). ◆ Part. pass. spaṡimato, ant., preso dagli spasimi d’amore o che li esprime: facciamo all’amore da lontano con letteruzze spasimate (G. Gozzi); anche come sost., innamorato, corteggiatore: io, che son pur giovane, ... facevo lo spasimato (A. F. Doni). In araldica, attributo del delfino raffigurato con la bocca aperta e senza lingua.