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miṡerère

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miserere


miṡerère s. m. e v. intr. [voce lat., 2a pers. sing. dell’imperat. di misereri «avere pietà»; quindi: «abbi pietà, abbi misericordia»]. – 1. s. m., invar. a. Nome di uno, il più noto, dei sette salmi penitenziali, così detto dalla parola con cui ha inizio nella versione latina della Vulgata (Miserere mei, Deus, secundum magnam misericordiam tuam «Pietà di me, o Dio, per la tua grande misericordia»); è recitato, o cantato, nella liturgia romana in circostanze di dolore pubblico o privato, negli uffici funebri, ecc. b. Con riferimento al rito funebre, ha il sign. di lamentazione, rammarico lamentoso: non ricominciamo adesso coi miserere (Silone); di qui anche le espressioni fig.: essere (o essere ridotto, essere giunto) al m., essere in fin di vita, o anche, scherz., essere all’estremo delle forze, delle possibilità economiche; dire, cantare il m. a qualcuno, considerarlo finito; faccia da m., cadaverica, da moribondo. Analogam., mal del m., termine con cui la medicina antica indicava l’occlusione intestinale acuta giunta ormai allo stadio del vomito fecaloide, in quanto quest’ultimo sintomo era ritenuto segno certo di esito infausto. 2. Con valore verbale, e col sign. che ha in latino, la parola è usata anche in contesti italiani, per lo più come reminiscenza delle espressioni liturgiche: «Miserere di me» gridai a lui (Dante); Miserere del mio non degno affanno (Petrarca). Nel linguaggio com. oggi è solo scherz., in frasi con cui si chiede scusa o perdono: miserere (o miserere di me, o miserere mei), non lo farò più; miserere di noi (o miserere nobis, dalla formula delle litanie).

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